Sempre
più crudeli, più efferati nell’infliggere torture, mutilazioni,
umiliazioni, sofferenze. Tutti, senza distinzione: non c’è salvezza, non c’è
redenzione nell’atroce scia di sangue che Il cartello si
lascia alle spalle. E’ una vera e propria guerra, spietata e
insensata che, come tutte le guerre moderne dal ventesimo in secolo
in poi, non distingue tra soldati e civili, chiunque è un
bersaglio, anche se mascherati come vittima collaterale o qualsiasi
altro eufemismo venga usato. La vendetta è tutto, il potere della
morte è tutto e quello che resta è il deserto e città popolate da
fantasmi, con Ciudad Juárez in cima alla lista. Don Winslow spiega
molto bene come nasce la guerra per e contro il traffico di droga, la
condizione apocalittica del Messico moderno (né più né meno di
quello antico) e l’attinenza alla cronaca e alla realtà (Il
cartello è, de facto, un romanzo storico) colpisce, insieme
all’abilità di rendere intellegibili i modus operandi dei
cartelli, dei trafficanti, delle forze di polizia, dell’esercito,
delle agenzie federali degli Stati Uniti, degli agenti sotto
copertura, dei cambiamenti di ruolo e di strategia, delle
trasformazioni delle alleanze, delle tregue e degli scontri in
un’orgia di inaudita violenza. Senza fine e senza senso perché,
come si era già capito con Il potere del cane e come diventa
ridondante con Il cartello, puoi anche vincere una guerra, ed
essere il più potente, ma non sarai mai al sicuro. Art Keller non è
estraneo alla sete di morte, alla devozione ai meccanismi (senza
ritorno) della vendetta perché la guerra è in sé una vendetta, e
soltanto quello. Ha varcato il confine già con Il potere del
cane, mentre Il cartello porta lo porta un passo più in
là. Avrebbe voluto restare nel suo buen retiro, ad allevare le api,
ma sapeva che il passato, quel passato che non passa mai, l’avrebbe
richiamato. Teneva una pistola nascosta tra le arnie ed è così che
“Keller è diventato un blues, uno dei perdenti di Tom Waits, uno
dei santi di Kerouac, un eroe di Springsteen sotto le luci delle
autostrade americane e i neon dei locali. Un fuggiasco, un
bracciante, un vagabondo, un cowboy che, pur sapendo di essere
arrivato alla fine della prateria, continua a galoppare, perché non
c’è altro da fare”. Quando Adán Barrera, il señor, torna in
Messico, è chiaro che la lotta riprenderà: il traffico di droga, la
malefica rotta dal produttore al consumatore, diventa (persino)
relativo. E’ paradossale, ma è proprio così, Il cartello mostra
una dimensione differente, e più allarmante. L’obiettivo è una
forma di controllo del territorio e (quindi) di governo, con le sue
suddivisioni (le plaza) e le sue tasse (il piso).
Questo è il messaggio che si allunga attraverso Il cartello.
E’ una partita a scacchi, fragile e pericolosa, che si allarga a
macchia d’olio dal Messico, anche se l’epicentro resta lì. Solo
che è una scacchiera dove la separazione tra i bianchi e i neri non
è così chiara e le mosse delle pedine non sono mai corrette. Non si
tratta (soltanto) delle zone d’ombra: è che capita con una certa
frequenza che i bianchi diventino neri e i neri diventino bianchi. I
ribaltamenti di fronte sono repentini: con un cambio di alleanza, un
matrimonio, una fuga, un accordo, un tradimento. L’unico aspetto
che rimane inalterato è il nodo che unisce Art Keller e Adán
Barrera, visto che uno è la nemesi dell’altro. Art Keller lo
insegue come una vocazione, un’ossessione, una meta che è lo scopo
della sua vita e su cui giocare la carta della morte, la sua e quella
di Adán Barrera. Attorno agli opposti estremi, Don Winslow vira
tutto con il ritmo forsennato di un thriller che lascia senza fiato:
spietato, serrato, trascinante Il cartello è un romanzo epico
che racconta una realtà tragica.
domenica 27 dicembre 2015
lunedì 21 dicembre 2015
Jason Starr
Westchester,
poco a sud di New York, è una delle contee più agiate degli Stati
Uniti e con il suo country club, la sua esclusività, la sua opulenza
è qualcosa in più di una (ricca) zona residenziale: è un modo di
esprimere un tenore di vita. Per dire, Mark e Deb Berman sono reduci
dalla festa d’inaugurazione di una villa da qualche milione di
dollari e stanno litigando perché lei lo ha visto un po’ troppo
vicino a Karen Daily, amica e vicina di casa. E’ da quell’equivoco
che si genera tutta la cupa storia di Savage
Lane. La famiglia di
Mark Berman è speculare a quella di Karen (figli compresi), ma in
modi diversi lui e lei infrangono le regole e l’equilibrio di
Savage Lane,
per quanto ipocrita e superficiale possa essere. Mark proietta le sue
illusioni senza sosta, credendo all’infinito (e oltre) nell’amore
di Karen, che è inesistente. Questo è il primo detonatore perché
la sua insistenza non tiene conto del paradigma di Savage
Lane reso esplicito
da Jason Starr: “Le fantasie sembrano meravigliose, ma sono solo
una droga di passaggio. Ne hai bisogno sempre di più e alla fine,
quando subentra la realtà, sei completamente fottuto”. All’estremo
opposto, Karen è aggrappata alla realtà. Non ha alternative: è
sola, è divorziata, è libera e indipendente. Tutti elementi che la
mettono su un binario deviante dalla supposta normalità di Savage
Lane, nonostante sia
la più equilibrata. A Deb la famiglia, una bella casa, le comodità
non bastano più: ha un problema con l’alcol e una relazione con un
ragazzo minorenne, Owen Harrison, aggravata dall’uso di giochi
erotici più o meno pericolosi. Jason Starr non usa un linguaggio
ricercato: i personaggi sono accennati, per sommi capi, per quanto
evidenti, e lo stile è molto pop, efficace e cadenzato. Quello che
avvolge e impone, in pratica, al lettore di cominciare e finire
Savage Lane
senza mollarlo un attimo è la sua abilità nel disegnare geometrie
sempre sul filo del rasoio, con le frustrazioni, la disperazione, il
desiderio che spingono con insistenza a varcare i confini della
moralità e della legalità. L’intreccio è uno schema chiuso su se
stesso, una rete elettrica in cui la trasgressione e la noia
costituiscono le due polarità e convergono verso il corto circuito,
inevitabile. L’angoscia che genera nel riprodurre le
contrapposizioni, i miraggi, i sotterfugi è ipnotizzante. Non ci
sono grandi spargimenti di sangue (si tratta di un omicidio, e un
altro nel passato) o scene spettacolari, ma la tensione è sempre
altissima proprio per questa ambiguità. L’assassino è soltanto
uno e Jason Starr lo mostra senza tante esitazioni, in un momento che
pare proprio rivelatorio. C’è una vittima e sono tutti colpevoli
proprio per via delle fantasie, delle supposizioni, dei pettegolezzi,
dall’arrivo degli inviati dei notiziari. Persino la stessa vittima,
anzi, soprattutto la stessa vittima, è colpevole. In questo Jason
Starr è molto concreto: nell’era del Patriot Act e della telefonia
mobile non c’è scampo, soprattutto se di cellulari ne hai un paio.
Puoi pure sotterrarli con il cadavere, ma le tracce restano sempre, e
comunque non sarà quella la soluzione del caso. Savage
Lane si svolge
(drammatica conclusione compresa) nello spazio ristretto della vita
quotidiana: un paio di isolati, la scuola (o meglio, il parcheggio
della scuola), la piscina, il country club, i figli, tutto a breve
distanza, dentro i confini del quartiere. I suoi limiti sono
immutabili e invalicabili. L’unico vero lusso è la follia.
mercoledì 16 dicembre 2015
Richard Price
La
vita non è facile, per i Clockers.
Sono imprigionati nella forma di una città che genera periferie,
quartieri popolari dalle geometrie che non compongono, comprimono.
Dempsy, l’immaginaria (ma nemmeno tanto) area urbana tra Newark e
il New Jersey, non è NYC, è la metropoli senza esserlo, un intero
subcontinente “dove tutti avevano l’aria di essere sul punto di
andare da qualche parte, ma in realtà non si allontanavano mai per
più di quindici metri”. Nell’incipit di Clockers,
è come se Richard Price osservasse la scena dall’alto e la visione
d’insieme concorre a delineare un terra desolata che è l’habitat
naturale del pericolo e della paura. Per dirla con Sam Shepard “tanto
per cominciare, non c’era nessuna città” e l’elemento
architettonico che senza dubbio determina i confini invisibili e
scandisce i ritmi dei movimenti dei Clockers
resta indefinito, così come la distinzione tra la legge e la
giustizia o meglio la marginalità di entrambe. Gli edifici sono
enormi, anonimi, grigi e opprimenti. Gli appartamenti sono troppo
piccoli, troppo affollati o troppo vuoti. La vita avviene nelle
strade, dove tutti si rincorrono e le distanze sono minime eppure
complesse perché “all’altro lato della strada può succedere di
tutto”. Il problema non è soltanto la separazione delle
giurisdizioni o la divisione territoriale dello spaccio. E’ quella
sorta di terra comune, un complicato processo chimico di soluzione
dove le componenti non riescono né a fondersi né a dividersi. La
constatazione è lapidaria, quando si capisce che “poteva succedere
qualsiasi cosa a chiunque; da quelle parti tutti erano o colpevoli o
stavano per diventarlo”. Sono tutti Clockers,
in effetti, e i personaggi rimbalzano come la pallina di un flipper
che sembra in preda al caos e all’energia e invece segue percorsi
tracciati e obbligati. Rocco Klein e Manzilli, Duck Gathers, Thumper,
Big Chief e tutti gli altri poliziotti sono incastrati sui
marciapiedi, senza speranze, senza aspettative, con doppi lavori e
doppi giochi, proprio come Strike (il protagonista) e suo fratello
Victor Dunham, Champ, Darryl Adams, Futon, Peanut, Rodney, Buddha
Hat. L’unico che si salva, perché si defila, è Sean Touhey, un
attore in cerca di ispirazione che assiste alle scene dei crimini. E’
un personaggio secondario, rispetto ai Clockers,
ma quando comincia a vedere vomito, sangue, bossoli, lacrime,
disperazione capisce che nel labirinto di Dempsey “non hanno futuro
perché il futuro non l’hanno nemmeno in mente” ed è lesto a
scomparire, come a sottolineare che tutti stanno interpretando un
ruolo che lui non è in grado di reggere. L’approccio di Richard
Price è quasi antropologico nell’esaminare le deviazioni umane e la condizione di isolamento nella realtà del quartiere e delle sue guerre
quotidiane: gli spazi sono
ridotti, il terreno limitato ed è fatale comprendere che “non è
questo il modo di vivere, ma la tua vita è dove sei adesso, quindi
cosa ci puoi fare?”. Niente, e nelle strade succede tutto il resto:
“la gente crepa ogni momento”, o l’aspetta, inevitabile, il
carcere. I meccanismi perversi dello spaccio e del consumo (“L’unico
paradiso che vogliono”) sono una versione dell’economia di
mercato adeguata alla “street life” con la supponenza dei
Clockers
quando sostengono che “da come abbiamo sistemato le cose, è un
commercio quasi legittimo”. Come diceva Jim Carroll, la routine del
tossico non è molto diversa da chi ha un lavoro normale, solo che
gli orari sono spostati verso le tenebre. Clockers
ampia quel concetto, raccontando la vita, e la morte, quando ci sono
“troppe ore della notte ancora davanti a sé”. L’angoscia è
trattata con metodo, con meticolosa attenzione ai dettagli e lo
slang, le battute, il ritmo stesso dei dialoghi (che è proprio
hip-hop) è riprodotto da Richard Price con uno scrupolo più che
realista. E’ straordinario a convogliare nel linguaggio, sincopato,
strascicato, gergale, spietato la geografia urbana, giungendo alla
conclusione che, per i Clockers,
“oltre alla classe, l’altra cosa necessaria per stare sulla
cresta dell’onda è la paura”. Micidiale.
lunedì 14 dicembre 2015
Ben Lerner
La nota di
autoreferenzialità all’inizio è quella che determina l’andamento
di tutto il libro. Un costante guardarsi l’ombelico (e anche più
giù) mentre fuori succede ogni cosa, ma il contatto è sempre
evanescente, se non assente, a parte il forzato richiamo sulla
pagina. Ben Lerner (e/o il suo personaggio ipocondriaco) si divide
tra la diagnosi di un rischio cardiaco, la richiesta dell’amica
Alex di un aiuto per diventare madre e l’idea di concretizzare “un
diorama del futuro” o una rappresentazione né standard né lineare
dei movimenti del tempo, e della storia. Solo che, visto da vicino,
Nel mondo a venire è
un collage con parti di racconti, di poesie, di lezioni, di
recensioni ed identificabile persino “una serie di appunti per un
romanzo”. Ben Lerner è molto abile a tenere tutto insieme, ma la
prospettiva è falsata e Nel mondo a venire
manca là proprio dove vorrebbe essere: la narrazione porta i sintomi
di un romanzo senza esserlo. Entrare nel suo club esclusivo vuol dire
accettarlo, non esserne coinvolti, comprenderlo senza condividerlo, e
una prima ammissione di questa distanza è quando Ben Lerner scrive
che “quello che di norma sembrava l’unico mondo possibile
diventava un mondo fra tanti, e il suo significato instabile,
collocabile ovunque, anche se solo per un attimo”. Il tentativo per
quanto elaborato, pare maldestro: c’è questa coazione a ripetere
situazioni, percezioni, commenti. Più di una volta con la stessa,
identica frase. Alla fine, in buona sostanza, sono ancora le mille
luci di New York, questa volta viste dall’altra sponda dell’Hudson,
con Brooklyn diventata cool negli ultimi anni, senza quella patina
leggera e brillante che per una breve stagione aveva avuto pur senso
(e successo). Ben Lerner invece sovrappone un po’ troppo: “la
globalità del mondo in termini apocalittici” e le cronache dal
dentista, i ruoli e gli interpreti, i toni e i ritmi, le dimensioni e
le conclusioni, lo scrittore e il lettore. Il meccanismo, in sé, si
risolve in una sorta di diario con un’unica vocazione: non ho
niente da dire, ma lo dico benissimo. Soltanto la rievocazione
dell’esplosione dello shuttle Challenger
ha qualche sprazzo di lucidità, ma poi Ben Lerner, nel continuo
tentativo di importare tutto nella sua quotidianità, o in quella del
suo alter ego, lo riduce a una cornice molto ampia, riempita dai
ricordi infantili e dalle barzellette così come dalla prosopopea di
Ronald Reagan. Un bel discorso inzuppato di luoghi comuni può essere
sufficiente per un’orazione politica (eccome, se lo è stato). Per
un romanzo serve qualcosa di più e tra le righe Ben Lerner sembra
confessarlo quando dice che “più l’autore di affannava a
distinguersi dal narratore, più gli sembrava di essere diventato
identico a lui”. Nello stesso modo accosta la descrizione di pranzi
e cene alle chiacchiere e ai pettegolezzi sull’editoria e sul suo
futuro in conversazioni un po’ brille con un’atmosfera che non è
né fiction, né realtà, è soltanto finta ed evanescente. Ci deve
essere un limite tra l’ambizioso e il pretenzioso, almeno una
distinzione, una separazione. Si capisce dove vuole arrivare Ben
Lerner, soltanto che non ci arriva: Nel mondo
a venire resta lì, un esercizio di stile,
autoindulgente ed eseguito alla perfezione.
venerdì 11 dicembre 2015
John Trudell
John Trudell lo chiamava Rant And Roll, proprio come la canzone che apriva Johnny Damas And Me. Un modo di intendere l’uso della parola, della poesia e della musica che le riassume in un solo corpo con uno spirito combattivo distinto da “umiltà e gratitudine”. Per essere quello che è stato, libero, coraggioso, sincero, per dire quello che ha detto, ha pagato un prezzo inimmaginabile, inseguito e perseguitato come ogni ribelle, ammirato e difeso da tutti gli outsider, una nuova tribù in cui si è riconosciuto e che l’ha adottato. Kris Kristofferson lo definiva “un pazzo lupo solitario, un predicatore, un guerriero pieno di paura e divertimento e risate e amore. E’ reale. La giustizia è un fuoco che brucia dentro di lui. Il suo spirito urla per quello e lo rende pericoloso”. La sua poetica è sempre stata limpida e lineare: nelle canzoni, nei versi, nei discorsi. L’uomo e la donna (la donna, soprattutto) erano sempre il cuore dell’universo delle sue riflessioni, insieme alla terra, con l’imperativo di “trovare un modo per comunicare i nostri pensieri, la nostra resistenza e la nostra coscienza”, per difendersi dalle menzogne, dall’avidità, dallo sfruttamento economico, dalla disinformazione, dalla decadenza e da tutto ciò che alimenta la Rich Man’s War. Non c’era niente di esotico o di mistico nel suo salmodiare, cantava con una semplicità profetica che ilGrafitti Man riassumeva così: “Sono solo un essere umano che prova a esserlo in un mondo che sta perdendo molto rapidamente la comprensione degli esseri umani. E’ quello di cui abbiamo assolutamente bisogno: esprimere i nostri sentimenti e capirci, conoscerci, ritrovarsi. Dobbiamo farlo, non c’è alternativa, non c’è possibilità di nascondersi. Essere quello che diciamo e dire quello che siamo: questa è la via”. All’orizzonte non c’era sconfitta o vittoria, né premio o condanna, per John Trudell esporsi, esprimersi non era nemmeno la cosa giusta, era l’unica: “E’ sempre sembrato che il meglio che potessimo fare non era mai abbastanza, in qualche modo non si arrivava mai nei posti che stavamo cercando, domani il vicino davanti a noi, il nostro passato nel tempo, con le risate di ieri che riecheggiano nelle ombre di promesse dimenticate, lottiamo per andare avanti prendendo ogni giorno, uno alla volta, riparando e spezzando, creando modelli per la nostra vita”. John Trudell si ostinava a non lasciarsi incastrare in un’identità, in una forma, a inseguire una disperata essenzialità: “Siamo una generazione che non ha poeti. Gli unici poeti con cui possiamo confrontarci sono morti e non ne abbiamo altri perché i poeti che sono diventati rock’n’roll star non vengono riconosciuti come poeti, ma come songwriter, ma comunque c’è un posto dove poter recitare le nostre parole nella nostra realtà. E infatti qualcuno mi chiama poeta. Qualcun altro dice che sono un militante. C’è anche chi sostiene che la mia poesia e la mia musica siano politiche. Altri dicono che parlano dello spirito del mio popolo. Non mi ritrovo in tutte queste etichette. Probabilmente c’è un po’ di tutto ciò, ma sento di essere qualcosa in più di ogni singolo aspetto. E’ quello che tutti noi siamo. E’ ciò che ci rende umani”. La voce dei Blue Indians non è stata soltanto una Tribal Voice, aveva una dimensione universale, un canto che è stato primordiale e rock’n’roll, in questo incontrollabile, come ammetteva lo stesso John Trudell: “Ovviamente sapete che sono impazzito. Sono impazzito molto tempo fa. Fidatevi, è il posto più sicuro”. Buon viaggio, Crazy Horse.
lunedì 7 dicembre 2015
Elliott Murphy
Le
Note al caffé di Elliott Murphy rispecchiano la tradizione
degli appunti raccolti en passant, dai bistrot parigini alle osterie
venete, tutti luoghi che nei suoi tour ha conosciuto da vicino, tanto
è vero che si è lasciato New York alle spalle per trasferirsi in
via definitiva nella Ville Lumière. Nel passaggio, la sua identità
di raffinato songwriter si è evoluta verso altre forme di scrittura,
giornalismo e narrativa compresi nell’elenco che si sono ricavati
uno spazio tra una scorribanda e l’altra. La prima connotazione
delle Note al caffé deriva proprio dalle caratteristica
europee di questo diario di viaggio. Come tutti gli americani in
trasferta, o in esilio, prima di lui (soprattutto gli amatissimi
scrittori delle Lost e Beat Generation), Elliott Murphy adotta e
applica una prospettiva singolare, molto stimolante nella valutazione
delle distanze culturali. Per esempio, suggerisce un punto di vista
abbastanza curioso rispetto alla golden age del rock’n’roll
quando dice che “soltanto in America è esploso il fenomeno anni
sessanta, nel resto del mondo abbiamo avuto per due volte gli anni
cinquanta. E poi ci siamo svegliati direttamente negli anni settanta:
tutti portavano i pantaloni a zampa d’elefante e protestavano
contro la guerra e le bombe”. Si può discuterne, così succede con
la sua percezione delle differenze all’interno dei confini europei:
“Se la Francia è la patria del surrealismo, allora l’Italia è
in centro del caos e dell’anarchia sessuale, il principio di tutto.
Dove tutti, a parte me, conoscono le regole. Oppure dove tutti,
tranne me, sanno che non esistono regole”. Una logica che deve
parecchio alle ragazze avvistate e inseguite nelle vie di Treviso o
al fantasma di Hemingway al Caffè Florian di Venezia, che “di per
sé non è nient’altro che un atollo della fantasia che affiora
dalla laguna”. E’ difficile distinguere Elliott Murphy dai
personaggi che incrocia e sviluppa nelle Note al caffé: tra
schizzi, porzioni di fiction e di flusso di coscienza scorrono
l’inevitabile Jim Morrison a Parigi, una citazione di Sartre,
un’immagine di Napoleone e tutto un avvicendarsi di caratteri e
interpreti dal tono dylaniano, fonte sicura e primaria, e poi,
ancora, il cinema d’autore con John Ford, François Truffaut, Wim
Wenders, Sam Shepard e lo spettro di un secolo (il ventesimo) a cui
questa prosa appartiene in modo inequivocabile. Tra una bozza e
l’altra matura un presagio di quello che sarebbe venuto (non ci
voleva una grande immaginazione, in effetti), ma una serie di
istantanee non fa una storia, anche se Elliott Murphy è un
osservatore ispirato, capace di distinguere i nessi tra la
letteratura e il rock’n’roll (che rimane il suo primo lavoro)
sempre con una predisposizione romantica ed entusiasta che garantisce
alle sue Note al caffé una certa leggerezza e una sostanziale
qualità dello stile. Fedele alle sue origini naturali, Note al
caffé è frammentario, inconcludente, come una raccolta di
cartoline spedite da un viaggio con troppe destinazioni, senza una
meta definitiva, più l’idea di un libro, che un libro vero e
proprio.
mercoledì 2 dicembre 2015
Raymond Carver
Vuoi
star zitta, per favore? è lo spartiacque imprescindibile nella
vita e nella carriera di Raymond Carver. E’ la prima antologia di
racconti curata da Gordon Lish che ne selezionerà e ne rielaborerà
ventidue, pescandoli da una quarantina tra quelli fin lì scritti e
proposti da Carver. E’ il 1976 e nel risvolto originale di Vuoi
star zitta per favore?, si legge, tra l’altro: “La volgarità
dei nostri destini segnati ascende a una sorta di trionfo, una
piccola ma sontuosa vittoria sulle circostanze”. In quel momento le
contingenze per Carver sono davvero precarie tra bancarotte, alcol e
ancora alcol, famiglia e disastri assortiti. James Crumley che
trasformerà Raymond e Maryann Carver in altrettanti personaggi in
L’ultimo vero bacio lo ricordava così: “Ecco delle
persone con una capacità di degradazione che non avevo mai
incontrato, e sì che ho fatto una vita abbastanza dura, squattrinata
e criminale. Volevo bene a Ray (Carver), ma era un uomo completamente
privo di difese. Del tutto incapace di prendersi cura di sé”. La
luce spettrale che circonda i protagonisti di Vuoi star zitta, per
favore?, che sia stata frutto del bisturi di Gordon Lish o
dell’intuizione di Raymond Carver (il dilemma ormai è relativo) ha
l’urgenza, l’immediatezza, anche una scarna concretezza e se è
vero (come è vero) che i successivi racconti di Carver sono
diventati di volta in volta più accurati e lirici, qui c’è il
modello iniziale, la scossa primordiale, la scintilla. Di sicuro il
meticoloso lavoro di Gordon Lish ha riorganizzato, distribuito e
uniformato i riferimenti autobiografici: c’è sempre stata una
parte non irrilevante dell’esperienza personale di Carver nei suoi
racconti, ma Vuoi star zitta, per favore? attinge e rimanda a
quel particolare periodo di transizione. Un momento in cui i Segnali
sono inequivocabili, i Creditori bussano alla porta (e
nelle aule dei tribunali), L’idea (quale che fosse) si stava
sgretolando e i dialoghi si perdevano tra quelle due domande, Perché,
tesoro mio? e Vuoi star zitta, per favore?, appunto. Il
tenore è identificato dal protagonista di Sessanta acri, che
“aveva la sensazione che fosse accaduto qualcosa di cruciale, la
sensazione di aver fallito”. E’ quell’ombra, lo spettro della
sconfitta, ad annodare insieme le short stories di Raymond Carver ed
è così che lo leggeva anche Leonard Gardner, l’autore di Città
amara: “Parliamo del tradimento degli affetti più cari, per
debolezza o egoismo, o per altro ancora. Gente che non si prende a
botte, ma compie questi tradimenti silenziosi che causano un dolore
atroce”. Del resto, quando Vuoi star zitta, per favore?, Carver
si stupì di come i suoi personaggi vennero considerati, come se
avesse aperto una porta su una realtà sconosciuta ai più, ma che
lui conosceva bene: “Questo paese è pieno di gente così. E’
brava gente. Gente che cerca di fare dal proprio meglio”. Il dubbio
che non ci arrivi, che ci sia sempre l’imprevedibile avversità
dietro l’angolo, che l’attrazione verso la Wrong Side Of The
Road, per dirla con Tom Waits, risulti fatale, è l’elemento
elettrico, magnetico che lascia stupiti ogni volta. Anche quando è
nascosto o mimetizzato perché come scriveva Raymond Carver:
“Mi piace quando nei racconti c’è un senso di minaccia. Credo
che un po’ di minaccia sia una cosa che in un racconto ci sta bene.
Tanto per cominciare, fa bene alla circolazione. Ci deve essere della
tensione, il senso che qualcosa sta per accadere, che certe cose si
sono messe in moto e non si possono fermare, altrimenti, il più
delle volte, la storia semplicemente non ci sarà. Quello che crea
tensione in un racconto è, in parte, il modo in cui le parole
vengono concretamente collegate per formare l’azione visibile della
storia. Ma creano tensione anche le cose vengono lasciate fuori, che
sono implicite, il paesaggio che è appena sotto la tranquilla (ma a
volte rotta e agitata) superficie del racconto”. Inesorabile.
domenica 29 novembre 2015
Pedro Pietri
Diceva
Miguel Algarín: “Il poeta vede la propria funzione come quella di
un trovatore. Narra alle strade il racconto delle strade”. Era
proprio quello il ruolo principale di Pedro Pietri, solo che lo
interpretava a modo suo, seguendo l’istinto più di tutto, e
restando incollato a quel proposito che ripeteva sempre: “Non
voglio parlare di quello che succede nella vita reale perché allora
finirei per mentire”. Ne parlava, eccome, e l’umanità degli
scarafaggi e delle cause perse di Pedro Pietri si rivela, poesia dopo
poesia, una visione eccentrica, eppure stimolante, non addomesticata,
incorreggibile. La sua lingua è inafferrabile, tambureggiante, un
modello di carta vetrata che la poesia e l’America non hanno più
in catalogo. Basta una piccola selezione delle sue Cabine
telefoniche, schizzi di vita
quotidiana nelle strade di New York e impressioni di un artista fuori
servizio, come si descriveva nella Cabina
telefonica 972: “Quando non sono
in giro e qualcuno giura d’avermi visto nel periodo in cui non mi
sono visto io (quel che faccio allora è andare di filato a casa per
sognare a occhi aperti d’essere in qualche altro posto) finché
diventa una noia e accendo le luci spegnendole”. A volte sono
frammenti di dialoghi a cui manca l’esatta metà, avvisi ai
naviganti di relazioni claudicanti come il messaggio della Cabina
telefonica 580: “Non ci sarò per
colazione come ti avevo promesso ma tu non starci troppo male prendi
le ciambelle incollale al soffitto e quando ti vien fame fatti un
paio di salti”. Ancora di più, quello della Cabina
telefonica 801, un calembour che ben
rappresenta i coloriti toni di Pedro Pietri: “No certo che no non
guardo un uomo come guarderei una donna c’è una bella differenza
in un caso mi tira da matti nell’altro no, ma non ti dico qual è
l’uno e qual è l’altro, se vuoi proprio saperlo comincia a
toglierti qualcosa”. Se il primo strato appare luccicante, per via
dei riflessi di quell’ironia brillante e tagliente, sbucciando i
versi emerge davvero lo spirito del troubadour, la lucidità dei
sognatori indefessi, dei fuggitivi, dei bardi imprigionati nelle mura
delle metropoli, New York nel caso specifico. Il luogo, la terra di
nessuno è proprio quella, come scriveva in Intermezzo
da lunedì: “Devo lasciare la
città, quando quel che vedi è quel che vedi e quel che non vedi non
vedi e l’immaginazione è classificata come bagaglio eccedente
all’aeroporto dove cornici per quadri sono cornici per quadri e le
code si allungano sempre di più per biglietti di prima classe su uno
scaffale dove un poeta è diventato poeta agli occhi di tutti tranne
che ai suoi”. Quel retrogusto amaro e malinconico, complementare
all’irrequieta voce di Pedro Pietri si rivela in Una
poesia senza titolo (che, a ben
guardare, c’è un motivo anche in quest’assenza) quando dice:
“Non ho progetti per oggi o domani, i muri son già stati scrutati
per bene. Ogni cosa è compresa incompresa, riesco solo a pianificare
il passato di questi giorni”. Se ne è andato dieci anni fa, e il
suo epitaffio potrebbe coincidere benissimo con la conclusione di
Biglietto d’addio d’uno
scarafaggio suicida in un complesso popolare:
“Addio, mondo crudele, ne ho abbastanza di prenderlo in quel posto
a causa delle tue parole incrociate. Non ci sarò quando cadrà la
bomba, inoltra la mia corrispondenza alla tua coscienza, quando ne
rimedi una”.
domenica 22 novembre 2015
Kurt Vonnegut
Le
Galápagos di Kurt Vonnegut sono proprio quelle stesse di
Charles Darwin e allora toccano al rinomato ospite gli onori di casa:
“L’arcipelago è in se stesso un piccolo mondo o meglio un
satellite attaccato all’America”. I presupposti scientifici si
fermano lì eppure sono più che sufficienti a fornire il principio
irrinunciabile e comune per entrambe le interpretazioni delle Galápagos. Una coincidenza rivelata anche dall’uso dei pronomi,
quando Kurt Vonnegut raccontava la genesi del romanzo: “Ho
scritto Galápagos per il libro in sé, così come si dipinge
un quadro per il quadro in sé. Il libro era un problema tecnico e ho
passato un periodo d’inferno per farlo funzionare. Sono menzogne
creative, come se mentissi sul banco dei testimoni; tutto deve
reggere”. Tesi: un milione di anni dopo la sua estinzione,
garantita da un’apocalisse nucleare, il genere umano si è evoluto
ripartendo dall’arcipelago delle Galápagos con un manipolo
cosmopolita e caotico di naufraghi. Ipotesi: il vero habitat è fatto
di parole, e non c’è maldestro cervello (“Sia detto in lode
all’umanità quale allora si configurava: un numero crescente di
persone andava ripetendo che i loro cervelli erano irresponsabili,
inaffidabili, odiosamente perniciosi, affatto privi di senso della
realtà: in poche parole, un disastro”) o macchina, come il
Mandarax o il Gokubi (tutti da scoprire), in grado di elevarsi da
quello stato primordiale e assoluto. Vonnegut segue l’istinto,
lasciando che sia la sua progenie di personaggi (a partire da Leon
Trotsky, figlio di Kilgore Trout, disertore in Vietnam ed enigmatica
voce fuori campo) a generare da sola la trama, con un ritmo elettrico
e sconcertante, attraversato da micidiali digressioni che, in un modo
o nell’altro, prima o poi, riprendono la giusta rotta. Anzi,
proprio la tracciano, come se Galápagos fosse una sorta di
suite di jazz (molto, molto free) che, con la forza
dell’improvvisazione, aumenta e accentra la tensione. Il crescendo
è sincopato: uno scenario dopo l’altro, la visione di Vonnegut si
fa via via sempre più sorprendente. Prima è la crociera della Bahía
de Darvin, una nave che a sua volta ha tutta una storia nascosta
tra le lamiere, ad attirare un singolare campionario di “esseri
estranei alle congiunture evolutive”. Ne basterebbe già la metà,
poi arriva la guerra tra Perù ed Ecuador che, pare di capire, è
l’inizio della fine. Invece è il cardine centrale di Galápagos,
quello che spinge la nave dei folli alla deriva, e il bello deve
ancora venire perché la soluzione finale è l’apoteosi
dell’inimitabile verve di Kurt Vonnegut. L’approdo è solo
l’epicentro da dove il romanzo si moltiplica. A quel punto, Galápagos ha già attraversato fasi concitate e complesse,
magari ci si è ambientati, si è compreso il senso della crudele
ingenuità della danza delle sule o il pericolo vampiresco dei
fringillidi e Kurt Vonnegut cambia ancora registro. Irriverente,
sarcastico, spettacolare quando all’apogeo delle esplosioni
umoristiche (e non) conclude che “le persone sono quello che
sono, detto questo è detto tutto. Sotto questo aspetto, la legge
della selezione naturale ha voluto che gli esseri umani fossero
affatto trasparenti. Tutti, maschi e femmine, sono esattamente quel
che sembrano”. Un vortice di impressionante potenza, con una risata
sempre in agguato, e attenzione agli asterischi, possono nuocere
gravemente alla salute.
giovedì 19 novembre 2015
Kent Haruf
Diceva
tempo fa Jim Harrison, l’unico scrittore che, con Cormac McCarthy,
si può accostare a Kent Haruf: “A me piace il coraggio, mi
piacciono l’amore e la morte, sono stanco dell’ironia”. Ecco,
nel Canto
della pianura c’è
la vita che va e che viene e si dipana nel racconti di Kent Haruf
come una ballata country & western, diciamo Alone
And Forsaken di
Hank Williams, per non sbagliare. L’essenza è quella, anche se c’è
una forza nei protagonisti che riesce a superare la tristezza di
momenti imprevisti, duri e infelici. L’aiuto inaspettato arriva
proprio da Kent Haruf che rimane vicino ai suoi personaggi e concede
a tutti una seconda chance. Chi resta escluso è perché ha bisogno
di un avvocato o si lascia l’ipotetica Holt alle spalle. La fuga
apre altri scenari, non previsti, mentre il Canto
della pianura è
fatto di piccoli incastri, che si rivelano di volta in volta, senza
particolari colpi di scena. Comincia con un germoglio vitale più,
nella gravidanza di Victoria Roubideaux, poi si snoda all’interno
di un perimetro ben delineato, una mappa che potrebbe stare su una
pagina del libro, con una mezza dozzina di punti strategici, compreso
il domicilio del protagonisti. Si incontrano per traiettorie
divergenti e inafferrabili: i legami sono molto fragili e vengono
definiti dallo stesso ambiente, dalle stagioni, dalle condizioni
atmosferiche. Sembrerà paradossale, ma la vita nelle smalltown è
limitata dagli spazi, e dai difetti congeniti delle parole e del
linguaggio. L’espressione del paesaggio attraverso il senso di Kent
Haruf per la frase, asciutta, eppure densa, forte e ruvida, ma
elegante nella sua essenzialità, è la forma lineare, orizzontale
(perché così è il territorio) di una narrazione limpida, senza
esitazioni, “plain spoken”, come direbbe John Mellencamp, e per
non andare troppo lontani dal titolo. La bellezza del Canto
della pianura sta
proprio in quel parlare piano, chiaro, che la scrittura di Kent
Haruf, appuntita e artigianale nella composizione, e così accurata
della definizione, riesce a rendere come se fossimo lì, sulla terra,
nella polvere e nella neve. Non leggi, non immagini: sei dentro, gli
sei accanto. Lo senti, il Canto
della pianura.
Li senti, uomini (e bambini) e donne che si inseguono, si
abbracciano, si abbandonano, si perdono e si trovano.I profili
psicologici dei personaggi di Ike e Bobby, della madre chiusa in
camera, di Tom Guthrie e Maggie Jones emergono senza bisogno di
spiegazioni. Incontri che si compongono e si consumano seguendo le
bizze di un destino che è impalpabile come il vento sulla pianura. I
profili si stagliano nitidi, alcuni convessi, altri concavi, si vanno
a incastrare e si specchiano uno nell’altro. Divergenti,
complementari, perché Holt, che è difficile chiamare città, non è
poi così grande. C’è una tenerezza, all’improvviso, dove meno
te l’aspetti, un po’ di compassione sulla pianura dura e fredda.
Una nota di speranza battuta dalle raffiche di gelo e dall’odore
degli animali che spunta dai burberi fratelli McPheron. Parlano
pochissimo, anche meno degli altri, ma si rivelano generosi quel
tanto che basta da rendere meno arido il tempo che passa,
inesorabile. Forse sono anche naïf, perché c’è una bizzarra nota
di brio nei loro passaggi in Canto
della pianura, ma l’effetto
benefico dei McPheron sull’intera storia è la conseguenza di gesti
spontanei (o quasi) che si propagano incontrollati, dentro e fuori,
mitigando piccoli e grandi contrasti da una casa all’altra, un
giorno più, un giorno meno. Holt è solo il punto in fondo alla
domanda, non c’è via d’uscita. L’astio, la solitudine, e poi
la tristezza. Avere una possibilità, non restare soli. Fine delle
alternative. L’ironia della vita può aspettare, ancora un po’.
lunedì 16 novembre 2015
Wallace Stevens
Le
ultime poesie di Wallace Stevens raccolte in Il
mondo come meditazione suonano
come una sorta di eredità spirituale, un estremo lascito che di
volta in volta assume le sembianze di augurio, profezia, testamento,
saluto e arrivederci. E’ vero che “una
poesia non è necessario che abbia un significato, e come la maggior
parte delle cose in natura spesso non ne ha”, d’altra parte
considerare Il
mondo come meditazione
implica il riconoscimento, tra i versi, di una riflessione
filosofica che comincia, come scrive in Conversazione con tre donne
del New England, quando
“il modo della
persona diviene il modo del mondo, per quella persona e, a volte, per
il mondo stesso”. Quello di Wallace Stevens è “un modo di
pronunciare il mondo entro la propria lingua”, spiega in Sulla via
dell’autobus, perché “siamo
esseri fisici in un mondo fisico, il tempo è una delle cose di cui
godiamo, una delle realtà non filosofiche. Lo stato del tempo
diventa presto uno stato di mente. Vi sono molte cose immediate nel
mondo che noi godiamo: una poesia perfettamente realizzata dovrebbe
essere una di queste cose”. Nella pratica, può essere tutto,
essendo fatta di parole che “sono
insieme icona e uomo” ed è nella sua applicazione che Wallace
Stevens si rivela, nel tempo, un poeta essenziale, indispensabile nel
sapere interpretare Il
senso ordinario delle cose o
Il corso di un particolare,
ovvero la primitiva realtà, sempre cosciente che “per quanto si
dica che siamo parte di tutto, la cosa implica un conflitto, una
resistenza; e l’esserne parte è uno sforzo che diminuisce: si
sente la vita che dà la vita così com’è”. Questa attitudine
lo vede più struggente che mai nel cogliere la “bella
rappresentazione” kantiana della bellezza naturale seguendo Il
fiume dei fiumi in Connecticut
(“Colmo di spazio, specchio delle stagioni, del folclore dei sensi
tutti; chiamatelo, ancora e sempre, il fiume che non scorre in alcun
dove, come un mare”) e celebrando gli alberi, che “sono mondi”,
iniziando con La
regione novembre
(“Più e più profondi, più e più sonori, gli alberi ondeggiano,
ondeggiano, ondeggiano”) per giungere a una sostanziale definizione
in Il mondo come
meditazione quando
scrive: “Gli alberi hanno l’aria di portare nomi tristi e star lì
a ripetere sempre la medesima cosa, come in tumulto, perché un
opposto, una contraddizione, li ha provocati e ora vogliono
replicare”. Se questa non l’arte di un pittore, di uno scultore o
di un fotografo, è, senza alcuna esitazione, il frutto
dell’insistenza con cui Wallace Stevens intende
sostituire all’idea di ispirazione, “l’idea di uno sforzo della
mente non dipendente dalle vicissitudini della sensibilità”. Nel
concedersi, il poeta dissimula anche l’ora del crepuscolo, prima
rievocando l’odissea di tutti gli uomini con La
vela di Ulisse (“Non
è questa la serenità di spirito del poeta. E’ la sorte che dimora
nella verità. Obbediamo le sollecitazioni del nostro fine”) poi,
quasi con un tono colloquiale, in L’uomo
malato, firmando un
toccante commiato: “Scegliendo da dentro di sé, da tutto ciò che
ha in sé, una lingua per un calmo addio a se stesso, addio, addio,
le pacate, beate parole, ben intonate, ben cantate, ben dette”.
Talmente poetico da confondere anche un rigoroso Frank Kermode che lo
definiva “un dottore incomparabilmente sottile, per non dire
angelico”, se non fosse che anche l’invenzione del paradiso,
secondo Wallace Stevens, coincide con l’imperfezione, per cui non
resta altro, come
diceva qualche
anno prima, nel 1941, che “seguire l’idea della nobiltà in ciò
che si potrebbe chiamare il disastro della realtà, in particolare la
realtà delle parole”. Normale, straordinario, assoluto.
lunedì 9 novembre 2015
Benjamin Franklin
La
Cronaca di un massacro di indiani è
un pamphlet di Benjamin Franklin che rilegge un episodio della vita
lungo la frontiera negli anni
precedenti l'inizio della guerra d'indipendenza americana. Siamo nel
1763
quando i Paxton Boys, una pattuglia di coloni di origini irlandesi,
massacra un manipolo di indiani Conestoga, senza alcun motivo
apparente. Le
notizie dell'epoca riportano un eccidio efferato, ma di dimensioni
numeriche ridotte, rispetto a scontri, guerre e guerriglie ben più
disastrosi. Solo che la strage avviene in un contesto politico già
squilibrato, su linee di confine, fragili e limitate che non
riescono più a definire con qualche margine di sicurezza i rapporti
tra i nativi, i coloni e gli inglesi. Le terrificanti scorribande dei
Paxton Boys non sono casuali: c'è un metodo nella concatenazione dei
loro assalti che si nutre del rifiuto delle leggi e degli accordi e
dell'apologia della violenza come strumento per regolare la vita (e
la morte) nella wilderness. Le motivazioni hanno sottili connotazioni
economiche e politiche che un altro testimone, il predicatore John
Woolman spiegava così: “La gente di frontiera tra cui tale male è
così diffuso, è spesso povera, e si avventura oltre i confini di
una colonia per poter vivere in maniera più indipendente da coloro
che possiedono la ricchezza, i quali spesso fanno pagare alti canoni
d'affitto per le loro terre”. Questa reazione a catena, sulle basi
dello sfruttamento della terra e degli uomini, lascia intravedere
nelle gesta dei Paxton Boys i germi della rivolta che porterà alla
guerra d'indipendenza. Le parole del pamphlet di Benjamin Franklin
lasciano intendere che quello è un solco ben preciso nella genesi
della nazione americana. Quello che contempla non è soltanto la
condanna, logica e spontanea, del massacro di civili inermi e delle
dinamiche in cui è maturato. Mette in evidenza anche la debolezza
delle istituzioni, del diritto, delle colonie, persino della
conoscenza dei nativi e delle terre che abitano. In un pamphlet
successivo, quando già gli Stati Uniti erano diventati una realtà,
Benjamin Franklin scrivevrà: "Chiamiamo selvaggi questi popoli
perché i loro costumi sono diversi dai nostri; che crediamo
rappresentino la perfezione della civiltà. Essi hanno la stessa
opinione dei loro. Se esaminassimo con imparzialità i costumi delle
diverse nazioni, forse troveremmo che, per rozzo che sia, non c'è
popolo che non abbia principi di buona educazione, e che non ce n'è
alcuno così educato che non conservi qualche residuo di barbarie".
Nella perentoria presa di posizione, in Cronaca
di un massacro di indiani,
non solo in difesa dei nativi, ma anche di una logica di vita civile
e pacifica, non
mancava l'affondo morale: “Concluderò dicendo che qualunque
codardo può maneggiare le armi, colpire dove sa che non vi sarà
reazione, ferire, mutilare e assassinare, mentre risparmiare e
proteggere è prerogativa degli uomini coraggiosi”. Tanta
ostinazione
gli guadagnò l'ostilità generale tanto da
costringerlo a lasciare l'America per Londra. Un esilio che non gli
ha impedito di diventare uno degli intellettuali fondamentali per
l'America anche e proprio per la sua predisposizione a cercare di
capirne le contraddizioni già agli albori della sua storia.
L'America
si è retta, e si regge da sempre, sul confronto degli opposti, su
una convivenza difficile e complessa, con una violenza pronta ad
esplodere in qualsiasi momento. Altro che melting pot.
giovedì 5 novembre 2015
Philip Caputo
Un
libraio citato da Philip Caputo, Ken Lopez, ha raccolto una
bibliografia di più di tremila volumi sulla guerra del Vietnam.
Oltre a essere documentato il suo punto di vista è ben argomentato:
“In Vietnam, almeno in letteratura, la brutale assurdità e
casualità della vita e della morte si condensa spesso in pochi
terribili attimi in cui il mondo cambia drasticamente, e a volte
definitivamente, per tutti. Per la maggior parte di noi, che abbiamo
vite comuni, si tratta di un processo molto più lento, sottile e
meno percettibile, ma la sua natura è la stessa. In un'epoca in cui
i limpidi precetti morali delle generazioni che ci hanno preceduto
sono stati in gran parte abbandonati, la guerra del Vietnam, con la
sua suprema ambiguità morale, riflette e illumina la nostra
condizione generale: è, in definitiva, una perfetta metafora dei
nostri tempi”. Esatto: Philip Caputo è uno che ci è andato
convinto e ispirato dalla retorica istituzionale che prima cercava di
arrivare nell'intimo di “hearts and minds” e poi si lanciava
nelle missioni “search & destroy”, come se entrambe le
opzioni fossero sullo stesso piano. La condivisione dei valori
dell'età della frontiera, un mito creato con molta cura, ma pur
sempre un mito, l'eccitazione di essere al centro dell'azione e della
storia, con un posto prenotato nella terra degli eroi, le sofferenza
una volta sul campo (il caldo, la polvere, l'insonnia, la paura, i
caduti) si sommano senza soluzione di continuità nel racconto di
Philip Caputo, che è abbastanza onesto da lasciar trasparire le
emozioni e i sentimenti ambivalenti di fronte alla guerra. In
Vietnam è l'addetto al body count, la macabra contabilità delle
battaglie e in quel tragico ruolo ogni slogan si squaglia nel fetore
dei cadaveri smembrati, senza alcuna pietà. Philip Caputo non
risparmia nulla e affronta tutti i dettagli con un certo coraggio,
cogliendo almeno “il benefico effetto di eliminare alla radice
qualunque idea stupida, astratta e romantica”. Laggiù, ognuno ha
sua visione: chi la vede come una guerra per bande, chi la scorre
come un elenco statistico, chi come una missione, chi come una
vacanza, chi come un'avventura. Philip Caputo non aggiunge proprio
nulla: la scrittura è livida, schematica e anche se si concede con
abbondanza nella descrizione delle missioni, gli episodi sono
reiterati e ripetuti. “La situazione rimane invariata. Tutto
tranquillo” è il refrain delle sentinelle notturne e si adatta
anche al racconto di Philip Caputo: sicuramente una testimonianza
coraggiosa (una volta tornato Philip Caputo rispedì al presidente le
decorazioni, tra l'altro) che però non aggiunge nulla, rispetto a
Inseguendo Cacciato di
Tim O'Brien o Nell'esercito del faraone
di Tobias Wolff citati nell'epilogo insieme a Ken Lopez e a un
interessante punto di vista dello storico John Hellman: “Il Vietnam
è un'esperienza che messo seriamente in discussione il mito
americano. Gli americani si imbarcarono nella guerra del Vietnam con
l'idea che ne sarebbe derivata un'epopea tipicamente americana.
Quando la storia dell'America in Vietnam prese una piega inaspettata,
la vera natura della storia americana nel suo complesso fu oggetto di
un intenso dibattito culturale. Al livello più profondo, l'eredità
del Vietnam è la disgregazione della nostra storia, della nostra
spiegazione del passato e della nostra visione del futuro”. Non una
sconfitta qualsiasi.
lunedì 2 novembre 2015
Anne Waldman
La necessità
di coagulare un'esperienza tanto vasta, come è stata la cosiddetta
Beat Generation, si è sempre scontrata con l'impossibilità di
definirne i limiti temporali, storici e stilistici. D'altra parte una
qualche forma di selezione si è resa via via sempre più
indispensabile, se non altro come prima ricognizione panoramica,
anche se l'impresa è tutt'altro che agevole come si è ben accorta
Anne Waldman: “Curare questa
antologia è stato un po' come lottare con un drago tentando di
cacciarlo in una scatola di fiammiferi”. La curiosa metafora rende
bene la spontaneità della natura di The Beat Book,
costruito con “un'attenzione concentrata piuttosto che
onninclusiva” che riporta, sì, i nomi fondamentali della Beat
Generation, i più noti e i più spettacolari (Allen Ginsberg, Jack
Kerouac, William Burroughs, Gregory Corso) ma anche Lenore Kandel,
Lawrence Ferlinghetti, Lew Welch, Philip Whalen, Michael McClure,
John Wieners, Amiri Baraka (a suo tempo, LeRoi Jones) con l'omaggio a
Miles Davis, Bob Kaufman, Joanne Kyger, Gary Snyder, Peter Orlovsky e Diane Di Prima:
a cui va il merito di aver saputo esprimere con il limpido fraseggio
della poesia che “il terreno dell'immaginazione è l'assenza di
paura”. Questo è il minimo comune denominatore che rende The
Beat Book un vademecum solido e
coerente poi, come spiega con precisione Anne Waldman, “all'inizio
ciò che coinvolge, diverte e attira è il mito della Beat
Generation, il suo leggendario, la sua immagine culturale, ma alla
fine ci si concentra sulla scrittura stessa e si esulta scoprendo che
essa ancora respira”. Eccome. Giusto per rinfrescare la memoria,
ecco qualche frammento a testimonianza della diversità e della
complessità della percezione contenuta nell'indefinibile terra
comune delal Beat Generation. Una prima asserzione, lucidissima e
nello stesso tempo visionaria, di William Burroughs: “Io dico che
tutto quello che non va avanti va fuori... Ma sapete cosa possiamo
fare con la parola mettendoci un tocco speciale. E poi parlano
dell'energia che c'è in un atomo. Tutto l'odio tutta la paura tutto
il dolore tutta la morte tutto il sesso è nella parola. La parola
una volta era un virus che uccide. Può diventare ancora un virus che
uccide. La parola è troppo rovente da maneggiare e allora stiamo
seduti sul culo aspettando la pensione”. All'estremo opposto, uno
scampolo delle confessioni e delle confusioni di Neal Cassady: “Per
me coltivare una giusta amministrazione delle idee in modo da
trattenerle e da essere capace di metterle giù in modo chiaro è una
difficoltà onnipresente in cui mi si impappina la mente. Tra
l'altro, era proprio in questa linea di cercare di salvare qualcosa
per la scrittura finché sarei riuscito a imparare a farne tutto un
processo soltanto di pensare e poi mettere giù quel pensiero”. Tra
un delirio (sacrosanto) e l'altro si trova anche la dichiarazione
d'indipendenza di Jack Kerouac a John Clellon Holmes nel 1946:
“Eravamo una generazione di furtivi. Capisci? Sapevamo dentro di
noi che non serve a niente sbandierare chi sei a quel livello, ossia
al livello del pubblico;
era un modo di essere beat, cioè di impegnarci, con noi stessi,
perché per noi tutti era chiaro a che punto eravamo, stufi di tutte
le forme, di tutte le convenzioni del mondo”. Un'ambizione
rivoluzionaria, una logica da outsider, una cristallina innocenza con
cui Allen Ginsberg conclude così la premessa a The Beat
Book: “Avevamo un gran lavoro
da fare, e lo facciamo, cercando di salvare e guarire lo spirito
dell'America”. La sconfitta è innegabile, la tragedia della realtà
è sempre più forte, ma, come scrive Ann Waldman “l'impulso
delicato e vivido ad afferrare il mondo al volo magicamente tramite
il linguaggio” è rimasto integro, non integrato, beato, non
battuto.
domenica 25 ottobre 2015
Bobbie Ann Mason
Sam (diminutivo
di Samantha) Hughes è in viaggio verso Washington, dove vuole trovare il
nome del padre, Dwayne, inciso sul granito nero e lucido del Vietnam
Veterans Memorial. Con lei, su una macchina che ha visto tempi
migliori, viaggiano Mamaw, la nonna ed Emmett, un reduce inseguito
dai fantasmi di chi è rimasto Laggiù.
Siamo nel 1984, quasi dieci anni dopo la la fine della guerra, e
dalla radio, dopo Marvin Gaye e i Talking Heads, arriva
Glory Days,
perché è il momento di Born
In The U.S.A. e,
come dice Sam, “in America accade tutto qui, sulle strade”.
Capita anche di scoprire che non c'è posto dove correre, non c'è
posto dove andare, nemmeno dove nascondersi da “una sensazione di
estraneità” perché Laggiù
è, sì, sempre sottinteso il Vietnam, ma è anche Hopewell,
Kentucky, una cittadina spersa in mezzo al nulla. Il contrasto con il
drammatico lascito della guerra e il piccolo mondo antico
dell'heartland, con la convinzione che quell'America è bella e buona
(non l'altra), è l'inestricabile groviglio di sentimenti ed emozioni
in cui è impigliata Sam. Nonostante il nome, a Hopewell nessuno ha
risposte da darle. La vita silenziosa e monotona nella provincia non
è sufficiente, non ha i mezzi per rispondere a quelle enormità. La
speranza è solo che il tempo lenisca o cancelli le ferite. Non sarà
così perché i reduci non hanno dove andare, vagano come fantasmi,
trascinandosi dietro storie e ricordi (compreso l'incubo di essere
stati contaminati dai defolianti usati dall'esercito americano, o
dalla paura tout court) e insieme la voglia di dimenticarli e il
bisogno di conservarli, perché quelli Laggiù
erano giorni che hanno segnato “una linea di demarcazione, vita o
morte”. Un altro veterano, Pete Simms, lo spiega molto bene a Sam:
“E' una questione di intensità quello che abbiamo attraversato
insieme”. Ciò non toglie che le sofferenze siano insopportabili e
la sensazione che Emmett confessa a Sam è che “non puoi
permetterti di restare in città quando pensi a quello che è
successo”. Non ha tutti i torti: il viaggio a Washington, che è il
segmento iniziale e quello finale di Laggiù,
è il tentativo di fuggire dall'immobilità di Hopewell, dove
la connessione con il resto del mondo, e volendo la sua
comprensione, avviene attraverso la televisione, che è il vero
contrappunto della vita reale. L'avvento di MTV, soprattutto nello
stile surreale dei primi videoclip (dove succedeva di tutto) genera
una certa confusione, se non altro una sorta di miraggio. “Questi
video di MTV sono vere stronzate”, scrive Bobbie Ann Mason. Ancora
adesso, soltanto che in quello di Dancing In The Dark,
citato a più riprese, la mano tesa da Bruce Springsteen in mezzo al
pubblico coincide con la mano che aspetta Sam per riuscire a
conoscere il padre, che è morto Laggiù,
in Vietnam, e per comprendere anche se stessa. Sullo schermo, la
parvenza dell'immagine, mostra tutta la sua evanescenza, la sua
fallibilità. Laggiù
è un riflesso proprio come Born In The U.S.A.,
e in quanto tale, facile a contraddirsi e a sfumare nel dettaglio,
luccicante in superficie, malinconico e spettrale una volta spente le
luci, ed è così che anche Bobbie Ann Mason si ritrova Laggiù,
a ballare nel buio.
giovedì 22 ottobre 2015
Bill Flanagan
Lo
diceva Chuck Berry, che ha cominciato tutto: “Una canzone va
scritta facendo molta attenzione alla storia che vi si racconta”.
Con la stessa sensibilità Bill Flanagan ha avvicinato
l'imponderabile e soggettiva arte del songwriting in Scritto
nell'anima attraverso il confronto con un'eccellente selezione di
autori, molti dei quali hanno scritto alcune delle pagine più
importanti della storia dal blues al rock'n'roll. L'ambito è proprio
quello e la distinzione è obbligatoria perché c'è canzone e
canzone: l'argomento di Scritto nell'anima è il songwriting
nella sua particolare applicazione al rock'n'roll che Bill Flanagan
si premura di ricordare come “uno stile così magnificamente
immorale: agguanta al volo le buone idee, le prova in dodici modi
diversi e conserva qualsiasi cosa vada bene”e qualcosa che “offre
ai suoi figli la cittadinanza in una comunità internazionale dove
tutto è collegato dalle esperienze condivise, dalle coincidenze, e
da una misteriosa politica di ammissione”. Il processo di
identificazione e di condivisione che è Scritto nell'anima
del rock'n'roll rimane sempre sotterraneo e nascosto rispetto ai
songwriter che se ne appropriano ed è uno dei motivi per cui Bill
Flanagan tiene a precisare che “un'altra parte di questo fascino
deriva dalla voce, dall'opinione che la musica fornisce ai solitari,
quando questi si ritrovano da soli, con le luci spente e il
giradischi acceso. In questi momenti così privati si può sentire,
chiaro come il fischio di un treno, l'invito a partire per andarsi a
cercare un posto migliore. La musica non promette che si si arriverà
ma fa capire che varrà la pena di intraprendere il viaggio”. Le
canzoni servono proprio a fornire le tappe, gli indirizzi, le mete
perché come suggerisce il songwriter numero uno (nessun dubbio)
ovvero Bob Dylan “le canzoni non sono che pensieri fatti per
fermare il tempo per un istante. Le canzoni devono essere abbastanza
epiche da dare l'illusione di fermare il tempo, usando un solo
pensiero. Sentire una canzone è sentire il pensiero di qualcuno, non
importa che cosa vi sia descritto. Se assisti a qualcosa e pensi che
sia abbastanza importante da descriverlo, questo è già un tuo
pensiero. E siccome pensi solo una cosa alla volta, nel momento in
cui poi la tiri fuori riveli quello che sei”. Il dialogo tra Bill
Flanagan e i suoi ospiti è sempre diretto e corretto. Bill Flanagan
sa come scansare i voli pindarici degli artisti e conosce tutti i
trucchi per lisciare l'ego delle rock'n'roll star quel tanto che
basta perché lascino socchiusa una porta. Non sempre funziona: tra
domande e risposte, il ritmo delle interviste è sempre sincopato,
qualcuno è più elusivo, altri sono più aperti, ognuno ha la sua
particolare percezione dato che la psicologia delle canzoni e dei
loro autori viaggia in parallelo. Secondo Joni Mitchell, “quando la
gente ascolta una canzone questa entra nella loro vita e le parole
sono simboli. Questi simboli sono instabili”. Tom Waits sembra
risponderle dall'altro lato (quello sbagliato) della strada e
sostiene che “è tutto là fuori. Se hai bisogno di parole, basta
guardare fuori dalla finestra”. Per Keith Richards il meccanismo è
più spontaneo, quasi magico nel suo manifestarsi: “Credo che le
canzoni siano intorno a noi. E' solo questione di essere ricettivi e
pronti a raccoglierle. Perché la maggior parte delle canzoni si
scrivono da sole una volta che hai qualcosa da cui cominciare. Una
volta iniziato, è un processo irreversibile. Un processo
irreversibile. Un processo che tu puoi aiutare e seguire, ma non puoi
riuscire a controllare la canzone. Nonostante ci sia tu, seduto lì,
con un pezzo di carta e la chitarra”. Questo è quello Scritto
nell'anima, poi c'è il corpo del rock'n'roll e nessun altro, se
non Mick Jagger poteva precisarlo: “Forse sono semplicemente fuori
moda ma ho anche bisogno che la musica mi faccia ballare. Per me è
tutta qui la faccenda. Ballare, capisci? Se della musica non mi fa
venire voglia di balzare in piedi, allora vuol dire che c'è qualcosa
che non va”. Facile immaginare Bill Flanagan mentre annuisce,
quella storia funziona proprio così.
domenica 11 ottobre 2015
David James Poissant
Con
un equilibrio raro ed elegante, David James Poissant riesce a tenere
insieme il fantastico e l'ironia, il surreale e l'onirico con il
dramma ordinario della realtà, il più delle volte ancorata alla sua
essenza blue collar. Il tono e il ritmo, che sono comuni a tutti i
sedici racconti, portano sempre alla sorpresa, un colpo a effetto,
una variazione improvvisa sul tema. Capita con Il
bambino che brilla,
un frammento di due pagine con la delicatezza di un sogno,
con Ko, che
sarebbe una short story degna di Raymond Carver, se non fosse che il
bizzarro quadro d'insieme lo fa sembrare piuttosto una canzone di Tom
Waits, con 100%
cotone dove
la scena di una rapina a mano armata (anzi, due) si sovrappone a
quella di un suicidio mancato e di un omicidio compiuto per un errore
di comprensione e con l'acido trip di Il
lupo. Nell'immediato, il
paragone più calzante agli esordi di David James Poissant è con
George Saunders
ma la sua voce è già abbastanza autorevole nel
vivisezionare l'incomunicabilità, il vero tema che popola Il
paradiso degli animali e
sviluppato su
diversi piani. Rocambolesco nel tratteggiare le psicosi che
spingono La
fine di Aaron oppure
rispettoso e graffiante, in Il
rimborso,
piccola istantanea di una società pervasa dall'ansia della
competitività che poi è un altro modo per declinare l'aggressività.
Famiglie spezzate, confuse, travolte dall'eventualità,
dall'imprevisto, dall'ignoranza, dalla violenza, dalla morte, dalla
vita: non
sembra casuale che in Nudisti,
un'elaborata riflessione sul perdono attraversa da una tensione quasi
insopportabile, la conclusione veda tutti i protagonisti spogliati e
(in fondo) indifesi. I racconti
hanno una serie di agganci, aderenze e connessioni, il più delle
volte impercettibili o, almeno in apparenza, casuali. Piccoli
dettagli, lo stesso quartiere (visto da prospettive diverse),
un'ultima estate, e, naturalmente, gli animali che specchiandosi
nelle idiosincrasie e nei dilemmi umani, formano un mondo
parallelo. Basta ricordare (e scoprire) il ruolo di James
Dean all'interno della fragilissima coppia di Io
e James Dean o
quello del gatto e degli insetti nello straziante resoconto
dell'incontro di Il
braccio. La
geografia delle emozioni prevede diverse parti d'America, dalla
Florida (dove David James Poissant vive) all'Arizona con una
vocazione verso la West Coast, celebrata dal viaggio al centro
dell'ultimo racconto, Il
paradiso degli animali,
che ha (ancora) come protagonista lo stesso del primo, L'uomo
lucertola,
come se fossero un prologo e un (lungo) epilogo a circoscrivere Il
paradiso degli animali. L'insistita
direzione verso le coste californiane avvicina la raccolta di David
James Poissant, per l'ovvia assonanza, ma anche per il gusto e per il
tatto, alle considerazioni di T. C. Boyle in Gli
amici degli animali:
due diverse versioni dell'ecologia dei sentimenti umani, ma anche del
confuso rapporto con gli altri abitanti dello stesso pianeta. Il
coccodrillo, se lo lasci libero, non ti stacca un braccio a morsi, le
foche per andare sott'acqua mandano giù i sassi e gli ippopotami
proteggono i propri simili anche quando sono caduti perché se per la
vita ci vuole un sacco di amore, per la morte ce ne vuole di più.
Merita un appunto a parte La
geometria della disperazione, composta
dal Diagramma
di Venn e Sveglia
il bambino. Sembrano
già i due capitoli di un romanzo e sono una sintesi decisiva delle
proprietà narrative di David James Poissant. Consigliatissimo, anche
per il futuro.
giovedì 8 ottobre 2015
Bruce Sterling
Premesso che La forma del futuro è un oggetto di design che usa i contorni del libro in sé per enunciare “una cultura di progetto”, bisogna riconoscere a Bruce Sterling la verve dell'intrattenitore con una sorprendente capacità di attraversare i tanti e diversi livelli del racconto. Molto dipende dal fatto che “la fantascienza contiene sempre un qualche tipo di bruciante, sotterranea impellenza sul punto di erompere senza controllo” ed essendo quello il suo habitat naturale, Bruce Sterling è trascinante anche quando cerca di rendere trasparenti concetti come “progettazione rappresentativa”, “metastoria”, “stufato informazionale” e “pantano digitale” o come sia rilevante il valore dei rifiuti come (unico) lascito culturale al prossimo che verrà. E' uno dei segni più netti che tratteggiano La forma del futuro, e forse il suo snodo fondamentale perché come precisa Bruce Sterling “noi umani siamo ciò che gli utensili hanno fatto di noi” avvertendo, subito dopo, che “la nostra cultura è in pericolo, perché manchiamo di idee solide su dove siamo nel tempo e su cosa potremmo fare per assicurarci un futuro. Siamo in difficoltà anche per ragioni tecniche e pratiche: disegniamo, costruiamo e usiamo dispositivi che funzionano male”. Quello che non utilizziamo più, o che abbiamo consumato, è soltanto una parte della macilenta eredità che ci stiamo tramandando di generazione in generazione e La forma del futuro dipende moltissimo da questa spada di Damocle sospesa sopra la testa dell'umanità, come riesce a spiegare con molta chiarezza Bruce Sterling: “E' difficile avere a che fare con l'immondizia. Gli umani hanno sempre fallito nel gestire i rifiuti. Quindi, a lungo andare, il ruolo dei rifiuti è aumentato. Le civiltà collassano, ma le loro rovine sono proverbiali. I rifiuti sono sempre il nostro principale dono culturale al futuro”. Quando Bruce Sterling immagina il futuro (così come il passato, “perché un tempo le cose erano come erano, perché oggi le cose sono come sono e come sembra stiano diventando”) e resta nell'alveo del racconto, della metafora e della suggestione sa rendere credibili i neologismi, le ipotesi, le architetture del linguaggio a cui si applica con lo spirito del designer e il gusto innato del romanziere che però ha capito che “la fantascienza non s'incentra sulla libertà di immaginazione, ma su una libera immaginazione serrata e stridente entro quella morsa che alcuni chiamano vita reale”. Lo sforzo, a quel punto, non è molto diverso da quello dei suoi amici designer che comunque sono altrettanto in trappola visto che “la ricerca per un mondo sostenibile può aver successo, oppure può fallire. Se fallisce, il mondo diventerà impensabile. Se funziona, il mondo diventerà inimmaginabile”. Quando si fa prendere dall'urgenza (ed è abbastanza inevitabile) e passa dalla concretezza del racconto alla rigidità delle teorie, il filo del discorso si ingarbuglia negli schemi e nelle affermazioni apodittiche. Non che le conclusioni non siano apprezzabili (anzi), ma nella seconda parte del libro Bruce Sterling tende ad apprezzare le tesi più che la loro definizione, quasi coinvolto dall'ammissione che “passiamo da un momento in cui l'informazione voleva essere libera a uno in cui la conoscenza anela a trovare forma”. Il futuro, insieme a “un qualche senso di integrità personale”, è una condizione di equilibrio rispetto al tempo e allora, sì, “pensare in termini temporali è una visione morale del mondo”. L'arduo compito è una propaggine dell'osservazione per cui “i cambiamenti davvero radicali nella concezione umana del tempo non sono causati dalla filosofia, ma dalla strumentazione. I più radicali fra i cambiamenti della nostra concezione del tempo derivano da dispositivi tecnologici, da strumenti di percezione temporale: orologi, telescopi, datazioni al radiocarbonio, spettrometri”. Un sacco di gingilli, di gadget, di oggetti, di codici a barre che sono obsoleti ancora prima di essere moderni, che saranno la nostra prossima spazzatura e che comunque ci stanno circondando tanto che La forma del futuro si conclude con una riflessione che sa di profezia: “La condizione umana non verrà improvvisamente abolita, cancellata. Verrà decomposta e riciclata”. Su questo non è difficile essere d'accordo. Sta già succedendo.
venerdì 2 ottobre 2015
Sherwood Anderson
Parziale
come ogni autobiografia che si rispetti, Storia di uno scrittore
di storie parte dall'esperienza propria di Sherwood Anderson, “un
servitore delle parole”, e diventa subito un'assidua e meticolosa
circumnavigazione attorno all'idea di scrittura e di letteratura. La
coincidenza millimetrica con la vita di Sherwood Anderson fa della
Storia di uno scrittore di storie un corso di percezione molto
acuto, che parte proprio da dove ha origine tutto: “Nelle strade
della città non c'erano racconti a lieto fine come sulle riviste. La
vita andava avanti, e fra gli uomini accadevano piccole cose
illuminanti. Sulla strada e nella vita delle persone che passavano
per quella strada si svolgeva un dramma che sembrava penetrare la
vita stessa”. Quella lunga, intensa lezione che è Storia di uno
scrittore di storie, ovvero il racconto del raccontare, si
sviluppa dall'embrionale certezza che “le parole sono tutto” e
poi, per ammissione dello stesso Sherwood Anderson, procede spesso
brancolando nel buio perché la materia, “ le vite e i drammi della
gente”, resta instabile, e non è molto docile quando viene
ingabbiata nella forma predestinata alla pagina. In più, c'è una
questione di stile: le storie le scrive lo scrittore, le filtra
attraverso la sua sensibilità e quella di Sherwood Andeson è quasi
un rivendicazione sindacale: “I miei racconti, narrati e non
narrati, ne sono pieni: fughe in acqua, al buio, su una barca che non
tiene, fughe da situazioni complesse, dalla mediocrità, dalle
pretese, dalla seriosità pomposa dei mezzi artisti. Quale scrittore
di racconti non ha una passione per le fughe? Sono l'aria stessa che
respiriamo”. E' in quell'attimo fugace che l'inafferrabile diventa
visibile, quando la scrittura si manifesta perché “le frasi sono
come le finestre nelle case. Improvvisamente un velo viene strappato,
e tutte le bugie, tutti gli imbrogli che riguardano la vita
scompaiono per un momento”. La ricchezza e in fondo l'estrema
sintesi della Storia di uno scrittore di storie è tutta lì,
in quell'istante in cui Sherwood Anderson si presenta così: “Sto
cercando di raccontarvi la storia di un momento e, in quanto
narratore, mi viene da pensare che tutta la vita non sia fatta altro
che di momenti. Viviamo solo in rari momenti. Volevo uscire dalla
porta e allontanarmi. L'americano è rimasto un vagabondo, un uccello
migratore non ancora pronto a costruirsi il nido. Tutte le nostre
città sono provvisorie, come le case in cui viviamo”. Il rapporto
tra Sherwood Anderson, americano tra gli americani, e l'America, dove
qualcosa “è andato storto fin dall'inizio”, è complicato dal
tentativo di raccontare quel “guazzabuglio” che è l'America
stessa. Molte delle sue impressioni, disseminate lungo tutto l'arco
della Storia di uno scrittore di storie formano, nell'insieme,
una visione articolata, e per niente edulcorata. La lunga
dissertazione comincia con la constatazione di essersi ficcati “in
un buco senza uscita. Puntavamo a essere superuomini ed è saltato
fuori che siamo figli di uomini che dopo tutto non erano così
diabolici. Non possiamo biasimarci se siamo riluttanti a scoprire ciò
che vi è di umano in noi”. La sua è una conoscenza a livello
antropologico, minuziosa e non casuale: “Il vero americano sapeva
qualcosa dei fatti, ma nulla dei sentimenti; seguiva la legge alla
lettera, ma non ne percepiva la sostanza”. Sherwood Anderson non si
esclude dall'abbaglio che è implicito alla fondazione di una
nazione, ma è già qualcosa: “Noi americani dovevamo cominciare a
stare fermi, nella nostra terra, perlomeno con lo spirito. Dovevamo
accettare la nostra materia, affrontarla”, e invece no. E' proprio
lì che la versione di Sherwood Anderson si fa molto radicale:
“Pretendere che abbiamo fatto l'America, sia pure materialmente, mi
sembra ormai come raccontarsi una favola della buonanotte”. Ci sono
storie che si possono scrivere, e ce ne sono altre che non reggono il
confronto. Storia di uno scrittore di storie è (anche) un
manuale che insegna a distinguerle. Obbligatorio.
mercoledì 30 settembre 2015
Chaim Potok
Fuggendo
dai combattimenti che incalzano la pianura coreana un uomo e sua
moglie trovano in un fosso un bambino ferito. Non hanno nulla,
soltanto un carro malandato, la paura e l'istinto di sopravvivenza, a
cui devono aggiungere la pietà per un bambino. L'uomo, vecchio e
confuso dalla realtà della guerra, non vuole portarselo dietro,
sarebbe soltanto un peso in più. Tra l'altro è più morto che vivo.
La donna, risoluta a non lasciarsi trascinare nella crudeltà, lo
raccoglie, lo cura, lo salva e lo nutre. Parte da lì una lunga
marcia di profughi, inseguiti dalla guerra, lontana eppure presente
in tutta la sua orrenda natura, tormentati dalla fame e convinti di
essere soltanto “giocattoli in mano agli spiriti”. Riportati a
una condizione primitiva, si ritrovano ad accendere il fuoco per
scaldarsi in una buca, usando residui di legna e arbusti secchi.
Mangiano zuppe fatte con un biscia nera strappata dal suo letargo o
erba di campo (selvatica), carne di cane randagio o pesci catturati
spaccando il ghiaccio. Spogliano i morti per recuperare i vestiti e
le coperte, lasciando sprofondare i cadaveri nel fango. Dentro la
terra ormai ci vivono anche loro: dormono nelle grotte e si
inerpicano su sentieri duri, aspri, senza speranza, tutta una fatica
tragica per scollinare, per poi vedere le valli trasformate in gironi
danteschi. I corpi bruciati che diventano nuvole puzzolenti, la marea
di profughi che compiono il viaggio al contrario ricalcando i ricordi
non meno delle impronte, le colonne di soldati e mezzi che travolgono
tutto, lasciando un “mondo piatto e vuoto. In balia di demoni
brutali”. Chaim Potok è parsimonioso nelle descrizioni, non spreca
una parola che sia una, eppure riesce a far capire quanto importante
sia un pugno di riso o il mozzo cigolante di una ruota. La drammatica
odissea si percepisce da quei dettagli e continua fino a quando “un
giorno d'estate sentirono dire che la guerra era finita, ma nella
loro vita niente cambiò”. In
quel momento l'uomo e la donna si convincono che il ragazzo ha dalla
sua parte una fortuna o una curva del destino, magari soltanto per
aggrapparsi a un motivo per per tornare al proprio villaggio, Molti
non trovano più né la casa, né il paese. Loro ritrovano entrambi,
deserti e pieni di polvere, ma intatti. Rimane la convivenza con lo
straniero, che non cambia molto, prima o dopo. Gli americani, venuti
in aiuto, sono sempre oltre il filo spinato, volano su aerei lucenti
e troppo veloci per essere visti, sferragliano senza sosta nelle
strade, lasciano vaste distese vuote e aride quando le basi cambiano
coordinate. La distanza non è soltanto geografica: c'è proprio una
differenza umana. Loro sono contadini, poverissimi, il destino,
legato alle stagioni, alla siccità, alla pioggia, alle variazioni
d'umore degli spiriti. Gli altri sono soldati, hanno disponibilità
illimitate e il senso di questa frattura si vede quando il ragazzo va
a lavorare in una caserma e scopre l'ambivalenza del rapporto, lo
sfruttamento, i piccoli furti, la corruzione, come se non ci fosse
mai una fine. A Io
sono l'argilla si
adatta la descrizione del romanzo secondo Claudio Magris che lo
definisce “un paradosso, una lancia di Achille che ferisce e
guarisce; è intessuto delle lacerazioni del moderno e insieme le
abbraccia in una nuova totalità”. Lancinante, aspro, senza mezzi
termini, Io
sono l'argilla non
lascia indifferenti.