Parziale
come ogni autobiografia che si rispetti, Storia di uno scrittore
di storie parte dall'esperienza propria di Sherwood Anderson, “un
servitore delle parole”, e diventa subito un'assidua e meticolosa
circumnavigazione attorno all'idea di scrittura e di letteratura. La
coincidenza millimetrica con la vita di Sherwood Anderson fa della
Storia di uno scrittore di storie un corso di percezione molto
acuto, che parte proprio da dove ha origine tutto: “Nelle strade
della città non c'erano racconti a lieto fine come sulle riviste. La
vita andava avanti, e fra gli uomini accadevano piccole cose
illuminanti. Sulla strada e nella vita delle persone che passavano
per quella strada si svolgeva un dramma che sembrava penetrare la
vita stessa”. Quella lunga, intensa lezione che è Storia di uno
scrittore di storie, ovvero il racconto del raccontare, si
sviluppa dall'embrionale certezza che “le parole sono tutto” e
poi, per ammissione dello stesso Sherwood Anderson, procede spesso
brancolando nel buio perché la materia, “ le vite e i drammi della
gente”, resta instabile, e non è molto docile quando viene
ingabbiata nella forma predestinata alla pagina. In più, c'è una
questione di stile: le storie le scrive lo scrittore, le filtra
attraverso la sua sensibilità e quella di Sherwood Andeson è quasi
un rivendicazione sindacale: “I miei racconti, narrati e non
narrati, ne sono pieni: fughe in acqua, al buio, su una barca che non
tiene, fughe da situazioni complesse, dalla mediocrità, dalle
pretese, dalla seriosità pomposa dei mezzi artisti. Quale scrittore
di racconti non ha una passione per le fughe? Sono l'aria stessa che
respiriamo”. E' in quell'attimo fugace che l'inafferrabile diventa
visibile, quando la scrittura si manifesta perché “le frasi sono
come le finestre nelle case. Improvvisamente un velo viene strappato,
e tutte le bugie, tutti gli imbrogli che riguardano la vita
scompaiono per un momento”. La ricchezza e in fondo l'estrema
sintesi della Storia di uno scrittore di storie è tutta lì,
in quell'istante in cui Sherwood Anderson si presenta così: “Sto
cercando di raccontarvi la storia di un momento e, in quanto
narratore, mi viene da pensare che tutta la vita non sia fatta altro
che di momenti. Viviamo solo in rari momenti. Volevo uscire dalla
porta e allontanarmi. L'americano è rimasto un vagabondo, un uccello
migratore non ancora pronto a costruirsi il nido. Tutte le nostre
città sono provvisorie, come le case in cui viviamo”. Il rapporto
tra Sherwood Anderson, americano tra gli americani, e l'America, dove
qualcosa “è andato storto fin dall'inizio”, è complicato dal
tentativo di raccontare quel “guazzabuglio” che è l'America
stessa. Molte delle sue impressioni, disseminate lungo tutto l'arco
della Storia di uno scrittore di storie formano, nell'insieme,
una visione articolata, e per niente edulcorata. La lunga
dissertazione comincia con la constatazione di essersi ficcati “in
un buco senza uscita. Puntavamo a essere superuomini ed è saltato
fuori che siamo figli di uomini che dopo tutto non erano così
diabolici. Non possiamo biasimarci se siamo riluttanti a scoprire ciò
che vi è di umano in noi”. La sua è una conoscenza a livello
antropologico, minuziosa e non casuale: “Il vero americano sapeva
qualcosa dei fatti, ma nulla dei sentimenti; seguiva la legge alla
lettera, ma non ne percepiva la sostanza”. Sherwood Anderson non si
esclude dall'abbaglio che è implicito alla fondazione di una
nazione, ma è già qualcosa: “Noi americani dovevamo cominciare a
stare fermi, nella nostra terra, perlomeno con lo spirito. Dovevamo
accettare la nostra materia, affrontarla”, e invece no. E' proprio
lì che la versione di Sherwood Anderson si fa molto radicale:
“Pretendere che abbiamo fatto l'America, sia pure materialmente, mi
sembra ormai come raccontarsi una favola della buonanotte”. Ci sono
storie che si possono scrivere, e ce ne sono altre che non reggono il
confronto. Storia di uno scrittore di storie è (anche) un
manuale che insegna a distinguerle. Obbligatorio.
Nessun commento:
Posta un commento