Gli effetti dell’arrivo di Too
Much nel villaggio di roulotte e caravan chiamato Vita Serena sono quelli di
una reazione chimica: come iniettare una massa adrenalina impazzita in un cuore
addormentato. L’imprevedibilità di Celebration s’impenna pulsazione dopo pulsazione, anche per via
della peculiare condizione degli ospiti. Vita Serena è occupato da anziani che
vagano come ombre, e sappiamo bene che non è un paese (e nemmeno un mondo) per
vecchi. La routine è parecchio
modesta e a Vita Serena vige una calma piatta, grigia e crepuscolare ovvero
“come diceva Janis Joplin: altro giorno, stessa merda”. E’ una palude in cui le
vite sono sospese tra un nulla e l’altro. Too Much è il sasso che increspa la
superficie dell’acqua e appare incontenibile perché parte dal presupposto che
“il tempo è passato e ha rovinato questo. Il tempo è passato e ha rovinato quello. Il tempo è una cagata. E la morte è una cagata
finché non muori”. Il primo ad esserne affascinato e poi travolto è Stump alias
Bubba, un reduce della guerra di Corea, mutilato, che gestisce il Vita Serena e
che adotta Too Much, quando si presenta sulla sua soglia. Too Much è poco più
di una bambina che si manifesta
con tutta se stessa, a partire dal corpo. L’espressione della fisicità, e della
sessualità, uno dei temi ricorrenti dei romanzi di Harry Crews, è il preludio
all’escalation di mosse che portano Too Much a ribaltare il tran tran di Vita
Serena, cominciando un modo molto (molto) creativo di usare il moncherino di
Stump. Tutto perché secondo
Too Much “la noia era imperdonabile in un mondo in cui esisteva palesemente la
possibilità dell’occasione assoluta”. Non è chiaro cosa rappresenti
quest’ultima definizione, ma è proprio attraverso la propagazione dell’idea di
una “possibilità dell’occasione assoluta” che il parcheggio è attraversato da
una serie di miracoli, non tutti destinati a un lieto fine, perché “le vie
convergenti del caso” (indispensabile corollario della “possibilità
dell’occasione assoluta”) non sono così logiche. Johnson Meechum, che passava
le giornate sparando nel fango, riscopre la moglie Mabel, Justice abbandona
alle ortiche la servizievole identità da pronipote di schiavi e riscopre il
passato prossimo di pugile e Ted Johanson, passati gli ottant’anni, ricorda di
essere stato un boscaiolo capace di arrampicarsi sulla cima degli alberi e
tutti tornano a rivelare le proprie arti e mestieri, dal falegname al
borseggiatore. Con la sua esuberanza, Too Much manipola e indirizza e sprona,
ma è come se soffiasse un ultimo alito di vita. Un concentrato esplosivo per
gli anziani di Vita Serena, che si riscoprono ancora vivi, vegeti e utili ed è
quello il problema perché “il mondo sa che cosa fare del dolore. Non ha mai
saputo che cosa fare della felicità e dell’esultanza”. Episodio dopo episodio, Celebration
si evolve come una specie di
situation comedy urticante e sarcastica. Non è né bello né comodo: è sgraziato
e contorto ma ha anche un fascino particolare nell’immaginare la metamorfosi di
tutto un microcosmo di loser. Come direbbe Too Much: “Un tantino crudo, magari,
ma onesto che di più non si può”. Proprio così.
martedì 30 dicembre 2014
sabato 27 dicembre 2014
T. C. Boyle
Gli amici degli animali si contendono la difesa dei fragili ecosistemi delle
Channels Islands, al largo della California. Dave LaJoy è un attivista
antipatico e insopportabile, ma è nel giusto perché si fa guidare da un solo
comandamento: non uccidere. Alma è politically correct, ma nei suoi interventi
di conservazione e/o ripristino c’è l’ambiguità della supponenza di poter
decidere il destino degli eventi naturali con strumenti artificiali, se non
proprio artificiosi. Il contrasto emotivo tra i protagonisti pare una
semplificazione, ma l’ordine delle cose non è così: c’è molta della condizione
isterica del nostro mondo che Gli amici degli animali interpretano, come se i tentativi, opposti e
speculari, con cui cercano di ripristinare il caos appartengano più ad
una dimensione empirica che scientifica, amplificata dalla particolare cornice
insulare e marina. Come scriveva Judith Schalansky nel bellissimo Atlante
delle isole remote: “L’isola appare un mondo sé
stante, ancora allo stato naturale originario, come il paradiso prima del
peccato originale, impudico ma innocente”. L’introduzione naturale o
artificiale (quale che essa sia) di una specie, implica il rischio,
l’eventualità, più che probabile, di una trasformazione repentina della vita,
di un ribaltamento della catena alimentare. E’ la storia (vera) del boiga
irregularis, che introduce il tema corrente tra Gli amici degli animali: è una bella creatura di tre metri che, arrivata in
modo fortuito sull’isola di Guam, si è moltiplicata per tre milioni e mezzo di
esemplari, trasformando l’isola in un nido di serpenti. Il dilemma della
sovrappopolazione e della convivenza (e della sopravvivenz)a di forme di vita
diverse sullo stesso, limitato pianeta è il nocciolo degli scontri che Gli
amici degli animali sovrappongono a battaglie di ego
insaziabili. E’ una storia dei nostri giorni, una storia paradossale, volendo,
che racconta i pericolosi malintesi che si accumulano nel convulso rapporto tra
l’uomo e la natura (o il suo consumo). L’idea al centro del corto circuito, che
il genere umano possa decidere di vita o morte su tutti, si rivela in modo
diverso e drammatico sia ad Alma che a Dave LaJoy e T. C. Boyle è molto lucido
nel far capire che, in realtà, l’unico deus ex machina è il caso. Gli amici
degli animali è avvincente nel ritmo,
essenziale nella scrittura, molto pertinente e urgente nel rivelare le
contorsioni del genere umano di fronte ai processi naturali, come se T. C.
Boyle avesse letto La natura delle cose nel De Rerum Natura di Tito
Lucrezio Caro: “Vediamo che la natura, nel dissolvere i corpi, libera i vari
elementi ma non li distrugge: se no tutto potrebbe cessare all’istante di
esistere se contenesse in se stesso qualche elemento mortale non occorrendo che
giunga una forza a dividere le parti di cui si compone e a disfarne la trama”.
Come diceva T. C. Boyle in un’intervista: “Io penso che tra 50 anni andrà a
finire come raccontava Cormac McCarthy con La strada. Noi mangeremo tutto e quando non ci sarà più nulla,
ci mangeremo l’un l’altro. Ma il mio piano, personalmente, è morire. Questo è
come affronto la questione”. Non è l’unico omaggio a un grande scrittore che
riserva T. C. Boyle: Gli amici degli animali cela anche un tributo per La fiera dei serpenti di Harry Crews utile a comprenderne il finale, beffardo
e perfetto.
martedì 23 dicembre 2014
Don DeLillo
Si può leggere La stella di
Ratner come un’inconcludente teoria di
scrittura, fine a se stessa: un’elaborazione infinita del rapporto (non del
tutto improbabile) tra lettere e numeri, visto che lo stesso Don DeLillo ha
ammesso di aver “provato a scrivere un romanzo che non solo avesse la
matematica tra i suoi argomenti, ma che, in un certo senso, fosse esso stesso
matematica. Doveva incarnare un modello, un ordine, un’armonia: che in fondo è
uno dei tradizionali obiettivi della matematica pura”. Il sistema è solo
un’apparenza, un abbaglio o un miraggio: La stella di Ratner ha piuttosto le sembianze di un tema jazzistico su
cui piovono improvvisazioni, interludi e incognite assortite. La trama è
sintetizzata, ormai a metà del romanzo, dallo stesso DonDeLillo: “L’ombra
dell’era matematica moderna prese a stagliarsi sulle pareti imbiancate
suppergiù in contemporanea con il manifestarsi dello spirito della
ghigliottina, turbando i sogni di un esile fanciullo che in seguito si sarebbe
distinto per precisione, sgomberando con maestria il flusso regolare
dell’analisi di tante incertezze”. Si chiama Billy Twillig e sarà il genio
principale di una cosmopolita task-force incaricata di decifrare un messaggio
proveniente dai dintorni della stella di Ratner. Endor vive in un buco e mangia
larve, Hoad arriva in elicottero, Otmar Poebbels è il suo superiore ed è
seguito in ordine sparso da Simeone Goldfloss, Desilu Espy, Harouh Farad,
Kidder, LoQuadro, Mutuka alias Gerald Pence, Hoy Hing Toy e poi Celeste Dessau,
U.F.O. Schwarz, Shirl Trumpy, Viverrine Gentian, Rahda Hamadyad, Armand
Verbene, Siba Isten-Esru fino a contrazioni come Grbk o Troxl. La lunga trafila
di nomi, più che di personaggi con identità vere e proprie è una sequenza
linguistica parallela al corso aritmetico e algebrico. Con tutti loro (visto
che “i nomi raccontano storie”), Don DeLillo mette il piccolo “mago dei numeri”
al centro di un labirinto narrativo. Una folle danza di parole che comprende
“una modalità di esistenza subidiotica” piuttosto che “un’indagine sui composti
silfizzanti esoionici” o una non meglio identificata “repressione analogica
ideativa”. Un rumore bianco di perversa ironia: più ci si addentra
nell’underworld della strampalata comunità scientifica che cerca di decifrare
il messaggio alieno e più è evidente il ruolo (provocatorio) dei giocatori. A
partire da Don DeLillo “in orbita” (la definizione è usa) con la rivoluzione
che compie La stella di Ratner attorno
ai suoi romanzi: in fondo, è il frutto di “uno spionaggio poetico praticato dai
sensi per contrastare il sospetto di vuoto che alberga in noi riguardo
all’esistenza stessa”. Marshall McLuhan, una decina d’anni prima che La
stella di Ratner apparisse all’orizzonte,
diceva che “il medium è il messaggio”. Don DeLillo sostiene che “forse non
esiste alcun messaggio” e tutto quello che facciamo “in realtà, è imporre i
nostri limiti concettuali a un argomento impossibile da concludere entro i
confini delle nostre conoscenze attuali. Ci parliamo intorno. Emettiamo suoni al fine di rassicurarci. Tentiamo
di sbucciare i sassi”. Quanto agli extraterrestri, siamo sicuri che Don DeLillo
è sempre d’accordo con il famoso parere Arthur C. Clarke: “La miglior prova
dell’esistenza di forme di vita intelligente nello spazio cosmico è il fatto
che non sono mai venute da noi”. Un paradosso, ma nemmeno tanto.
domenica 21 dicembre 2014
William Carlos Williams
Paterson è una città cresciuta per accumulo, nell’arco di
vent’anni, dal 1946 (anche se le sue radici arrivano fino al 1926) al 1963, un
work in progress che William Carlos Williams ha sviluppato partendo da
un’ipotesi quasi matematica nella sua dimostrazione: “Cerca il nulla, sbaraglia
il tutto, l’N di tutte le equazioni, quella roccia, il vuoto, che le sostiene,
una volta strappato via, la roccia è la loro caduta. Cerca quel nulla, che sta
oltre ogni visione, la morte di ogni cosa che sta oltre, oltre ogni essere”.
Tutto comincia con le domeniche d’estate a Paterson, New Jersey, le conversazioni open air, il
pulviscolo sfuggente della quotidianità, la semplicità di una passeggiata sotto
gli alberi. La realtà rientra nelle parole in modi misteriosi e, come scrive Octavio
Paz, i versi di William Carlos Williams sono “fiori immaginari che operano
sulla realtà, ponti istantanei tra gli uomini e le cose. Ed è così che il poeta
fa del mondo un luogo vivibile”. L’edificazione di Paterson procede fluttuando nel tempo visto che la città “un
luogo è fatto di ricordi al pari del mondo che lo circonda” e coincide con “la
fantasia che non si può scandagliare”. William Carlos Williams avanza senza
esitazioni: non cerca la “sporca argilla”, vuole il “prodotto finito”, la
pietra d’angolo su cui innalzare un tempio degno della capitale di un sogno, di
un’idea, di una rivoluzione. Il genio sta nell’abbandono, nell’inseguire un
miraggio, in fondo, nell’estrema consapevole per cui “noi non sappiamo nulla,
salviamo la danza: il ritmo è tutto ciò che abbiamo”. La materia prima, la
parola, ricostruisce sulle fondamenta di Paterson “l’affinità tra la mente dell’uomo moderno e una
città”. E’ una svolta epocale del ventesimo secolo: nell’interpretazione di
William Carlos Williams “un uomo in sé è una città e inizia, cerca, realizza e
conclude la sua vita in modi personificabili nei vari aspetti di una città”, e
nessuno, come lui, ha tradotto in poesia questa simbiosi. Come una marea, Paterson avanza e scompare, mostra e nasconde, parte e ritorna
rispondendo a quella sensazione “anfibia” che, secondo Octavio Paz “unisce e
allo stesso tempo ci separa dalle cose. E’ la porta attraverso cui entriamo
nelle cose ma anche uscendo dalla quale facciamo nostra l’idea che noi stessi
cose non siamo. Perché la sensazione lasci il passo all’oggettività delle cose
essa deve a sua volta trasformarsi in oggettività. Il linguaggio è l’agente di
questa trasformazione: le sensazioni diventano oggetti verbali. Una poesia è
dunque un oggetto verbale, fusione di due proprietà tra loro in contraddizione:
la vitalità delle sensazioni e l’oggettività delle cose”. Paterson è quello, è tutto proprio perché, come scrive William
Carlos Williams, “tratti via dalle strade noi rompiamo la clausura della mente
e siamo presi dal vento dei libri, cercando, cercando nel vento, finché non
sappiamo più quale sia il vento quale il potere del vento su di noi che porta
la mente lontano”. Da leggere, rileggere, consultare come un vocabolario
magico.
mercoledì 17 dicembre 2014
Greil Marcus
Attorno a Like A Rolling Stone, una delle canzoni più famose e importanti della
storia del rock’n’roll, Greil Marcus ricostruisce la storia dei personaggi,
delle svolte e degli eventi che portarono alla sua incisione e che seguirono la
sua pubblicazione, nel 1965. L’inquadratura è dichiarata fin dalle primissime
pagine dove Greil Marcus dice che in quel preciso momento “la corsa non era
solo tra i Beatles, Bob Dylan e i Rolling Stones e chiunque altro. Il mondo del
pop era in gara con un mondo più vasto, il mondo delle guerre e delle elezioni,
il lavoro e lo svago, i poveri e i ricchi, i bianchi e i neri, le donne e gli
uomini: nel 1965 potevi sentire che il mondo del pop stava vincendo”. I
crocevia di cui si parla in Like A Rolling Stone, oltre a richiamare l’enigma di Robert Johnson,
illustrano meglio le svolte affrontate da Bob Dylan nel e dal 1965. E’ attorno
a quell’anno che maturano alcune delle scelte, molti imprevisti e altrettante
decisioni che cambieranno la storia della sua vita, ma anche quella del
rock’n’roll. In questo Like A Rolling Stone è fedele al concetto espresso da Greil Marcus nella
parte centrale dove dice che “la canzone è un suono, ma prima di questo è una
storia. Ma non è un’unica storia”. Diventa allora il cardine attorno al quale
ruota tutto l’immaginario pubblico e giovanile (ma non solo) di un’intera epoca
e come tale assume un valore universale perché, come scrive Jann Wenner
“riguarda il crescere, scoprire quello che succede intorno a te, realizzare che
la vita non è affatto quella che ti è stata raccontata”. La ricostruzione è
certosina perché gli snodi di Like A Rolling Stone, proprio come nella canzone, sono tanti e
importanti. Tra gli antefatti vanno elencati la crisi dei missili di Cuba nel
1962 (il mondo sull’orlo dell’apocalisse già evocato da un profetico Bob Dylan
in A Hard Rain’s A-Gonna Fall) e
l’assassinio di JFK concentrati nella bellissima epigrafe di Allen Ginsberg.
Tuoni e fulmini che Like A Rolling Stone invocava e superava perché come scrive
ancora Greil Marcus “c’erano rabbia e paura, alla fine venivano lasciate alle
spalle dalla vera e propria euforia dell’avventura che la canzone prometteva.
Adesso non c’è alcuna promessa e la rabbia e la paura sono l’unica moneta di
cui si fida. Ma i frammenti di quella vecchia euforia sono ancora presenti,
come accade per il desiderio di uccidere il passato eliminando chiunque ne
indossi il volto, una vecchia amante, un vecchio amico, te stesso. La tempesta
di Like A Rolling Stone, la
tempesta che fa piazza pulita di ciò che è familiare e rivela un migliaio di
strade, è ora una tempesta di pura distruzione, ma la brama che conduce il
cantante verso la tempesta è la stessa”. In appendice, c’è una dettagliatissima
rivisitazione delle session che portarono a Like A Rolling Stone, take dopo take. Tra questi due estremi, Greil
Marcus, più divulgativo e meno intricato che altrove, riesce ad illustrare con
chiarezza perché, in quel preciso momento storico “nessuno ascoltava la musica
alla radio come se facesse parte di una realtà separata”, ovvero dove hanno
portato quei crossroads che Dylan, e con lui tutto un mondo, si trovò davanti.
venerdì 12 dicembre 2014
Jason Starr
Richard Segal e la moglie Paula
sono due giovani in carriera nella frenesia workaholic di New York, scenario
perfetto per mettere in luce il confronto quotidiano con realtà ossessive e il
minimo comune denominatore che le unisce nell’incapacità di comunicare. Lei ha
appena ottenuto una promozione, ed è integrata alla perfezione, compresa la
visita settimanale dall’analista. Lui, che è un esperto venditore di software e
altri derivati informatici, sta attraversando un periodo negativo dovuto al
trasferimento in una nuova azienda e ad un’oscura ferita che emerge dal
passato. “Lo scopo del gioco è vincere” scrive Jason Starr e quando la vita è
dominata dalla competitività, in ufficio come a letto, in strada come sul campo
da tennis, le ambizioni e le frustrazioni viaggiano insieme, inestricabili. La
pressione, che pare mutuata dalla stessa architettura di New York, è opprimente
per tutti figurarsi all’interno di un matrimonio di per sé già traballante. Le
dinamiche della coppia, sempre sull’orlo di una crisi di nervi, lei in trincea
di giorno e di notte, lui con una vocazione irrisolta all’alcol, diventano il
motore torbido della storia. Insieme, Paul e Richie sembrano il trionfo della
noia. Separati, sono, nello stesso tempo, mine vaganti e bersagli mobili. La tensione
è costante, a tratti insopportabile, una violenza che cova nell’alveo degli
uffici open space, dei debiti accumulati sulle carte di credito, di una vita
sempre un po’ oltre i limiti, tra il sogno dell’ufficio d’angolo con panorama
su Central Park e l’incubo della destinazione più temuta, un anonimo cubicolo
in mezzo a milioni di altri. Richie ci arriverà, per poi risollevarsi quando
deciderà di affrontare le ombre degli abusi che ha subito da bambino. I Cattivi
pensieri a Manhattan lì prendono una parabola
spietata e il romanzo, nella sua brevità, diventa durissimo e tagliente. Jason
Starr non perde tempo, la sua lingua è limitata ed essenziale, molto realistica
(fin troppo) e senza contorni moraleggianti: i personaggi si muovono veloci nel
disperato tentativo di restare a galla, non altro. L’impressione di averli già
visti con le bugie, i sotterfugi, gli inganni con cui sopravvivere alla
ragnatela di New York, è forte. Come i loro simili in Chiamate a
freddo o in Piccoli delitti del
cazzo, Jason Starr li trascina verso il
fondo, con la velocità di un videoclip. Scena dopo scena, pagina dopo pagina,
la spirale di Cattivi pensieri a Manhattan si fa sempre più stretta e se è evidente fin dalle prime battute che
né Paula né Richie hanno scampo, poco importa perché per Jason Starr esiste
soltanto il ritmo tambureggiante, i dialoghi sferzanti, le frasi tagliate a
colpi d’accetta, i rapporti umani circondati da un’ombra livida e senza
speranza. Non c’è via d’uscita, e il vagabondare di Richie è soltanto il riflesso
di un’identità che non riesce più ad afferrare e tappa dopo tappa, stazione
dopo stazione, il suo downtown train
giunge al capolinea. Si legge in una sera e fa pensare per due settimane.
martedì 9 dicembre 2014
Donna Tartt
Travolto
dalle esplosioni di un attentato in un museo di New York, Theo Decker perde la
madre e salva un piccolo quadro, Il cardellino, a cui si aggrappa come se fosse
l’ultimo appiglio sulla terra. Succede tutto con “il brivido di una connessione
interrotta, i secondi sul marciapiede come un singulto del tempo perduto, la
manciata di fotogrammi tagliati di un film”, poi Theo viene ospitato dalla
famiglia del suo amico Andy, i Barbour che, con i loro modi aristocratici,
cercano di aiutarlo, per quanto possibile perché Theo è cosciente di ciò che è
successo e “di sicuro non urlavo di dolore né prendevo a pugni le finestre, né
facevo alcuna delle cose che uno si sentiva come me avrebbe potuto fare. Eppure
a volte, senza preavviso, il dolore m’investiva a ondate, lasciandomi
boccheggiante; e quando la marea si ritirava restavo a fissare un relitto
coperto di salsedine, illuminato da una luce così chiara, triste e vuota, che
mi pareva impossibile che al mondo fosse mai esistito qualcosa di diverso dalla
morte”. Nella prima parte (e in particolare nello svolgersi del rapporto tra
Theo e la madre) Il cardellino
è davvero da Pulitzer, poi, come se l’onda d’urto delle bombe, cominciasse a
rimbalzare, trascina la storia in un vortice di volti e suggestioni: Hobie,
l’artigiano e l’antiquario che sembra in grado di sopportare tutto, persino la
morte, il padre Larry e Xandra, Boris, Hart Crane, i Beatles, Bob Dylan. Dal
suo approdo Las Vegas, “un enorme fanculo a Thoreau”, Il cardellino si accumula, si addensa, non si risolve,
e il più delle volte è ridondante, come se Donna Tartt non fosse così sicura
della corretta sequenza delle frasi, delle immagini e delle scene, e dovesse
ripetersi, più di una volta. Arrivati a metà si prosegue per capire, giusto per
curiosità, come andrà a finire. Donna Tartt, se non altro, ha la grazia di una
scrittura accattivante e ben organizzata, agevole e pop, una sorta di Stephen
King (peraltro nascosto in un paio di citazioni) senza l’elemento fantastico.
Nella seconda parte, Il cardellino
è assalito dai colpi di scena che si susseguono a ritmo tambureggiante, non
sempre coerente, e si tinge anche di una sfumatura noir, non del tutto
appropriata. In questo passaggio non si può svelare di più, per le ovvie
ragioni legate alla trama e ai suoi sviluppi, ma l’epilogo è contorto, anche se
tra le righe Donna Tartt spiega che “è questo che fanno tutti i veri maestri.
Rembrandt. Velásquez. L’ultimo Tiziano. Giocano. Si divertono. Costruiscono
l’illusione... Ma appena ti avvicini un po’, ecco che il trucco si svela e
appaiono i segni del pennello. Astratti, ultraterreni. Una bellezza diversa e
molto, molto più profonda. La cosa in sé e il suo contrario”. Se si prendono le
dovute misure, Il cardellino
si rivela un romanzo che procede per tentativi, uno strato sopra l’altro: non
sempre i contorni coincidono e rimangono nella cornice. E’ un bel soufflé,
forse lievitato un po’ troppo: se è vero che “tutto ciò che ha davvero valore
rappresenta una scommessa”, è altrettanto ovvio che in un labirinto di
ottocento pagine non sia facile trovare la soluzione.
mercoledì 3 dicembre 2014
Charles Bukowski
Taccuino di un vecchio sporcaccione raccoglie le rubriche
che Charles Bukowski tenne su una rivista undeground, a partire dal 1967. Una
condizione ideale, tanto per cominciare: “Non c’erano pressioni di nessun tipo.
Bastava semplicemente mettersi a sedere vicino alla finestra, alzare la lattina
di birra e lasciare che il pezzo venisse fuori da solo. Tutto quello che doveva
arrivare, arrivava”. Settimana dopo settimana, il Taccuino di un vecchio
sporcaccione
cresce grezzo, risoluto, spontaneo perché Bukowski è proprio nel suo elemento
naturale, quello autobiografico, senza altro recinto. L’elenco delle
possibilità e delle opportunità è elementare: “Pensateci anche voi: totale
libertà di scrivere qualsiasi cosa che vi passi per la testa. Io mi ci sono
divertito, mi sono anche fatto dei problemi, qualche volta; ma soprattutto mi è
sembrato di capire che, col passare delle settimane, i pezzi venissero fuori
sempre meglio”. Nella felice confusione del suo taccuino, il Buk tiene insieme
Satchmo e T. S. Eliot, un effervescente ritratto di Jack (Kerouac) & Neal
(Cassady) attraverso uno strambo flusso di coscienza. Molto musicale
nell’appuntare le vicende quotidiane di cavalli di razza e corse
sconclusionate, donne e uomini che si inseguono, “party girls & broken
poets” per dirla con Elliott Murphy, sullo sfondo di una città aperta tutta la
notte. I frammenti del Taccuino di uno sporcaccione si agganciano uno
all’altro, anche in modo disordinato e senza soluzione di continuità, comprese
le licenze igieniche necessarie: “I lettori prendono da uno scrittore, o da un
libro, quel che gli pare e trascurano il resto, ma quel che gli serve è quel
che in realtà non gli serve mentre trascurano quel che gli servirebbe
maggiormente, insomma tutto ciò mi consente di eseguire le mie piccole sante
variazioni e nessuno mi disturberebbe se venissero comprese, ma in questo caso
non ci sarebbero più creatori, ci troveremmo tutti nello stesso paiolo di
merda. Nella situazione attuale io mi trovo nel mio paiolo di merda e loro nel
loro, penso che il mio puzzi di meno”. Non manca la classica autoassoluzione
bukowskiana, che collima con il paesaggio umano raccolto sul Taccuino di un
vecchio sporcaccione: “Io non ero un gran genio, ma ero lontano da Atlanta, non
ero ancora un cadavere, avevo delle belle mani e molta strada da fare”.
Partendo da sé, Bukowski condivide una sorta di infinita apologia generale con
gli outsider, con gli eterni sconfitti (“E per pessimi che fossimo eravamo la
fine del mondo”), con i cronici inconcludenti, con i recalcitranti. Il suo Taccuino
di un vecchio sporcaccione diventa un trionfo verboso e incontinente, caotico e
sarcastico nello stesso tempo, come nella migliore tradizione bukowskiana. La
percezione, a livello epidermico, è di una specie di ritmo che, anche nelle
scadenze di una modesta rivista underground, diventa persino una filosofia di
vita, che poi è quella di sempre: “Non potevo far altro che scolare la lattina
di birra e aspettare che cadesse l’atomica”.