Alla fine della
prima guerra mondiale, le sorelle Ella e Kate ricevono in eredità dal padre una
cospicua rendita e dal Michigan decidono di partire alla scoperta di New York.
Il primo obiettivo dichiarato del trasferimento è trovare un buon partito a
Kate, visto che Ella è già sposata a Finch, riluttante accompagnatore e
narratore a cui Ring Lardner mette a disposizione una voce frizzante, arguta e,
non di rado, sarcastica. Il tono non è casuale: La grande mela accoglie i nuovi ospiti con lo stesso
entusiasmo con cui affronta una nuova giornata, giusto un pizzico di
indifferenza. Finch se ne accorge fin dal primo impatto, all’arrivo, quando
commenta “un formale benvenuto dalla Big Town” così, con una punta di acidità:
“Il personale alberghiero di New York sembra sempre che abbia perso qualcosa
visto che non stacca mai gli occhi dal pavimento”. Lo strambo trio si adegua in
fretta e comincia girovagare nei meandri della città, senza meta, conducendo
una vita sull’orlo della noia. La grande mela è prodiga di tentazioni: dalle orchestre agli
spettacoli delle Ziegfeld Follies, dal whiskey di segale alle cene à la carte, dai
balli ai cocktail, solo che nessun incontro riesce a suscitare un minimo di
entusiasmo o di calore perché sembra che tutti “non hanno da dirsi niente che
si potrebbe chiamare novità”. In effetti La grande mela è avvolta in un’aria decadente, la stessa
vacua frenesia del grande Gatsby: tutto sembra già vecchio, persino il jazz,
che allora doveva essere la next big thing, viene risolto da musicisti che
tendono al massacro, almeno secondo l’opinione di Finch. In quel particolare
frangente scovare uno sposo per Kate, colto, bello, elegante e, neanche a
dirlo, solvente, è una missione dai contorni imprevedibili. I rendez-vous,
visto che vivono di rendita e assecondano La grande mela in tutte le possibili digressioni, si
susseguono tra un drink e l’altro (Finch ha un atteggiamento “liberale” nei
confronti dell’alcol) e in questo La grande mela di Ring Lardner non è molto dissimile dagli
spettacoli di vaudeville in voga all’epoca. Una carrellata di personaggi
bizzarri, eccentrici, volubili ed estatici che, di volta in volta, si chiamano
Griffin, Daley, Codd. Gli improbabili pretendenti sono appariscenti, hanno
tutti una scommessa: a Wall Street, all’ippodromo o, per Dodd, il più
coraggioso, con il prototipo di un aereo. Facile immaginare come andrà a finire
(e non solo per il pilota): La grande mela non fa sconti, gli avventurieri svaniscono e alla
fine la constatazione di Finch ha un’amarezza che suona quasi come un presagio,
di quello che succederà a New York e in America da lì a qualche anno: “Tutto
quello che ho potuto fare, è questa osservazione: non vedo come andremo a
finire, specie in vista di un bilancio di verifica”. E’ la proprietà ultima
della scrittura di Ring Lardner alias Abe North, secondo Francis Scott
Fitzgerald: pur essendo leggero, friabile, vaporoso, frou frou, La grande
mela spicca impietoso e
impeccabile nel ricostruire il crepuscolo di un’intera società.
mercoledì 26 febbraio 2014
lunedì 24 febbraio 2014
Cynthia Ozick
Nel tormentato rapporto di Cynthia Ozick con la scrittura, i racconti raccolti in Il rabbino pagano rappresentano un momento convinto e ispirato in cui
è riuscita a sciogliere i nodi di un modello esigente e rigoroso con una
visione coraggiosa e spigolosa. Da una parte, lo stile è raffinato, levigato
fino all’ossessione. In uno scambio di battute di Virilità c’è tutta l’arguzia, e forse anche la sintesi, del
suo modo di accostarsi alla lingua e ai suoi funambolismi. Dice Margaret, una
delle protagoniste di Virilità:
“Non si parla delle deformità”. “A meno che non si presentino in forma di
poesia”, è la risposta che ottiene dalla stessa narratrice. Il
rabbino pagano elenca una giusta selezione
di una mezza dozzina di ipotesi di quella che Cynthia Ozick definisce “una
dimensione ironica nello sguardo sugli esseri umani e le loro finzioni”. E’
così che intende la sua scrittura, associando leggende e realtà, con un tono
che varia da racconto a racconto, anche se l’intenzione comune a tutti è
“esplorare il lato più incline alla comprensione”, pur utilizzando sia gli
elementi fantastici e leggendari di Il rabbino pagano e La strega dei docks sia quelli più concreti di La valigia e La moglie del dottore. Ancora
di più, è evidente, quando racconta l’esilio, ancora in Virilità: “E’ dura la vita e desolata in questo paese
d’esilio: noi che vi abitiamo (i sopravvissuti, sarebbe meglio chiamarci, noi
dell’undicesimo decennio) siamo così pochi, così mutilati, così poco affidabili
riguardo alla cronologia recente e così in disaccordo con le vostre idee di
grandezza, che di fatto tendiamo ad avere una mentalità distinta, e secondo
logica ci spetterebbe una bandiera”. Una condizione che ispira la Gerusalemme
descritta in La farfalla e il semaforo come “fenice tra le città”, che “ha una storia di storie”. Una
possibile risposta si trova nel racconto centrale della raccolta,
Invidia, ovvero lo yiddish in America,
perché “dopo tutto c’era una ragione per vivere la vita che vivevano: altrove
era peggio”. Anche in questa specifica occasione, Cynthia Ozick non rinuncia,
proprio tra le pieghe di Invidia, ovvero lo yiddish in America, alla sua sottile e perfida vena autoironica: “Lo so
che mi date della scribacchina, e mi va anche bene, sono quello che lei pensa,
immaginazione zero, talento più no che sì (anch’io ai tempi volevo fare il
poeta, ma questa è un’altra vita)”. Persino nelle sue divagazioni, tutto meno
che casuali, Cynthia Ozick impone una particolare sensibilità nell’accostarsi alle pagine, forte
anche della sensazione che “oggi sono le stelle a decidere della fama, ai
nostri tempi eravamo noi, ed eravamo noi a decretare le nostre stelle”. Il
rabbino pagano è l’espressione migliore di
quell’esigenza singolare, che parte dalla scrupolosa attenzione alla coerenza
dei mondi letterari per arriva a una destinazione forse più ambiziosa, forse
più realistica, come diceva la stessa Cynthia Ozick, “acquisire una visione
partecipe nei confronti della vita, perché so che, come lettrice, non voglio
leggere quello che scrivo”.
giovedì 20 febbraio 2014
James Baldwin
Harlem, 1930: nel ghetto l’intreccio delle vite
è prepotente, un senso permanente di minaccia gonfia l’aria, ognuno ha una sua
preghiera per arrivare alla fine del giorno e per superare la notte, per
resistere all’inferno in terra e sperare nel paradiso in cielo e così “gli
uomini hanno parlato di come il cuore si spezza, ma non hanno mai parlato di
come l’anima resta sospesa, muta, nella pausa, nel vuoto terrificante tra la
vita e la morte; di come, strappati e gettati via tutti gli abiti, l’anima
entra nuda nella bocca dell’inferno. Una volta entrati non si esce più: una
volta dentro, l’anima si ricorda, anche se il cuore qualche volta dimentica.
Perché il mondo si rivolge al cuore, che balbettando risponde; la vita, e
l’amore, i piaceri e, più falsamente, la speranza, chiamano l’immemore cuore
dell’uomo. Solo l’anima, ossessionata dal cammino percorso e da quello ancora
da percorrere, persegue il suo misterioso e terribile fine; e trascina con sé
il cuore, gonfio di pianto e di amarezza”. Nel campionamento umano di Gridalo
forte finiscono due
coppie di fratelli, due matrimoni, due donne, tutti incastrati in un oscuro
triangolo perché c’è qualcosa di geometrico nei modi con cui tutti cercando di
nascondere le proprie ombre o, infine, di rivelarle. La capacità di
James Baldwin di interpretare la distanza minima tra bene e male, quasi di
visualizzarne la percezione, è il cuore ricco, denso, fluttuante di Gridalo
forte e la forza dei suoi protagonisti lo
rende un classico. Gabriel,
il predicatore che nasconde i suoi demoni in omelie spiritate e contorte e poi
ricorda che “fuggiva nella notte stellata e camminava finché arrivava a una
taverna, o a una casa che aveva già adocchiato nella lunga giornata della sua
libidine. E lì beveva finché sentiva dei martelli risuonare nella sua testa
annebbiata; malediceva gli amici e i nemici, e faceva a botte finché non
scorreva il sangue; la mattina si ritrovava nel fango, nella terra, in letti
sconosciuti, e una o due volte in prigione; con la bocca impastata, i vestiti
stracciati, emanando da tutto se stesso il fetore della corruzione. Allora non
riusciva nemmeno a piangere. Nemmeno a pregare. Desiderava quasi la morte,
l’unica cosa che potesse liberarlo dalla crudeltà delle sue catene”. I sermoni
non bastano a mascherare la verità perché “essere un predicatore non ha mai
impedito a nessun negro di fare le sue porcherie”. Questo lo dice la sorella
Florence, già sposata a Frank, che beve, canta i blues e muore in Francia, dove
la guerra non ascolta né i canti né le preghiere. Con Florence ci sono Deborah,
Elisabeth, Esther e James Baldwin trova la svolta giusta, anche all’interno di
una condizione drammatica, di spiegare che “su tutte le donne pesava, fin dalla
culla, una maledizione; in un modo o nell’altro, tutte vittime dello stesso
crudele destino: essere nate per sopportare il peso degli uomini”. Dei padri e
dei figli che qui hanno il nome di Roy, Elisha e John (soprattutto), l’unico
che, non senza dolore, saprà distinguere la realtà del peccato dalle sue
evocazioni. Rivelatorio.
martedì 11 febbraio 2014
John Steinbeck
Quello di Tom Joad
è un fantasma che si ripresenta più e attuale e spettrale che mai. Il viaggio
della sua famiglia su una strada che è viva, senza fine e brulicante di
migranti, un nuovo popolo in cerca di una terra promessa, un’inedita specie
americana, evoca il giorno in cui “gli eserciti dell’amarezza andranno tutti
nella stessa direzione. E marceranno tutti insieme, e spargeranno un terrore di
morte”. Il tenore apocalittico è il senso primo e ultimo di Furore perché “la gente è il posto dove vive” e
quando la meccanizzazione dell’agricoltura attraverso le colture intensive e
quelle pratiche economiche che rendono mostri i trattori e le banche i Joad
rimangono devastati vedendo che “la terra partoriva sotto il ferro, e sotto il
ferro a poco a poco moriva, perché non era stata amata né odiata, non aveva
attratto preghiere né maledizioni”. L’illusione di essersi lasciati alle spalle
una ferita vasta quanto una nazione è un miraggio e dura lo spazio di un
niente: la polvere è ovunque e ai Joad non resta che chiedersi “come facciamo a
vivere senza le nostre vite? Come sapremo di essere noi senza il nostro
passato?”, e sono queste le domande che hanno trasformato Furore in un classico. Duro, estremo, non
riconciliato, unico tanto da sollecitare l’inequivocabile sentenza di Tom
Wolfe: “La grande letteratura americana è finita con John Steinbeck. Dopo di
lui, il diluvio. Solo autori molli, contagiati dalla malattia perniciosa del
romanzo francese: nessuno che abbia più raccontato una storia sporcandosi le
mani con la realtà”. Su questo si può anche essere in disaccordo, ma, come puro
e semplice narratore, Steinbeck è incredibile: per dire, dopo un capitolo
passato a decantare l’amore per le automobili (usate, peraltro) lascia Tom Joad
in mezzo a un sentiero desertico. E’ quella la forza di un’amarezza che Furore non stempera mai: l’odissea della famiglia
Joad procede su strade che dovrebbero portare in California e invece si
inerpicano nel mezzo del nulla. Furore aveva e ha ancora un’energia infinita nelle descrizioni,
nel racconto della Route 66, un’ossessione micidiale nell’inquadrare lo spirito
di un tempo sfuggente, di tutti i tempi, di sempre e John Steinbeck è stato
soltanto straordinario a evidenziarne, quasi con precisione fotografica, i
dettagli perché siamo “la rabbia di un momento, le mille immagini”, e poco
altro. Una di queste, appare subito nelle prime pagine e rimane scolpita dalle
parole: “Venne l’alba, ma senza giorno”. C’è l’intero Furore in una frase, anche se poi John Steinbeck
sguscia fuori dalla pelle dello scrittore e alza la voce con un tono che è
soltanto profetico: “Se riusciste a capire questo, voi che possedete le cose
che il popolo deve avere, potreste salvarvi. Se riusciste a separare le cause
dagli effetti, se riusciste a capire che Paine, Marx, Jefferson e Lenin erano
effetti, non cause, potreste sopravvivere. Ma questo non potete capirlo. Perché
il fatto di possedere vi congela per sempre in io, e vi separa per sempre dal noi”. Imprescindibile.
venerdì 7 febbraio 2014
Erskine Caldwell
Dalle sue origini,
che risalgono alla rivoluzione americana, e fino all’inizio della seconda guerra
mondiale, il linciaggio non è mai stato l’imprevedibile frutto di una follia
collettiva. Quello è l’effetto. La causa
è l’applicazione cinica e brutale di una spietata forma di controllo
sociale, distribuita con i termini di un’ingiustizia casuale, e per quello più
terrificante, destinata a generare un clima di quotidiana apprensione. Un modo
per disseminare incertezza e paura, sempre utili a mantenere lo status quo, e
così come serviva alle truppe coloniali dell'impero è servito ai proprietari
terrieri e ai governanti che godevano del regime della schiavitù e della
segregazione. Fermento di luglio di Erskine Caldwell, che risale al 1940, è un romanzo
che nella sua brevità sfrutta un meccanismo narrativo perfetto per rendere
trasparente, chiara, inequivocabile una realtà tragica e oscura come la pratica
del linciaggio. Con una precisione stilistica che è pari all’analisi storica,
politica, per non dire umana. Siamo in Georgia, i campi di cotone sono un
oceano da cui non si può fuggire. Jeff McCurtain è uno sceriffo che amministra
la legge in nome del popolo sovrano, e che alle prime avvisaglie di un
linciaggio prende la sua canna da pesca, sempre pronta all’uso, e si
trasferisce sul torrente per giorni e giorni. Fa sempre così, per l’occasione.
Provare a fermare un linciaggio è un rischio politico non calcolabile e non
necessario e dato che la sua è una carica elettiva, la pesca alla trota in
America è pur sempre un bel ripiego. La contea di Andrewjones è da sempre a
maggioranza democratica, ma “quando si tratta di votare, la gente è mutevole
come il vento del sud a novembre” e lo sceriffo ci tiene alla sua stella che
coincide con la sua casa, visto che abita nei locali sopra gli uffici e la
prigione. In quel Fermento di luglio, quando lo tirano giù dal letto per dirgli che è
partita la caccia, Jeff McCurtain perde quell’attimo fuggente che gli permette
di sparire e quindi di non interferire con il linciaggio, visto che in fondo
l’amministrazione della giustizia toccherebbe a lui. In un crescendo
inarrestabile e travolgente, si scopre fin dall’inizio che Sonny Clark, il
fuggitivo (afroamericano, se bisogna specificarlo) è a sua volta vittima di una
macchinazione ispirata da Narcissa Calhoun, una vedova che “girava per la
contea raccogliendo firme per una petizione nella quale chiedeva di rispedire
tutti i negri in Africa”. Il clima torrido e contorto del Fermento di luglio coincide con un’atmosfera arida e
senz’aria eppure Erskine Caldwell non si lascia prendere la mano dalla pietà o
dall’indignazione per il vigliacco opportunismo di Jeff McCurtain o del giudice
Ben Allen. Frase dopo frase identifica i personaggi (tutti memorabili) e gli
spazi in cui si muovono e focalizza e denuncia in modo inequivocabile un
contesto in cui il linciaggio è solo una piccola, rozza e atroce leva di un
meccanismo molto più antico ed elaborato. Un monito, più che un (perfetto)
romanzo.
sabato 1 febbraio 2014
Russell Banks
Bob Dubois ha
un’innata predisposizione da loser: non c’è una mossa sbagliata che non riesce
a evitare per arroganza, per incapacità, per frustrazione, perché segue più il
suo uccello del suo cervello. Aggiusta caldaie nel New Hampshire fino a quando
non trascina la moglie e la famiglia in Florida, dal fratello Eddie, in cerca
di una versione più scintillante del sogno americano. In realtà Bob Dubois
fugge dal gelo, dalla monotonia della provincia, dove “niente sembra migliore
rispetto a ieri”, dai suoi piccoli sotterfugi. Non può scappare da se stesso e
la sua vita è proprio una ben misera Atlantide, destinata ad essere spazzata
via dagli eventi, “così lontano dalle cose vere” perché sempre votata ad altre
soluzioni: ipotetiche, fantastiche, un tiro di dadi, un colpo di fortuna.
Vanise Dorsinville (con il figlio e un nipote) invece si è lascia alle spalle
Haiti, spinta dal naturale e spontaneo istinto per la sopravvivenza. La
deriva dei continenti è
un’anomala ellisse in cui Bob Dubois e Vanise Dorsinville sono i fuochi:
attorno a loro si sviluppa un coro tragico dove nessuno è innocente e tutti
hanno qualcosa da nascondere. Quando Bob Dubois assume l’incarico di guidare
una barca per recuperare i migranti di Haiti, la distanza tra i due fuochi si
azzera e l’ellisse si schianta con una violenza inaudita. La deriva dei
continenti di Russell
Banks si incrocia nell’incognita dell’oceano Atlantico, dove le rotte delle
migrazioni di Bob Dubois (per noia e per assuefazione) e Vanise (per fame e per
disperazione) si intersecano in un destino fatale. Ci vogliono le parole del
Nobel dei Caraibi, Derek Walcott, per capire il senso e il peso del dramma:
“Certe cose non le scegliamo noi, ma siamo quello che abbiamo fatto. Soffriamo,
gli anni passano, lasciamo tante cose per via, fuorché il bisogno di fardelli.
L’amore è una pietra che si è posata sul fondo del mare sotto acqua grigia”. La
rappresentazione poetica racchiude in poche righe tutta La deriva dei
continenti: quando due
disperazioni si incrociano, la tragedia è inevitabile e Bob Dubois trova la sua
nemesi, spietata, senza appello. Anche nel suo florilegio stilistico, Russell
Banks non concede nulla ai protagonisti del suo portentoso affresco “perché
hanno fatto una cosa tremenda e spaventosa: hanno barattato una vita per
un’altra e questa nuova vita è adesso l’unica che hanno”. Le rotte tracciano
due punti di domanda che si riflettono e s’intrecciano e che nelle loro scie si
portano dietro miti, leggende e costruzioni. Per Bob Dubois sono tutti gli
orpelli americani, la birra, le sigarette, la televisione, i conti da pagare. A
Vanise Dorsinville basta il voodoo, ”lunghi richiami tremanti, vecchi quanto il
desiderio della specie umana di segnalare la propria presenza, vecchi quanto la
solitudine e la paura”. In mezzo c’è l’oceano, la notte, l’oscurità, un’odissea nelle tenebre in cui le due
metà collidono senza incontrarsi: La deriva dei continenti e quella degli esseri umani è proprio
così. Un capolavoro, con l’aggiunta di un titolo perfetto.