mercoledì 27 febbraio 2013
domenica 24 febbraio 2013
Jack Kerouac
Coetaneo di Sulla strada e pubblicato soltanto vent’anni dopo, Pic è un frutto acerbo e colorito. L’effetto è abbastanza straniante perché racconta il viaggio un bambino afroamericano che dalla Carolina del Nord arriva a New York mentre Jack Kerouac era già al capolinea. Il punto di vista è sempre soggettivo e l’emozione della scoperta, di un orizzonte che si apre all’improvviso, quell’anelito verso qualcosa di nuovo e di diverso, si svela quando Pic dice: “E ora eccomi in città di nuovo, ma stavolta ero cresciuto e stavo per andare per il mondo con mio fratello. Be’, ogni cosa stava diventando terribilmente interessante da osservare”. Rocambolesco, pittoresco, confusionario Pic ha la stessa natura di Sulla strada anche se gli manca la visione d’insieme, il trasporto, la forma e forse la fiducia. Il limiti imposti dalle dimensioni e dallo spazio autorizzano a pensare che Kerouac non avesse del tutto chiaro il destino di questo romanzo, anche se i temi (la strada, il jazz, il gusto per l’avventura e per gli outsider di ogni forma e natura) sono gli stessi e la scrittura ha già il vigore e la passione di sempre. Vale ancora, a proposito di Pic, quello che scriveva Seymour Krim: “Quasi dieci anni prima della volgare immediatezza della Pop Art ci mostrò lo stupefacente ambiente in cui viviamo realmente e fece erompere la nostra prosa in un flessibile gioco d’azzardo, di osservazione senza difetti, precisione di dettagli”. In questo il giovane Kerouac ha già la predisposizione di un osservatore acuto, per non dire profetico. Negli scorci finali di Pic, quando deve spiegare come funziona un tubo catodico (oggi, uno schermo digitale) lo presenta così: “La televisione è un grande lungo braccio di luce che raggiunge il vostro salotto, e anche nel mezzo della notte quando non ci sono programmi in onda la luce è accesa; anche lo schermo è scuro. Studiate questa luce. Vi ferirà inizialmente e bombarderà i vostri occhi con cento trilioni di particelle elettroniche, ma dopo un po’ non vi darà più fastidio”. Uno dei suoi lettori più appassionati, Tom Waits, deve essersi ispirato a questo passo quando, un po’ per scherzo e un po’ sul serio, diceva di ricoprire la televisione di notte, come una gabbia per canarini. Come si legge ancora in Pic forse dipende dal fatto che “mentre l’elettricità era luce per mezzo della quale vedere, questa è luce che viene non per far vedere, ma per vedere, non per aiutarci a leggere, ma per leggere. Questa è luce che sentite. E’ la prima volta al mondo che della luce è stata raccolta dalle fonti di luce e proiettata attraverso un tubo in modo che possa essere osservata e studiata invece che farci solo sbattere le palpebre. E ha preso la forma di uomini e donne in carne e ossa nello studio che arrivano in strisce luminose nel vostro salotto con tutti i loro suoni registrati attraverso il sonoro. Che cosa significa tutto ciò, signore e signori?”, ed è una domanda che rimane sospesa in coda a Pic. La risposta di Kerouac è implicita visto che, rispetto alla televisione e a quello che c’è dentro, lui andava nella direzione opposta.
mercoledì 20 febbraio 2013
Gary Snyder
La “circoscrizione elettorale” di
Gary Snyder è stata sempre e solo la wilderness e la bella definizione, che
spunta in fondo a L’isola della tartaruga, coincide con un’ideale nazione,
nella sua visione, di quella comunità che “non significa solo uomini e donne ma
anche erbe, rocce, vento, nuvole, gli altri animali”. Il suo programma di
governo, espresso in chiave poetica, è tutto concentrato in L’isola della
tartaruga e la wilderness è il leitmotiv e insieme il tratto dominante della
costituzione immateriale perché “visto che ci troviamo ora sulla soglia del
declino della civiltà, il primo passo da fare potrebbe essere ritrovare quella
visione primitiva del mondo che da sempre, e in maniera intelligente, ha
cercato di aprire dei varchi per comunicare con le forze naturali”. Gary Snyder
popola L’isola della tartaruga di liriche brevi e frementi che hanno un’utilità
fresca e immediata ancora oggi, forse più del 1974 quando uscì per la prima
volta e, fedele alla sua missione, non disdegna la vocazione politica, intesa
nel senso più ampio ed evoluto: “I nostri poteri più profondi possono cambiare
noi stessi ma anche la cultura. Se l’uomo vuole sopravvivere sulla terra, egli
dovrà saper trasformare la tradizione di civiltà urbana, lunga cinque millenni,
in una nuova cultura di sensibilità ecologica spirituale-scientifica, tendente
all’armonia, intimamente selvatica. La selvaticità è lo stato di completa
consapevolezza. Ecco perché ne abbiamo bisogno”. La road map che L’isola della
tartaruga comincia con l’elenco delle necessità impellenti che si risolve,
secondo Gary Snyder in “una questione d’amore, non l’amore umanistico
dell’occidente, ma un amore che si estende agli animali, alle rocce, alla
terra… A tutto. Senza questo amore possiamo finire, anche senza guerre, in un
luogo inospitale”. L’esperienza insegna che la previsione di Gary Snyder è
tutt’altro che ingenua e che la sua utopia (“Obiettivi: aria pura, acqua e
bacini dei fiumi puliti, presenza, nelle nostre vite, del pellicano, del falco
pescatore e della balena grigia; salmoni e trote nei fiumi; linguaggio
incontaminato e bei sogni”) rimane validissima. Anche perché al centro del
rapporto tra uomo e natura L’isola della tartaruga riporta che “la gioia di
tutti gli esseri è nell’essere più vecchi, più tenaci e consumati”. In questo è
perfetta l’appendice autobiografica ripescata dall’introduzione di The Gary
Snyder Reader dove diceva: “Ora, riesco a vedere quanto ho girovagato nel
mondo, a bordo di petroliere, su vagoni merci, bus del terzo mondo, macchine
sgangherate, a piedi e su jumbo jet, bar notturni e moschee all’alba. E’ qui
offerto, al di fuori di una vita frenetica (col senno di poi), ma
deliberatamente scelta, un mix di idee, immagini, archetipi e proposte. Il
tutto con autentico spirito di ricerca, di fare arte, di esplorare la
conoscenza, di corteggiare la saggezza”. Poi l’equilibrio è un’invenzione
umana, e come tale, è sempre piuttosto precario perché, bisognerebbe
ricordarselo più spesso, alla fine “il mondo fa come gli pare".
domenica 17 febbraio 2013
Henry Miller
Tornato in America dopo gli anni caotici, creativi e libertini di Parigi, Henry Miller rifiuta l’Incubo ad aria condizionata, l’omologazione delle idee, il vuoto pneumatico delle emozioni in nome dell’emergenza. L’apocalisse incombente della seconda guerra mondiale non gli impedisce di vedere con estrema lucidità quello che lascerà filtrare il futuro. Nella prima parte di Ricordati di ricordare, ovvero la lettera aperta al soldato semplice Fred Perlès scritta nel 1941 poi intitolata Assassinate l’assassino, Henry Miller assume una posizione radicale, non allineata e indipendente contro la retorica che ha condotto l’Europa nel baratro della guerra e che, nello stesso modo, vi sta trascinando anche gli Stati Uniti. La sua allergia agli schemi e agli ordini imposti dal conflitto è evidente fin dalle prime battute della sua corrispondenza: “In nome della libertà ognuno viene obbligato a tenersi pronto alla linea di partenza; l’assunto è che quando avremo vinto la guerra (stiamo solo oscuramente cominciando a renderci conto che ci siamo già dentro) riavremo la nostra libertà, una libertà, sia detto tra parentesi, che non abbiamo mai posseduto sul serio”. I suoi strali attraversano la coltre dei luoghi comuni, a partire da quell’ineluttabilità con cui viene spacciata la guerra, perché anche di fronte al tragico precipitare degli gli eventi secondo Henry Miller “ci sono mille modi di accettare l’inevitabile”. Il primo è ricordare di ricordarsi dove e come comincia la vocazione guerriera: “E’ la minoranza che favorisce la guerra, e questa minoranza rappresenta sempre gli interessi costituiti. Nessun governo ha mai il coraggio o l’onestà di rimettere al popolo la questione della guerra. Né sussiste mai la più remota possibilità di creare una situazione per cui coloro che sono in favore dalla guerra vadano alla guerra e coloro che non lo sono restino passivi. L’unanimità di una nazione, in tempo di guerra, si ottiene attraverso la coercizione pura e semplice”. Il tono polemico e risoluto di Assassinate l’assassino è capace anche di farsi sarcastico e nella sua durezza Henry Miller è ancora attualissimo quando scrive: “Ci prepariamo alla guerra e contemporaneamente cerchiamo, come al solito, di fare buoni affari e con entusiasmo”. La seconda parte di Ricordati di ricordare, del tutto complementare ad Assassinate l’assassino, viaggia sulla distanza tra Parigi e New York ed è ricca di una nostalgia per quella terra francese intrisa di arte e bellezza che ormai è un lontano ricordo. Henry Miller ne riconosce la forza perché, come scrive nell’incipit di Ricordati di ricordare “ci attacchiamo ai ricordi allo scopo di conservare un’identità che, se soltanto sapessimo coglierla, non potrebbe andare mai perduta. Quando scopriamo questa verità, che è un atto di memoria dimentichiamo qualsiasi altra cosa”. Lo scrive aggrappato a fugaci memorie di umanità in Europa e nel Mediterraneo, mentre attorno a lui l’America ormai si emoziona soltanto per la luna, un satellite freddo e disabitato. Ecco, la differenza.
mercoledì 13 febbraio 2013
Mark Bowden
E’
il 4 novembre 1979 a Teheran quando gli studenti dell’università assaltano
l’ambasciata americana. Sono i giorni della rivoluzione degli ayatollah e la
città è scossa fin nelle sue fondamenta. Nulla sarà più come prima, né in Iran,
né nel resto del mondo ed è proprio nell’epicentro di quello storico terremoto
che un atto di guerra, senza spargimento di sangue, imprevisto e incontrollato,
diventa un caso di risonanza mondiale. Per qualche strana e curiosa ragione,
fin da Black Hawk Down, Mark
Bowden è un reporter specializzato nel raccontare piccoli e grandi fallimenti
americani ed pareva destino che rileggesse quei momenti. Il suo approccio nel
ricostruire circostanze, movimenti, protagonisti è figlio di un’ossessione per
i particolari, coltivata con lo scrupolo di controllare e verificare fonti e
notizie. Non a caso scrive, nell’epilogo di Teheran 1979: “Il metodo standard dei giornalisti che scrivono
su una nazione straniera è acquisire notizie per avere una visione generale e
arrivare a conclusioni probanti. Io posso fornire soltanto queste osservazioni,
esperienze e conversazioni, ossia pezzi presi a caso da un puzzle che non si
può risolvere”. L’ammissione ha una sua dignità e va detto che almeno Mark
Bowden è tornato a Teheran, trent’anni dopo, per capire cosa è rimasto:
l’edificio dell’ambasciata è ormai un guscio vuoto e anche il clamoroso gesto
degli studenti è visto in un’ottica tutta diversa, e non priva di ombre.
Circola persino l’opinione che la CIA non fosse del tutto estranea all’assalto.
Un’ipotesi tra le tante vagliate da Mark Bowden, che è sempre meticoloso nel
disporre in ordine tutti gli elementi di una storia, o almeno di cercare di
dargli una forma comprensibile. Questo accade per tutto lo sviluppo di Teheran
1979, compreso il bis del fallimento,
ovvero il disastro dell’operazione delle forze speciali americane nel deserto
iraniano. Anche in questo caso, come per l’occupazione dell’ambasciata, Mark
Bowden tiene sempre molto alta la guardia sui dettagli, che padroneggia con
sicurezza, anche quando si tratta di dati tecnici o tattici molto sensibili e
complessi. La sua abilità è di sapere come renderli comprensibili e nello
stesso tempo come farli parte della storia. La narrazione, anche se rigorosa
dal punto di vista dell’indagine e nella sua percezione storica, richiama
sempre una dimensione epica, cercando di usare l’enfasi per mettere in una luce
diversa la prigionia degli ostaggi, trasformandola in una resistenza.
L’occasione di plasmare il ricordo di una bruciante sconfitta in qualcosa più
appetibile è una tentazione troppo forte e anche se Mark Bowden è un principe
dell’equilibrio e della misura, si sente la spinta a mutare un fallimento lungo
più di un anno dentro le forme di un’altra prospettiva. Detto questo Teheran
1979 è assemblato in modo
impeccabile e lo stile di Mark Bowden ha il pregio di convogliare
testimonianze, analisi, valutazioni, opinioni, descrizioni in una scrittura che
si avvicina al lettore con discrezione, per poi non mollarlo più Molto abile,
molto acuto.
domenica 10 febbraio 2013
Dale Maharidge
Nell’estate
del 1986 Dale Maharidge e il fotografo Michael Williamson ripercorrono il
viaggio di James Agee e Walker Evans di cinquant’anni prima da cui nacque Sia
lode ora a uomini di gloria. Anche
se è passato mezzo secolo e nell’Alabama le trasformazioni sono andate al
rallentatore perché “molti vivono in una specie di limbo, né borghesi né
poveri, e si trascinano dietro il grande peso del passato”, anche se c’è già un
tracciato molto marcato che Dale Maharidge e Michael Williamson devono seguire,
E i loro figli dopo di loro non
è per niente accomodante o scontato, anzi. Intanto, le condizioni economiche e
sociali non sembrano aver subito trasformazioni tangibili. Quel “passato
latente” fatto di disperazione e miseria, di fatiche immani per conservare un lavoro
appena appena dignitoso, è una ferita che non vuole rimarginarsi. Se è cambiato
qualcosa, è difficile da notare confrontando le immagini di Michael Williamson
con quelle di Walker Evans. Come le fotografie in bianco e nero, Dale Maharidge
è rigoroso e preciso nel fare un quadro generale degli alberi genealogici
potati e scorticati dalle crisi e dalle depressioni: “Molti membri di quelle
famiglie non erano pronti per affrontare le sfide del mondo che li aspettava
dopo il crollo del sistema del cotone. Non era mai stato insegnato loro il
sistema di convinzioni del ceto medio urbano, basato sulla speranza e
sull’aspettativa di un continuo miglioramento. La transizione sarebbe stata
difficile. La scelta che veniva loro offerta, andare avanti oppure tornare
indietro, sembrava irragionevolmente dura. Alcuni insistettero per barricarsi
nel passato, continuando a vivere defilati ed evitando il mondo moderno”.
L’attenzione che Dale Maharidge dedica alle singole esperienze si scontra con
il lascito di James Agee che, trascinato dall’entusiasmo e dalle migliori
intenzioni, arrivò in Alabama con pochissime indicazioni utili e una qualità
delle fonti molto prossima allo zero. Dopo un mese inconcludente, il rischio che l’idea stesse avviandosi
al fallimento era qualcosa in più di una vistosa probabilità. Poi James Agee e
Walker Evans incontrarono i Gudger, i Rickett e i Woods e la storia di Sia
lode ora a uomini di gloria
cominciò a vivere di vita propria. Tornando laggiù, Dale Maharidge riscopre
anche ombre e contraddizioni di quel lavoro, i legami irrisolti di James Agee
(che è rimasto un ospite, se non proprio uno straniero) e il profilo tagliente
di tempi che appaiono immobili nella loro durezza. E i loro figli dopo di
loro non cerca di ricomporre un
quadro ormai spezzato e nemmeno di ricongiungere linee scomparse nella polvere.
Come spiega Dale Maharidge, E i loro figli dopo di loro “parla di un gruppo di uomini e di donne che,
molto tempo fa, ci hanno raccontato sull’America qualcosa che noi, in quanto
società, non abbiamo voluto affrontare; e oggi hanno qualcos’altro da dirci che
ci riguarda molto da vicino”. La sua attualità, così come quella di Sia lode
ora a uomini di gloria, è tutta
lì, in quell’errore che si ripete all’infinito.
lunedì 4 febbraio 2013
Jack Cady
Inagehi (che nella lingua parlata dai cherokee si
pronuncia in na ghe hii) significa una persona che vive da sola in un luogo
selvaggio. E’ la scelta di Harriette Chiamata dal Tuono, Amica dell’Albero che
“benché non ci pensasse, aveva trent’anni ed era tormentata da più misteri di
quanti ne poteva incontrare un detective in tutta la sua vita”. La giovane
cherokee sente, come un imperativo del destino, di dover scoprire, capire e far
propria la morte del padre, avvenuta per mano assassina in un passato ancora
prossimo. Il misterioso delitto è l’unica nota noir di questo splendido romanzo
di Jack Cady, volto da capitano Achab, un passato di camionista e boscaiolo e
una dozzina tra romanzi e raccolte di racconti, prima della sua scomparsa, nel
2004. E’ anche la scintilla che accende di un fuoco vivo, intenso Inagehi dove protagonisti assoluti sono la natura
selvaggia, le montagne, gli alberi, il passare delle stagioni, le variazioni
atmosferiche. Tutti considerati alla stregua di personaggi, persino di testimoni
e non in un'ottica misticheggiante come spesso vengono proposte le visioni
native. Jack Cady è abbastanza scafato e preparato quanto basta per non
lasciarsi trarre in inganno da false suggestioni e presenta il mondo di Inagehi, dei nativi con tutte le sue ombre. A prova di
smentita scrive: “La terra a occidente, la terra delle ombre, la terra della
morte. Quando moriva un cherokee, si diceva che era andato nella terra delle
ombre. Gli indiani d’America non erano stati capaci di affrontare la morte, non
più del sesso. Il sesso era circondato da tabù e battute sconce, la morte era
accompagnata dal terrore. Si sapeva che certi indiani abbandonavano i propri
morti, piangendo allo stesso tempo in preda a un dolore inconsolabile. I
cherokee non erano così pittoreschi; a volte, era vero, tenevano cerimonie di
sepoltura elaborate, ma in genere non parlavano facilmente della morte”. E’ per
questo che il prezzo che paga Harriette Chiamata dal Tuono, Amica dell’Albero
si diffonde, frase dopo frase, in Inagehi come le radici degli alberi nella montagna che custodisce i segreti
della morte del padre e della sua stessa vita. Inagehi è un libro prezioso non solo riporta perché al
centro dell’attenzione il rapporto con la natura e la wilderness nello
specifico, dove “vivendo in una radura nella foresta, dormendo un sonno dopo
l’altro, si scoprono cose comprensibili e cose incomprensibili; tutte profonde
come il sole”. E’ soprattutto un’ecologia dell’anima quella che insegue
Harriette Chiamata dal Tuono, Amica dell’Albero: non vuole né vendetta né giustizia, particolari troppo umani
e fragili in confronto al rispetto che trova nel silenzio della natura. Così,
dato che, scrive Jack Cady, “come tutte le tragedie, anche questa ha bisogno di
un coro” c’è solo l’imbarazzo della scelta: potete metterci i dischi di John
Trudell, Robbie Robertson, Jerry Alfred o Bill Miller. Non saranno della stessa
tribù di Harriette Chiamata dal Tuono, Amica dell’Albero, ma come colonna
sonora di Inagehi andranno
benissimo.
sabato 2 febbraio 2013
Neil Young
Uno
degli aspetti più curiosi e interessanti della vita di Neil Young è che trova
un nome per tutto. Non c’è automobile, caravan, chitarra, garage o abitazione a
cui non abbia dato un appellativo neanche fossero esseri umani. Si capisce che
è un uomo dalle mille passioni, tutte vissute in modo viscerale ed emotivo, con
un’idea tutta sua della disciplina (ammesso che con Neil Young possa essere
usato questo termine) o del lavoro. La sua storia, più che la sua
autobiografia, è un’altalenante e irriverente carrellata di colpi di testa e
sbalzi di umore dedicati di volta in volta alle chitarre, al modellismo
ferroviario, alle automobili, al confronto con le rivoluzioni digitali, alle
sue rock’n’roll band. La congiunzione di questi punti sparsi in modo bizzarro danno
forma e fanno emergere il paradosso della sua coerenza e in fondo quello che Il
sogno di un hippie nella sua
essenza. Fedele alla sua natura di “cavallo pazzo”, Neil Young scrive con lo stesso istinto delle convulsioni
chitarristiche e, come si può immaginare con una certa facilità, la cavalcata è
accidentata e piena di imprevisti perché rimane un incallito e indomito
sognatore. Ingenuità ed eccentricità convivono da anni e contribuiscono a
delineare una personalità unica, e non lo scopriamo certo oggi. Quello che si
trova, anche soltanto sfogliando Il sogno di un hippie, è una collezione disordinata di anni in cui è
stato accumulato un po’ di tutto. Come dal rigattiere dove Neil Young e il suo
fedele art director comprarono il posteriore della Cadillac del 1959 poi
insabbiato nella copertina di On The Beach (la sua preferita) Il sogno di un hippie raduna e mette a disposizione la ricetta degli
spaghetti del papà (auguri), le contorsioni di un musicista che, dai Buffalo
Springfield a Daniel Lanois non si è fatto mancare niente, i ritratti (sempre
affettuosi) di compagne e compagni di viaggio, gli infiniti fotogrammi della
vita on the road, gli aneddoti e le polemiche. Memorabili, in questo senso, le
cinque pagine dedicate alla diatriba con la Geffen Records, parentesi
discografica in cui i soliti, solerti ed efficienti manager pretendevano di
sapere e di decidere chi o cosa fosse Neil Young. Lui rispose a modo suo,
incidendo e pubblicando album del tutto estemporanei, mutando pelle e costumi
senza preavviso. La battaglia, alimentata da “ego e incubi hollywoodiani”, andò
avanti per un bel po’ perché “loro volevano che avessi successo commerciale e
io volevo essere un artista che esprimeva se stesso: non sempre queste due
ambizioni sono compatibili”. La strategia di Neil Young, all’epoca
incomprensibile ai più, svela invece tutta la sua trama se ci si misura con Il
sogno di un hippie. E’ un segmento
elementare, una sequenza in cui diventa intelligibile il suo DNA: Neil Young ha
fatto del mimetismo un’arte sublime perché nascondendosi di volta in volta
dietro una maschera diversa è diventato ed è rimasto se stesso, che è poi Il
sogno di un hippie diventato
realtà (più o meno, perché con Neil Young non si è mai sicuri di niente).