"La tecnica del gatto oltre il muro”, un
dettaglio del racconto da cui prende il titolo questa brillante raccolta,
potrebbe essere benissimo la metafora del metodo che anima le prime e inedite
short stories di Kurt Vonnegut. E’ l’imprevedibile e l’imponderabile, proprio
quello che succede al felino sparato in aria (e a chi sta nella zona di
atterraggio dall’altra parte), che determina i temi, le trame, i terremoti
nelle vite dei personaggi di Guarda l’uccellino. In funzione di quella
singolare variazione che spesso è un rebus e insieme la sua soluzione, Kurt
Vonnegut mischia soluzioni, idee e stili, senza soluzione di continuità. E’ la
forza della storia in sé che deve sostenersi da sola e questa è l’unica
caratteristica comune a tutti i quattordici racconti di Guarda l’uccellino. Alcuni sono diamanti
grezzi come Gridalo dai tetti o Il re e la regina dell’universo: partono da presupposti
ingombranti che poi vengono tranciati da finali sorprendenti. In effetti
potrebbero già contenere interi romanzi, e viene il dubbio che sia quella la
loro origine. Altri sono perfetti, sia che giochino con il fantastico (come Il
tagliacarte,
un frammento che raduna tutto quello che può servire a confezionare un breve
racconto) sia che rimangano incollati alla realtà come Parola d’onore o il toccante Ciao Red. Gli estremi sono il
primo e l’ultimo dei racconti di Guarda l’uccellino. Confido ruota attorno a “una
scoperta più grande della televisione e della psicoanalisi messe insieme, che
di soldi ne fanno a palate” ed è è geniale, se non proprio profetico, nel
raccontare le deformazioni della vita dalla seconda metà del ventesimo secolo
in poi, con un piccolo artificio dell’immaginazione. Una buona spiegazione svela invece cosa
succede nei giardini segreti di un matrimonio, quando le parole che non sono
state pronunciate pesano più di quelle dette. Confido e Una buona
spiegazione
racchiudono una popolazione di personaggi legati a vite anonime che vengono
travolte da un mistero o da un segreto o dall’improvvisa apparizione di un’incognita.
E’ quello che succede anche all’impiegato orwelliano di Fubar (termine che significa
“a tal punto incasinato da essere irriconoscibile”). Relegato in un ufficio che
più marginale non si può, condizionato dall’assistenza alla madre anziana e
malata, il travet si sente “un padrone di casa alla festa più lunga e noiosa
che si possa immaginare” fino a quando non gli presenta la nuova segretaria,
una ragazza avvolta in “una scintillante costellazione di bigiotteria”. Tra i
due scatta qualcosa che rimane sospeso in “quella sensazione complessiva di
essere bloccati dalla nebbia che viene spesso scambiata per amore”, condizione
che è piuttosto diffusa tra i personaggi di Kurt Vonnegut. Resta da dire
proprio di Guarda l’uccellino un racconto di quattro-pagine-quattro che
sublima i contorni noir di molte di queste storie. E’ un Vonnegut d’annata:
pungente, incalzante più che mai, al lettore chiede pochissimo e lo lascia in
compagnia di una selva di punti di domanda, che poi è quello che dovrebbe fare
la letteratura.
lunedì 29 ottobre 2012
sabato 27 ottobre 2012
Lawrence Ferlinghetti
Forse per i trascorsi legati all’attività di
editore, o per la sua multiforme percezione dell’esperienza artistica, la
poesia di Lawrence Ferlinghetti è sempre scivolata a un millimetro di distanza
da quella di Allen Ginsberg, Gregory Corso o Jack Kerouac. L’occasione è sempre
propizia per ripristinare la giusta dimensione, allineando Lawrence
Ferlinghetti ai suoi amici e compagni d’avventura. Intanto, va ricordata una
comune e condivisa attitudine alla poesia che proprio nell’epigrafe iniziale di
A Coney Island of The Mind, Ferlinghetti riassume così: “Come poeta, a
volte mi immagino ancora nei panni di un reporter onnisciente venuto dallo
spazio, che invia i suoi dispacci a un caporedattore supremo convinto della
necessità di rappresentare senza censure le tragicomiche pagliacciate di quelle
creature bipedi note col nome di esseri umani”. La poesia di Ferlinghetti, che
in A Coney Island of The Mind raggiunge una delle sue migliori espressioni, ha
i tratti della pennellata precisa, senza esitazioni, convinta e istintiva ed è
quella la sua bellezza estrema: parole schizzate a getto continuo e ispirate
dalla gamma di colori, di immagini e di forme di Chagall, Bosch, Goya, Picasso
e Brancusi. Vivide, intense, colorite, imprevedibili, naturali e spontanee,
improvvisata seguendo coordinate jazzistiche, le liriche di Ferlinghetti si
trasformano spesso in lunghe suite che hanno tutta la forma di intense odi,
come è Io aspetto,
forse lo snodo centrale A Coney Island of The Mind. Vitale nel suo essere
attaccata alla vita quotidiana, nel ribaltare uno dopo l’altro tutti i luoghi
comuni americani (“Siamo le stesse persone, ma ancora più lontane da casa, su
autostrade a cinquanta corsie, su un continente di calcestruzzo, scandito da
melliflui manifesti pubblicitari, che illustrano imbecilli illusioni di
felicità. La scena mostra meno carri di condannati a morte, ma più cittadini
scoppiati in auto dipinte, e hanno targhe strambe, e motori che divorano
l’America”) la visione A Coney Island of The Mind è quella di tutte le
altre voci della Beat Generation, “una specie di circo dell’anima” la cui
connotazione ha i lineamenti della dissociazione, della ribellione, del
dissenso e della profezia. Ferlinghetti la rende esplicita aggiungendo una nota
di particolare chiarezza agli intenti del suo personale manifesto: “Un’altra
alluvione sta per arrivare anche se non del tipo che ti aspetti. C’è ancora
tempo per colare a picco e per pensare. Voglio regredire in questa società.
Voglio essere come se fossi libero. Scendi a prendermi dolce cocchio. Non
aspettiamo che le Cadillac ci portino in trionfo nell’interno facendo cenni di
saluto agli indigeni come senatori romani nelle province portando l’alloro dei
poeti sulla fronte illuminata”. Qui la strada è rischiarata da Dante e Kafka,
René Char e Walt Whitman, Ezra Pound e Charles Dickens, Melville e Thoreau, e
poi da Yeats, Keats e infine da Henry Miller che ha ispirato il titolo,
ulteriore conferma che dietro una grande scrittore c’è sempre un insaziabile
lettore.
martedì 23 ottobre 2012
Trevianan
Nicolaj Hel, sopravvissuto alla seconda guerra
mondiale, ai servizi segreti americani, sovietici e cinesi coltiva l’idea dello
shibumi in un castello basco, dedicandosi al suo giardino musicale, alla
concubina, alla speleologia e ai picareschi amici che lo circondano. “Shibumi allude a una grande
raffinatezza sotto apparenze comuni. E’ un’affermazione che non ha bisogno di
essere ardita, così acuta che non dev’essere bella, così vera che non
dev’essere reale. Shibumi è comprensione più che conoscenza. Silenzio
eloquente”: questa è la definizione dello stato di grazia, per semplificare e
abbreviare, che va cercando Nicolaj Hel. Dal suo punto di vista, ne ha avuto
abbastanza e ha deciso di ritirarsi e si è convinto che “una volta isolato dal
futuro, il passato diventa una parata insignificante di banali avvertimenti,
non più organici, non più possenti o dolorosi”. Il suo karma e il suo codice
d’onore invece gli dicono qualcosa di diverso, e che non gli piace, attraverso
l’arrivo di Hannah Stern, sopravvissuta a un massacro all’aeroporto di Roma,
peraltro sventagliato fin dall’incipit. Nicolaj Hel è la prima volta che vede
la ragazza: impreparata, volitiva, più incosciente che coraggiosa, e ormai
disperata. Conosce da anni lo zio, Asa Stern, con cui ha condiviso alleati e
nemici e a cui è legato da un antico debito, quanto basta per accantonare senza
particolari esitazioni la sua vocazione allo Shibumi e affrontare, insieme al
suo passato, le ingerenze di un mondo avvinghiato a interessi economici,
politici e militari di cui ormai non si non si percepisce più nemmeno il
perverso disegno perché, parole sacrosante, “abbiamo a che fare con mentalità
mercantili e militari, e la stupidità è il loro idioma intellettuale”. L’azione
è colorita, rapida, spumeggiante (anche un po’ fumettistica, che non guasta) e
anche le parti più riflessive sono accattivanti, con le proiezioni di Nicolaj
Hel e il suo continuo inseguimento verso lo Shibumi. Il tono è giocoso
senza essere superficiale, ironico quanto basta, leggero ed effervescente nella
forma e comunque denso di piccoli e grandi riferimenti, distributi a ogni
svincolo della trama rendono la
scrittura invitante, avvolgente e convincente. Trevianan alias Rodney William
Whitaker non cerca particolari forme o evoluzioni stilistiche: ha il gusto per
il dettaglio insolito, un’ironia strisciante, anche una spiccata vena polemica
perché la trama è costruita per intrecci e sovrapposizioni, un concatenarsi di
eventi personali e storici, su cui non manca mai una nota dissonante. Nel resto
è accomodante e cordiale con il lettore come Nicolaj Hel con i suoi ospiti per
poi riservare colpi di scene e sorprese a ripetizione. Shibumi è una spanna sopra
l’intrattenimento, una spy story di gran classe, che si legge senza particolari
sforzi e con soddisfazione tanto che, una volta chiusa l’ultima pagina, si
sente la mancanza di Nicolaj Hel, della sua dieta (da cui sono esclusi gli
ospiti), della sua filosofia, e anche delle sue contraddizioni (perché è molto
umano, nel suo essere fin troppo speciale).
lunedì 22 ottobre 2012
Ray Bradbury
Questa raccolta di Saggi su passato, futuro e
tutto ciò che sta nel mezzo, pur nella sua caotica essenza, costruita articolo dopo
articolo, rubrica dopo rubrica, “procedendo alla cieca, correndo a perdifiato,
buttando giù i pensieri così come arrivano”, e sono parole dello stesso Ray
Bradbury, apre uno squarcio vitale sul mondo di uno scrittore e di un lettore
unico. Anche se molte selezioni, trapiantate dal contesto originario, dove
avevano un senso più specifico e (anche) un’altra vita, appaiono piuttosto
distanti o estranee alle coordinate di Troppo lontani dalle stelle, Ray Bradbury è sempre
entusiasta ed è questa la componente più rilevante: può essere un incontro
(memorabili quelli con Walt Disney o Bertrand Russell e la moglie), uno spunto
polemico (e ce ne sono parecchi) o un ricordo e qualche che sia il taglio
dell’articolo, del saggio, della rubrica, la sua verve è sempre trascinante,
spinta dalla passione, dal gusto, dalla curiosità. I temi sono tra i più
disparati: dal trasporto con cui racconta l’essenza americana delle ferrovie in
Ogni amante dei treni è mio amico alle descrizioni di Parigi e Los Angelese,
“città di quarzo” che Ray Bradbury riassume, per François Truffaut in “quasi
ottocento chilometri quadrati di illuminazione metropolitana, un’enorme
distesa, un panorama oceanico di energia elettrica”, la prosa è sempre
immaginifica, accattivante, immediata. E’ anche molto pungente quando dice che
“noi siamo il prodotto finale di fallimenti su fallimenti sfociati in un
prodotto finale che è la sopravvivenza dell’uomo” ed essendo Troppo lontani
dalle stelle, ormai
incapaci di inventare altri viaggi o nuove direzioni, “noi riempiamo il vuoto
con la nostra attenzione. Noi vediamo, ascoltiamo, tocchiamo, sappiamo”. Sarà
per quello che Ray Bradbury riscrive i finali dei film (il legame con il cinema
è uno dei canali sotterranei che imperversa e annoda le singole parti di Troppo
lontani dalle stelle)
e combatte con una divorante attrazione per la letteratura: “Kipling, Dickens,
Wilde, Shaw, Poe” sono i punti di riferimento e poi Moby Dick (forse più di tutti
perché sembra coltivare una venerazione per Melville) e infine Jules Verne con
la sua percezione del futuro. Ed è qui che l’americano Ray Bradbury sa essere
ancora più eloquente che altrove. L’America, è inutile nasconderlo o cercare di
negarlo, è sempre stata l’interprete principale del futuro, il modello
proiettato in avanti, il profilo sfuggente e veloce, più veloce di tutti gli
altri. Ray Bradbury sembra intuire, capire, conoscere la dimensione fallimentare
di quel’avvenire, i retroscena e le parti in ombra, le imperfezioni maledette,
le ferite profonde dentro i sogni di gloria. Una visione nitida, chiarissima e
tagliente una vera e propria perla scintillante racchiusa nel guscio
frastagliato di Troppo lontani dalle stelle. L’opulenza della
disperazione: l’America attraverso lo specchio è un capolavoro, un
cahier de doléances lucido, duro, preciso e incazzato. Per quello che dice, per
come lo dice.
mercoledì 17 ottobre 2012
Jon Krakauer
Come
ricordava Henry David Thoreau, “siamo dei crociati miserabili” e deve essere
stata anche la prima, intima considerazione che ha fatto Alexander Supertramp
alias Christopher McCandless alias e fa capire anche perché ha scritto i suoi
diari in terza persona come se, non solo si sentisse un estraneo davanti alla
wilderness, ma fosse straniero anche a se stesso e ai ponti e ai legami che si
è tranciato alle spalle. La sua storia (vera), raccolta non senza fatica da Jon
Krakauer, è diventata Nelle terre estreme e a sua volta il libro si è trasformato in Into The Wild, il film di Sean Penn che, incuriosito dall’immagine e
dagli strilli in copertina, l’ha preso e l’ha letto e riletto in una notte. La
“disobbedienza civile” di Christopher McCandless in apparenza radicale e
rivoluzionaria è frutto di una lunga e consolidata tradizione americana: le
direzioni della partenza, verso ovest, verso nord dovrebbero essere indizi
sufficienti per far collimare un’antica vocazione alla frontiera con altri
orizzonti intravisti tra le righe dei libri di Jack London prima e Jack Kerouac
poi. Proprio come un’ultima, incosciente scintilla di quell’esuberanza, e ormai
diventato Alexander Supertramp, non si accontenta di un viaggio, dei suoi
imprevisti, degli incontri, delle sorprese e di un ipotetico ritorno a casa. “Un
uomo è beat ogni volta che rischia il tutto per tutto” diceva John Clellon
Holmes e la svolta matura proprio “on the road”, rinunciando al denaro,
all’automobile, al lavoro, in fondo persino alla propria identità, per
diventare parte di un’utopia più grande, dove la libertà, o soltanto una
speranza di sfiorarla, è legata in modo indissolubile alla vita (e alla morte) Nelle
terre estreme. Anche nella forma
rivista e corretta da Jon Krakauer, i grezzi diari di Alexander Supertramp sono
la cronaca di chi si crea un destino, piuttosto che subirlo, e costi quel che
costi. Quando ripete nei suoi ultimi messaggi la volontà di “entrare nella
natura” è qualcosa in più e di diverso di un ritorno a casa, e va ricordato
Simon Schama quando scriveva che “la wilderness, dopo tutto, non colloca se
stessa in nessun luogo, non si assegna nessun nome”. Non c’è niente di esotico
o di esoterico nel complesso viaggio di Nelle terre estreme e la conclusione, più che il finale, è quella giusta
perché rimette ordine e ripristina un senso: mostra con lucidità che, non solo
siamo parte della natura, ma che ne siamo anche la parte malata o, come diceva
William Burroughs, siamo il virus che distruggerà ogni forma di vita sulla
terra. Aggiungendoci la deformazione di chi ha il coraggio di sostenere che il
clima è peggiorato, i ghiacciai si stanno sciogliendo, il mondo sta andando a
puttane, come se fosse colpa delle montagne o dei fiumi o degli alberi. Quando
poi, tutto quello che riesce a pensare il genere umano è di cambiare la
macchina vecchia con quella nuova, anche se, come fa notare Christopher
McCandless in un significativo passaggio all’inizio del suo viaggio, funziona ancora
benissimo.
mercoledì 10 ottobre 2012
Philip Roth
Le Chiacchiere di bottega di Philip Roth con i suoi illustri colleghi e
colleghe (Bernard Malamud, Isaac Bashevis Singer, Edna O’Brien, Primo Levi,
Milan Kundera, Ivan Klíma, Mary McCarthy, Aharon Appelfeld, Saul Bellow) hanno
una natura camaleontica e si mimetizzano in forme diverse in funzione della
natura dell’incontro e dei legami che lo generano. Può essere un semplice
scambio epistolare, come la corrispondenza con Mary McCarthy, dove i voli
pindarici dei due scrittori si attorcigliano intorno ai dettagli della
circoncisione, in una discussione esclusiva e un po’ cerebrale. Il più delle
volte le Chiacchiere di bottega
nascono da un’idea di intervista che di volta in volta assume profili unici e
particolari. L’incontro con Primo Levi, nei meandri di una fabbrica torinese,
si evolve in un colloquio analitico. Philip Roth, non c’è nemmeno bisogno di
dirlo, è un interlocutore puntuale, scrupoloso e meticoloso, tanto è vero che a
precisa domanda, Primo Levi introduce la sua risposta così: “Più che una domanda,
è una diagnosi”. Altrove il confronto è più immediato e spontaneo: negli
incontri con Ivan Klíma (“A volte dubito che sia ragionevole rimanere in questa
miseria per il resto della nostra vita”) e Milan Kundera (“Un romanzo non
afferma niente; un romanzo cerca e pone delle domande”) emergono affinità e
divergenze e anche una sottile differenza dovuta alle opposte condizioni in cui
gli scrittori si sono trovati a proporre e difendere il proprio lavoro. Dalla
clandestinità all’esilio, Milan Kundera dice: “Io invento storie, le metto a
confronto l’una con l’altra e in questo modo pongo delle domande. La stupidità
della gente deriva dall’avere una risposta per tutto. La saggezza del romanzo
deriva dall’avere una domanda per tutto”. Dall’altra parte Philip Roth sembra
rispondergli con una reazione istintiva: “Credo però che anche in una cultura
come la mia, in cui nulla viene censurato ma dove i mass media ci inondano di
vacue falsificazioni delle questioni umane, la letteratura sia un salvagente,
anche se la società non sembra rendersene molto conto”. Con l’ombra incombente
di Kafka, il più citato e un punto di riferimento per tutti, le Chiacchiere
di bottega si sviluppano nell’intenso
ritratto di Bernard Malamud, nella conversazione di New York con Isaac Bashevis
Singer a proposito di Bruno Schulz, nel confronto con Edna O’Brien e con Aharon
Appelfeld che ha il pregio di sintetizzare un valore comune a tutti, Philip
Roth compreso: “Descrivere le cose come sono accadute significa rendersi
schiavi della memoria, che nel processo creativo è solo un elemento di
secondaria importanza. Per me creare significa ordinare, scegliere e smistare
le parole, e trovare il ritmo adatto all’opera”. Le uniche eccezioni sono il
ritratto di Guston, pittore che dedicò alcune tavole a Il seno di Philip Roth e
la parte conclusiva delle Chiacchiere di bottega
dedicata a Saul Bellow che, più di una rilettura, sembra essere un
omaggio, quasi un inchino all’uscita di scena di un grande maestro.
lunedì 8 ottobre 2012
Gay Talese
Quando Gay Talese pubblicò (per quattro milioni di
dollari di anticipo, e complimenti) La donna d’altri, frutto della sua “inchiesta sulla crescente tendenza
americana all’infedeltà e alla sperimentazione sessuale” aveva ben chiaro che
aveva toccato i nervi scoperti (e costituzionali). Si parla di pornografia,
soft e/o hard, fino a un certo punto e diventa una questione pubblica che
riguarda chiunque, chi si masturba e chi non legge Playboy perché si arriva alla ricerca della felicità e alla
libertà di espressione. Nel 1980, anno della prima edizione, non era così
evidente e La donna d’altri si
attirò la solita valanga di polemiche sterili. Un anonimo recensore, Robert
Coles lo comprese meglio di chiunque e la sua sintesi è perfetta per
introdurlo: “Talese è seriamente interessato a osservare il suo prossimo, ad
ascoltarlo e a riferire in modo sincero ciò che ha visto e sentito. La sua
prosa è nitida e misurata. L’autore ha il dono, con una parola qua, una frase
là, di evidenziare importanti nessi letterari e storici. Il libro, in effetti,
consiste di una serie di storie ben narrate che, prese nel loro complesso,
trasmettono un chiaro messaggio sociale: la metamorfosi radicale verificatasi
nella sessualità americana durante gli ultimi due decenni”. Gay Talese riesce a
superare la cortina della superficie patinata e anche l’apparenza degli
scandali e della baruffe. E’ un cronista che affonda nella storia: il sesso e
la pornografia diventano relativi più ci si addentra nella sua ricostruzione.
Se, almeno all’inizio, il dilemma riguarda la soddisfazione onanistica e il
mercato che si è sviluppato attorno, poi diventa argomento di diritto, una
rivoluzione che incrocerà l’industria di Playboy con gli ancheggiamenti di Elvis, la logorrea di Lenny Bruce e i libri di
Henry Miller, le comunità nudiste e i centri massaggi. L’ipotesi è molto
precisa: il sesso, l’ossessione per il sesso, e la pornografia non sono stati
grimaldelli per vanificare gli sforzi di creare una civiltà. Sono state le
occasioni per vericare il comportamento di quella civiltà in funzione della sua
evoluzione e delle leggi ovvero dei valori che si era data. E’ sufficiente
ricordare che anche Walt Whitman, a suo tempo venne considerato uno scrittore
“indecente”, o far notare come Hugh Hefner incarna alla perfezione l’ideale all
american del self made man. Il responso è contraddittorio perché gli scontri (e
i caduti, e va ricordato almeno Wilhem Reich) sono stati tanti, così come,
d’altra parte, le conquiste: La donna d’altri finisce in un’aula di tribunale, davanti alla corte
suprema, che poi è solo l’ultima tappa di una lunga teoria di dibattimenti
processuali, Sono più le sconfitte ricevute dagli appelli al primo emendamento
della costituzione americana, delle vittorie, eppure una sentenza dopo l’altra viene
certificata, anche nella sua negazione istituzionale, l’esigenza e l’esistenza
di un modo diverso di vivere la sessualità. La donna d’altri è aggiornato nelle biografie dei principali
personaggi e nella nota dell’autore in al 2009, anche se Gay Talese sfiora
appena il marasma incontrollabile della pornografia in rete, ma è nel suo
stile: altro mondo, altro tempo.
giovedì 4 ottobre 2012
Charles Bukowski
Scrivo
poesie solo per portarmi a letto le ragazze è una ricca antologia di racconti e frammenti inediti, di
“taccuini di un vecchio sporcaccione” e primi tentativi di dare forma alle
“storie di ordinaria follia”, di prefazioni e recensioni e invettive che
portano la firma del Bukowski più volitivo, rissoso, irascibile, tenero,
comico, irriverente e sboccato, tutto insieme. Un maestro della vita giorno per
giorno: non c’è scadenza o appuntamento che regga, una volta procrastinato
all’infinito l’incubo della sveglia mattutina. Il suo tran tran è dedicato a
quelle piccole e irrinunciabili esigenze che lo distinguono dal resto
dell’umanità e nello stesso tempo lo rendono così umano: bere, amare (“Se togli
l’amore, la metà del lavoro di un artista fallisce”) e scrivere a cui dedica
qualcosa di molto simile a una preghiera: “L’atto di scrivere la parola è un
atto miracoloso, la grazia salvatrice, la fortuna, la musica, quello che fa
andare avanti. Mette in ordine tutto, chiarisce le stronzate, salva il culo a
te e a molti altri. Se per caso arriva la fama grazie a questo, devi ignorarla,
devi continuare a scrivere come se il tuo prossimo verso fosse il primo”. Se ha
un pregio (e ne ha parecchi) Scrivo poesie solo per portarmi a letto le
ragazze è quello di
ricordare come Bukowski abbia costruito con costruito con maniacale devozione
il suo personaggio, attenendosi con scrupolo millimetrico ai suoi lineamenti,
senza cedere alla tentazione di cambiare attitudini e abitudini e anzi
rivendicando il suo stare sul presunto lato sbagliato della vita e della strada
perché tanto “giusto non è bello. Giusto è sinonimo di noia”. Il dogma
chiarisce senza dubbi perché Bukowski non chiede mai permesso: uno apre le
pagine di Scrivo poesie solo per portarmi a letto e si ritrova proiettato nella giornata
di Chelaski, primo degli alias bukowskiani, senza poter concepire una via di
scampo, un appiglio, uno svincolo che lo porti altrove, lontano dai bassifondi
di Los Angeles e rimane invischiato nell’irrarrestabile sproloquio e travolto da
uno tsunami di birre e vino da quattro soldi e sesso (“Per me, il sesso è bello
e necessario, come il cibo, il sonno, la musica, la creazione, tutte cose che
ti aiutano a vivere bene”). Riguardo allo scrittore, la ricchezza di Scrivo
poesie solo per portarmi a letto le ragazze sembra sostenere invece l’opinione che Fernanda Pivano
andava proponendo, a dispetto dell’immagine pubblica portata a spasso dal suo
personaggio. Era convinta che Bukowski fosse un grande lavoratore, attaccato
alla macchina da scrivere non meno che alla bottiglia. Un’idea che trova qui,
tra una sbronza e una scopata, molti punti d’appoggio, soprattutto nell’etica,
tutta sua e molto blue collar,
con cui Bukowski si applicava alla scrittura: “L’uomo medio spreca otto ore per
tornarsene a casa abbattuto e soddisfatto. Per lo scrittore non c’è mai
soddisfazione; c’è sempre il prossimo lavoro che deve essere fatto”. Dietro la
scorza ruvida, c’era un poeta convinto che metà di un artista è amore, e il
resto conta sì e no.
mercoledì 3 ottobre 2012
Henry Miller
Parigi è Parigi e “New York è un acquario”, ed è
difficile districarsi tra “salamandre giganti e dipnoi e viscide cernie dai
denti sporgenti e squali con pesci pilota a prua e a poppa. Se guardi
nell’acquario vedi nuotare quei mostri rigonfi. Ogni tanto vedi una scardola, o
una perca, o un merlango. Ogni tanto vedi un pesce pagliaccio. Ma perlopiù sono
salamandre giganti e lumaconi e quelle murene viscide e verdi e scivolose che
si insinuano tra le rocce e si leccano la coda”. New York è New York, una metropoli,
uno stato, l’America e “l’America sembra nuova perché non c’è mai un elemento di
paragone. L’America in realtà non esiste! Non sono che milioni di cose
scollegate una dall’altra, o meglio collegate solo in quanto una parte di una
macchina può esser collegata a un’altra parte”. Parigi è Parigi, “un grosso
globulo che nuota nel sangue di quel grande animale che chiamano uomo” e
nell’atmosfera francese la decadenza, il deterioramento, come qualsiasi
processo chimico, è vitale: “Le cose marciscono e in questo rapido marcire
l’ego si seppellisce come un seme e rifiorisce”. Henry Miller è in mezzo
all’Atlantico quando scrive queste impressioni nel suo rapporto epistolare con
Alfred Perlès, uno degli scrittori intrappolati dalla magia della Ville
Lumière. E’ il 1935, Tropico del Cancro è un oggetto del desiderio che viaggia
clandestino (ci vorranno quasi trent’anni prima che venga pubblicato in
America) e Henry Miller è sempre più convinto che “qualcuno deve lanciare una
chiave inglese nel meccanismo”. Di possibilità nella tratta Parigi-New York
andata e ritorno
ce ne sono un’infinità: il tono è colloquiale, immediato, intenso, senza
mediazioni come se Henry Miller, invece di scrivere una lettera al suo compagno
di avventura, stesse comunicando le proprie intenzioni en plein air al mondo
intero. Un flusso inarrestabile, disordinato nell’esposizione, travolgente
nella forma, polemico nella sostanza, anche se le richieste e le aspirazioni di Henry Miller,
nonostante l’enfasi e la ricchezza del vocabolario, non siano così
straordinarie: “A un genio non si dovrebbe permettere di fare la fame. Dovrebbe
fare la fame a metà, o a tre quarti. Gli serve quel poco di nutrimento per
riempire un cestino del pane, ma quel poco gli serve sul serio”. Tutto qua, e
il proposito per qualche bella (e importante) lettura sulla linea Parigi-New
York andata e ritorno:
“Un giorno leggerò Ezra Pound. Leggerò gli Unfinished Cantos al galoppo. Poi leggerò
Gertrude Stein e Unamuno. Se ho altro tempo mi dedicherò alla Quarta Ecloga forse pure alle tre Ecloghe
che la
precedono. E ora chiedo una piccola pausa e un sonnellino. Sono le quattro,
secondo il fuso orario orientale; se dormo in fretta posso svegliarmi
esattamente alla stessa ora di Nagasaki o del Mozambico. Odio perdere tempo, il
tempo è la sola cosa preziosa che possiedo”. Glien servirà parecchio, una volta
tornato a casa, perché “l’America è un oceano. E’ tale e tanta che non riesci a
vedere né il cielo né l’acqua” e dall’altra parte non c’è nemmeno Parigi ad
aspettare.
martedì 2 ottobre 2012
Don Winslow
Il
quadro geopolitico sembra quello di ieri e di oggi visto che nell’estremo
quadrante orientale si gioca un intricato confronto tra Cina, Unione Sovietica
e Stati Uniti. Il periodo storico è ancora più convulso, dato che si tratta
degli anni successivi alla seconda guerra mondiale, con l’eco di due attacchi
nucleari ancora nell’aria: il dominio francese nell’allora Indocina è agli
sgoccioli, gli americani si apprestano al cambio di stagione e così fan tutti,
dai mafiosi corsi ai ribelli. E’ in questo brulicante caos che Don Winslow
spedisce Nikolaj Hel, personaggio pescato e rivisto da Shibumi o Il ritorno delle gru di Trevanian alias Rodney William
Whitaker. Un omaggio estrapolato da un saga ben più sinuosa (anche soltanto da
un’angolazione cronologica: Shibumi
attraversa mezzo secolo, dal 1930 al 1980) che Don Winslow interpreta con
grande classe. Nikolaj Hel, già condannato e torturato dagli agenti americani
per aver ucciso il generale Kishikawa, viene incaricato di compiere una
missione a Pechino, destinata a cambiare l’equilibrio di tutta l’area.
“Assassinio è una brutta parola, ma gli elementi fondamentali dell’accordo sono
corretti, sì” gli dice Haverford, l’uomo della CIA che gli sta davanti, e in
cambio riavrà la sua libertà. Nikolaj Hel non ha alternative: i motivi della
morte del generale Kishikawa sono incomprensibili per gli americani e Solange,
l’istruttrice che gli hanno destinato per imparare la sua nuova identità, oltre
al francese (la lingua, la cucina, lo stile), gli fa conoscere i dettagli non
trascurabili del sesso prima e dell’amore poi. Lui si ritrova nell’insegnamento
del suo maestro, Kishikawa-san: “Mai prendere il considerazione la possibilità
di riuscire, solo l’impossibilità di fallire”. Lei è convinta che “alla fine,
esistono solo cibo, vino, sesso e bambini. Sono queste le cose che interessano
a tutti. Il resto sono stupidi giochi tra maschi”. Sempre pericolosi, perché è
così che l’adrenalina e le endorfine scorrono nelle vene, se non si ha la
pazienza e la premura di accorgersi del Satori, ovvero “l’improvviso risveglio,
la comprensione della vita come realmente è. Esso non giungeva come risultato
della meditazione o del pensiero consapevole, ma poteva arrivare col sussurro
del vento, lo scoppiettio di una fiamma, il cadere di una foglia”. Don Winslow
è un abile giocatore e Satori
si destreggia tra il go e gli scacchi, il fumetto e il cinema, le arti marziali
e la spy story, la (buona) cucina e la lirica con un colpo di scena dopo
l’altro. L’attitudine è pop, senza dubbio, ed è quella giusta perché Satori riesce a tenere insieme molti linguaggi
diversi, e tutti mescolati per ottenere svolte e sorprese ben incise nel solco
della storia. La costruzione stessa dei personaggi, l’accellerazione costante
del ritmo, persino il convulso finale funzionano così e prendono il lettore
come una mossa di hoda korosu, l’arte di uccidere senza armi in cui eccelle
Nicolaj Hel. Un remake (o una cover) particolarmente riuscito, visto che Don
Winslow si appropria della storia, o meglio di una parte della storia, e ci
costruisce il suo personalissimo Satori.