Scrivo
poesie solo per portarmi a letto le ragazze è una ricca antologia di racconti e frammenti inediti, di
“taccuini di un vecchio sporcaccione” e primi tentativi di dare forma alle
“storie di ordinaria follia”, di prefazioni e recensioni e invettive che
portano la firma del Bukowski più volitivo, rissoso, irascibile, tenero,
comico, irriverente e sboccato, tutto insieme. Un maestro della vita giorno per
giorno: non c’è scadenza o appuntamento che regga, una volta procrastinato
all’infinito l’incubo della sveglia mattutina. Il suo tran tran è dedicato a
quelle piccole e irrinunciabili esigenze che lo distinguono dal resto
dell’umanità e nello stesso tempo lo rendono così umano: bere, amare (“Se togli
l’amore, la metà del lavoro di un artista fallisce”) e scrivere a cui dedica
qualcosa di molto simile a una preghiera: “L’atto di scrivere la parola è un
atto miracoloso, la grazia salvatrice, la fortuna, la musica, quello che fa
andare avanti. Mette in ordine tutto, chiarisce le stronzate, salva il culo a
te e a molti altri. Se per caso arriva la fama grazie a questo, devi ignorarla,
devi continuare a scrivere come se il tuo prossimo verso fosse il primo”. Se ha
un pregio (e ne ha parecchi) Scrivo poesie solo per portarmi a letto le
ragazze è quello di
ricordare come Bukowski abbia costruito con costruito con maniacale devozione
il suo personaggio, attenendosi con scrupolo millimetrico ai suoi lineamenti,
senza cedere alla tentazione di cambiare attitudini e abitudini e anzi
rivendicando il suo stare sul presunto lato sbagliato della vita e della strada
perché tanto “giusto non è bello. Giusto è sinonimo di noia”. Il dogma
chiarisce senza dubbi perché Bukowski non chiede mai permesso: uno apre le
pagine di Scrivo poesie solo per portarmi a letto e si ritrova proiettato nella giornata
di Chelaski, primo degli alias bukowskiani, senza poter concepire una via di
scampo, un appiglio, uno svincolo che lo porti altrove, lontano dai bassifondi
di Los Angeles e rimane invischiato nell’irrarrestabile sproloquio e travolto da
uno tsunami di birre e vino da quattro soldi e sesso (“Per me, il sesso è bello
e necessario, come il cibo, il sonno, la musica, la creazione, tutte cose che
ti aiutano a vivere bene”). Riguardo allo scrittore, la ricchezza di Scrivo
poesie solo per portarmi a letto le ragazze sembra sostenere invece l’opinione che Fernanda Pivano
andava proponendo, a dispetto dell’immagine pubblica portata a spasso dal suo
personaggio. Era convinta che Bukowski fosse un grande lavoratore, attaccato
alla macchina da scrivere non meno che alla bottiglia. Un’idea che trova qui,
tra una sbronza e una scopata, molti punti d’appoggio, soprattutto nell’etica,
tutta sua e molto blue collar,
con cui Bukowski si applicava alla scrittura: “L’uomo medio spreca otto ore per
tornarsene a casa abbattuto e soddisfatto. Per lo scrittore non c’è mai
soddisfazione; c’è sempre il prossimo lavoro che deve essere fatto”. Dietro la
scorza ruvida, c’era un poeta convinto che metà di un artista è amore, e il
resto conta sì e no.
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