Parigi è Parigi e “New York è un acquario”, ed è
difficile districarsi tra “salamandre giganti e dipnoi e viscide cernie dai
denti sporgenti e squali con pesci pilota a prua e a poppa. Se guardi
nell’acquario vedi nuotare quei mostri rigonfi. Ogni tanto vedi una scardola, o
una perca, o un merlango. Ogni tanto vedi un pesce pagliaccio. Ma perlopiù sono
salamandre giganti e lumaconi e quelle murene viscide e verdi e scivolose che
si insinuano tra le rocce e si leccano la coda”. New York è New York, una metropoli,
uno stato, l’America e “l’America sembra nuova perché non c’è mai un elemento di
paragone. L’America in realtà non esiste! Non sono che milioni di cose
scollegate una dall’altra, o meglio collegate solo in quanto una parte di una
macchina può esser collegata a un’altra parte”. Parigi è Parigi, “un grosso
globulo che nuota nel sangue di quel grande animale che chiamano uomo” e
nell’atmosfera francese la decadenza, il deterioramento, come qualsiasi
processo chimico, è vitale: “Le cose marciscono e in questo rapido marcire
l’ego si seppellisce come un seme e rifiorisce”. Henry Miller è in mezzo
all’Atlantico quando scrive queste impressioni nel suo rapporto epistolare con
Alfred Perlès, uno degli scrittori intrappolati dalla magia della Ville
Lumière. E’ il 1935, Tropico del Cancro è un oggetto del desiderio che viaggia
clandestino (ci vorranno quasi trent’anni prima che venga pubblicato in
America) e Henry Miller è sempre più convinto che “qualcuno deve lanciare una
chiave inglese nel meccanismo”. Di possibilità nella tratta Parigi-New York
andata e ritorno
ce ne sono un’infinità: il tono è colloquiale, immediato, intenso, senza
mediazioni come se Henry Miller, invece di scrivere una lettera al suo compagno
di avventura, stesse comunicando le proprie intenzioni en plein air al mondo
intero. Un flusso inarrestabile, disordinato nell’esposizione, travolgente
nella forma, polemico nella sostanza, anche se le richieste e le aspirazioni di Henry Miller,
nonostante l’enfasi e la ricchezza del vocabolario, non siano così
straordinarie: “A un genio non si dovrebbe permettere di fare la fame. Dovrebbe
fare la fame a metà, o a tre quarti. Gli serve quel poco di nutrimento per
riempire un cestino del pane, ma quel poco gli serve sul serio”. Tutto qua, e
il proposito per qualche bella (e importante) lettura sulla linea Parigi-New
York andata e ritorno:
“Un giorno leggerò Ezra Pound. Leggerò gli Unfinished Cantos al galoppo. Poi leggerò
Gertrude Stein e Unamuno. Se ho altro tempo mi dedicherò alla Quarta Ecloga forse pure alle tre Ecloghe
che la
precedono. E ora chiedo una piccola pausa e un sonnellino. Sono le quattro,
secondo il fuso orario orientale; se dormo in fretta posso svegliarmi
esattamente alla stessa ora di Nagasaki o del Mozambico. Odio perdere tempo, il
tempo è la sola cosa preziosa che possiedo”. Glien servirà parecchio, una volta
tornato a casa, perché “l’America è un oceano. E’ tale e tanta che non riesci a
vedere né il cielo né l’acqua” e dall’altra parte non c’è nemmeno Parigi ad
aspettare.
Bella questa recensione, e il tuo blog è, almeno per me, una miniera in cui cercare ed estrarre libri da leggere. L'ultima estrazione è stato il libro Di Pete Fromm "Un inverno sulle Montagne Rocciose", da cui ho tratto, oltre alla piacevolezza della lettura, una serie di considerazioni sull'uomo e la natura.
RispondiEliminaGrazie per aver linkato il mio blog, l'ho un pò abbandonato, ma è sempre lì ad aspettarmi...
Un saluto, Maria