domenica 30 settembre 2012
Thomas McGuane
venerdì 28 settembre 2012
Jack Kerouac
giovedì 27 settembre 2012
William Langewiesche
domenica 23 settembre 2012
David Foster Wallace
mercoledì 19 settembre 2012
T. C. Boyle
mercoledì 12 settembre 2012
Howard Zinn
La Storia del popolo americano dal 1492 a oggi è un libro che andrebbe adottato nelle scuole, dai primi anni fino alla laurea, perché racconta la storia da un punto di vista insolito e profondo, ovvero partendo dal basso. “In genere nei libri di storia non si parla di rivolte” scrive Howard Zinn e non è difficile trovarsi d’accordo dato che tra generali, dittatori (“La tirannia è tirannia, non importa chi la esercita”), presidenti e condottieri le visioni correnti e istituzionali somigliano invece a una saga di personalissime ambizioni, il più delle volte con deviazioni nella follia e del delirio e comunque sempre molto “lontano dalla storia”. Storia del popolo americano dal 1492 a oggi cercava di bilanciare la prospettiva, dando voce anche agli outsider, al dissenso, a chi subisce decisioni e imposizioni incomprensibili, se non in funzione di altri interessi, non proprio pubblici. Sul metodo Howard Zinn è semplice e altrettanto radicale: “Sì, è una questione di onestà. Come dobbiamo essere onesti riguardo ai nostri errori personali per poterli correggere, allo stesso modo dobbiamo giudicare la politica di un paese”. Proprio per questo, per andare incontro alla necessità di un linguaggio educativo, indirizzato ai più giovani, Storia del popolo americano dal 1492 a oggi è diventato Vi racconto l’America. La metamorfosi ha portato Howard Zinn nell’epicentro delle sue scelte, asciugando ancora il suo stile e attenendosi sempre di più al suo mandato. Il linguaggio di Vi racconto l’America è lineare, semplice, popolare, diretto con un punto di vista preciso, per quanto non assoluto. E’ la decisione di raccontare gli eventi storici con estrema chiarezza l’atto più rilevante, da un punto di vista prima letterario e poi, volendo, politico. Una scrittura che è elementare e pop nello stesso tempo ha il limite congenito di essere assertiva, ma ha, da parte di Howard Zinn, il pregio di riunire molte voci, e non soltanto tratte da fonti popolari. Basterebbe la bella citazione di Archibald McLeish, scrittore che fu vicesegretario di stato durante il secondo conflitto mondiale: “Da come stanno andando le cose, la pace che faremo, la pace che sembriamo preparare, sarà una pace del petrolio, una pace dell’oro, una pace del traffico navale, in breve un pace senza alcuno scopo morale o interesse umano”. O quella di Dwight Eisenhower, comandante dell’esercito che quella guerra la vinse e poi presidente degli Stati Uniti d’America: “Ogni arma costruita, ogni nave da guerra varata, ogni missile che parte rappresenta un furto ai danni di chi è affamato e non viene nutrito, di chi ha freddo non sa come coprirsi”. Come storico, anche nella versione extra light di Vi racconto l’America, Howard Zinn non insegue una falsa (e inesistente) obiettività ed è sincero nel suo schierarsi: “I movimenti sociali del passato ci danno un’idea di come si possono comportare le persone se uniscono le forze per costruire una nuova società”. Facile, utile, istruttivo, con o senza l’originale Storia del popolo americano dal 1492 a oggi.
sabato 8 settembre 2012
Pete Fromm
Quando Pete Fromm, ancora studente di biologia, decide di trascorrere un intero inverno sulle Montagne, non lo fa per fuggire o per dimostrare qualcosa al mondo. Ha solo risposto a una proposta di lavoro. Le mansioni sono semplici: evitare che il ghiaccio impedisca lo scorrimento delle acque in un bacino di ripopolamento per salmoni. E’ il luogo in cui deve essere svolto che è estremo: a Indian Creek, le temperature glaciali mettono una seria ipoteca anche sul più banale gesto quotidiano. L’isolamento, scelto per “esplorare in solitudine, vedere quello che c’era senza una guida che mi dicesse cosa guardare, senza diventare parte di quella che consideravo una folla di cittadini ignoranti”, trasforma Pete Fromm, lo rende capace di stupirsi davanti a un branco di mufloni, di comprendere il silenzio, di seguire le tracce e i movimenti degli animali, di ascoltare lo sciogliersi del ghiaccio e di anticipare le variazioni climatiche. Anche nella lotta per la sopravvivenza, Pete Fromm s’inventa una rudimentale etica, dovendosi confrontare con animali più feroci, maestosi e in definitiva più affascinanti del genere umano. Il suo è un diario, denso, motivato e come sintetizza la quarta di copertina (una volta tanto utile e concreta) davvero “scevro di ogni ideologia”. La distinzione serve a collocare senza equivoci la scelta di Indian Creek che non è provocatoria, polemica o integralista. Per quanto perso in una wilderness impervia e scintillante, Pete Fromm ha un impiego, non nega il contatto umano (anzi) e sente ancora il richiamo della città. Il cuore pulsante di Indian Creek non è nelle condizioni, quanto piuttosto in quello che Pete Fromm sta cercando in quelle condizioni: “Qualunque cosa avessi scoperto, ero sicuro che sarebbe stato qualcosa che avrei potuto raccontare in seguito, una storia tutta mia”. La bellezza del racconto sta proprio nella sua genuinità o persino nell’ingenuità e conta soprattutto, come ha scritto Rick Bass, a sua volta autore di Un inverno nel Montana, “sull’integrità, sul vedere e sentire in modo intelligente e pulito”. Con la sua sincerità prima disarma il lettore, poi lo cattura: “Giravo ancora in tondo, fremendo sul mio piccolo trespolo, cercando di cogliere qualcosa che non c’era più, qualcosa che non avevo avuto il tempo di notare in quei pochi minuti troppo pieni, tentando di assorbire tutto quello che avevo visto per mesi, come se la seconda alba avesse rivelato più che delle semplici montagne”. E’ attraverso questo sguardo che si vede crescere Pete Fromm e con cui piano piano si possono assimilare e condividere i sussulti della natura, compresi i suoi estremi crudeli e pericolosi. Anche il finale, un semplice colpo di scena di una dozzina di righe, è un piccolo inno all’essenza della wilderness, nella vita e nella morte. Tutto, in Indian Creek, concorre a insegnare una libertà e una dignità che solo una vita libera e selvaggia possono mostrare, dalla severa e tagliente linea delle cime al volo di un aquila, dallo sguardo di una lince al gusto di camminare sprofondando nella neve che ci riporta a ciò che eravamo.
domenica 2 settembre 2012
Jay McInerney
Un idiota in cantina, il nome che aveva suggerito Jay McInerney per la sua rubrica di degustazioni, (qui raccolta per i posteri) avrebbe avuto più senso e non tanto perché sia offensivo o da intendersi come ignorante (che non lo è affatto, e questa è un’aggravante) ma quanto nell’etimologia propria del termine di chi non ha cariche pubbliche ed è lontano dalle scelte. Jay McInerney è rimasto intrappolato in una bolla di champagne, come se Le mille luci di New York non si fossero mai spente. E’ affascinante l’alterigia con cui affronta la scrittura disseminando in modo caotico i riferimenti colti, giusto per tenersi in equilibrio, e poi delimitando con brutale precisione una vita dove l’unica cosa capace di mandarlo è non trovare posto nel ristorante più à la page della sua città. Da una raccolta di articoli non si può pretendere di più e agli appassionati di vigne e vini I piaceri della cantina regalerà senza dubbio qualche motivo di soddisfazione o di risentimento, come è giusto che sia, perché i tema è, prima di tutto, soggettivo. La verità è che, anche entrando nello specifico, Jay McInerney sfiora appena l’elenco delle possibilità che con una certa spudoratezza sventaglia nell’introduzione. Quello che definisce “un argomento inesauribile, un viluppo di questioni che ci conduce, se decidiamo di approfondirlo, nei regni della geologia, della botanica, della meteorologia, della storia, dell’estetica e della letteratura” viene squadernato in un continuo sfoggio di celebrazione di una good life scintillante ed effervescente. Scivola sempre in superficie, prezzolato da importatori e distributori e addetti del marketing, sfiorando appena alcuni dei nodi filosofici e lirici che stanno in fondo a una bottiglia di vino. Per dire, viene da pensare cosa avrebbero scritto Hunter S. Thompson o David Foster Wallace di questo mondo bizzarro e affascinante di cui I piaceri della cantina coglie soltanto i pruriti, le apparenze, gli assaggi. Jay McInerney non solo è incastrato nel suo personaggio, come se non ci fosse altra vita fuori da New York e dal suo inner circle. Rimane ai margini anche quando potrebbe usare gli strumenti della letteratura (che non gli mancano) per raggiungere l’ebbrezza e per dare al lettore quelle indispensabili sollecitazioni, che si parli di vino o d’altro poco conta. Si limita invece a qualche citazione, troppo disparate per avere un senso e si diletta un po’ a fare il critico e l’enologo e molto di più a interpretare il ruolo del bon vivant. E’ questa la parte che gli riesce meglio, e va bene: è il tono che è sempre superlativo, è lo stile autoindulgente, è la forma che è ripetitiva. L’attenuante del ridotto standard della rubrica da cui arriva I piaceri della cucina potrebbe valere fino a un certo punto: pur nel florilegio di espressioni colte e raffinate di cui Jay McInerney fa sfoggio (fin troppo), il fraseggio e persino la scelta dei vocaboli sono limitati e annoiati. Stuzzicante, all’inizio, poi evanescente e infine con un retrogusto amaro che sa di rimpianto.