Quando Jack Kerouac
accetta di trascorrere nove settimane come osservatore degli incendi per il
servizio forestale a Desolation Peak, nello stato di Washington e poco lontano
dal confine con il Canada, vaneggia un solitudine zen, sobria, profonda, in grado
di comprendere e accettare che la felicità è “sapere che a conti fatti nulla
importa”. La dimensione di Angeli di desolazione, almeno nella prima
parte, è quella dell’immobilità, della contemplazione, della wilderness,
dell’introspezione e di un vasto mondo mentale che Kerouac lascia scorrere come
una specie di flusso di coscienza inarrestabile attraverso le cavità di un
sassofono. Alla monastica e ascetica meditazione zen subentra la constatazione
che “viviamo per desiderare”, ed è così che comincia la reazione a catena delle
contraddizioni di Jack Kerouac. L’eterno dilemma di essere in un luogo e di
pensarne un altro, di rimanere “into the wild” e agognare le città e le
metropoli, di restare solo in cerca del silenzio e della pace e di ambire al
mondo intero. Quando è lassù a dialogare con la neve, le cime delle montagne e
gli orsi che non riesce a vedere vorrebbe scendere e andare a caccia di vita:
“L’unica cosa da fare è attendere 30 lunghi giorni prima scendere dalle rupi e
assaporare di nuovo la dolce vita sapendo che non è né dolce né amara ma solo
quel che è e così è”. Una volta ripresa la strada delle luci, della musica,
degli amici, Jack Duluoz alias Jack Kerouac si ritrova disorientato: “E ora che
sono tornato
in questo stramaledetto film del mondo, ora che me ne faccio?”. La
sua è “un’immensa epica inconcludente” e la costruzione stessa di Angeli di desolazione è
frammentaria e composita, eppure pur essendo un canovaccio disordinato anticipa
tutti i temi e le ossessioni che poi farà proprie. Angeli di desolazione è un vaso di Pandora da
cui erutterà Sulla strada ed è popolato dal dottor Sax, da Maggie
Cassidy
e da Tristessa,
dai vagabondi del Dharma e dal blues di Mexico City e tutti i personaggi e gli
interpreti della Beat Generation nascosti dietro altrettanti alias. Di concreto
c’è il suo, di autoritratto: “Ho 34 anni, aspetto normale, ma per via dei jeans
e l’abbigliamento strambo la gente si spaventa a guardarmi perché davvero ho
l’aria di un matto scappato dal manicomio con sufficiente forza fisica e un
innato senso di adattamento da cavarmela al di fuori di un istituto, da
nutrirmi e andare di luogo in luogo in un mondo che si fa di giorno in giorno
più stretto in fatto di opinioni sull’eccentricità. Attraversando dei paesi nel
centro dell’America mi sentivo guardato come se fossi un fantasma. Ero deciso a
vivere a modo mio”. Questo è il vero lascito di Angeli di desolazione, a parte il fascino del
corpo a corpo di Jack Kerouac con se stesso e con il monte Ozomeen: il coraggio
di ritagliarsi parola per parola, frase dopo frase, uno spazio unico e
singolare. Una visione irripetibile, con l’eccezione (meravigliosa) di Dylan
che, non a caso, con Desolation Row scriverà il vero finale di Angeli di
desolazione.
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