Quando Pete Fromm, ancora studente di biologia, decide di trascorrere un intero inverno sulle Montagne, non lo fa per fuggire o per dimostrare qualcosa al mondo. Ha solo risposto a una proposta di lavoro. Le mansioni sono semplici: evitare che il ghiaccio impedisca lo scorrimento delle acque in un bacino di ripopolamento per salmoni. E’ il luogo in cui deve essere svolto che è estremo: a Indian Creek, le temperature glaciali mettono una seria ipoteca anche sul più banale gesto quotidiano. L’isolamento, scelto per “esplorare in solitudine, vedere quello che c’era senza una guida che mi dicesse cosa guardare, senza diventare parte di quella che consideravo una folla di cittadini ignoranti”, trasforma Pete Fromm, lo rende capace di stupirsi davanti a un branco di mufloni, di comprendere il silenzio, di seguire le tracce e i movimenti degli animali, di ascoltare lo sciogliersi del ghiaccio e di anticipare le variazioni climatiche. Anche nella lotta per la sopravvivenza, Pete Fromm s’inventa una rudimentale etica, dovendosi confrontare con animali più feroci, maestosi e in definitiva più affascinanti del genere umano. Il suo è un diario, denso, motivato e come sintetizza la quarta di copertina (una volta tanto utile e concreta) davvero “scevro di ogni ideologia”. La distinzione serve a collocare senza equivoci la scelta di Indian Creek che non è provocatoria, polemica o integralista. Per quanto perso in una wilderness impervia e scintillante, Pete Fromm ha un impiego, non nega il contatto umano (anzi) e sente ancora il richiamo della città. Il cuore pulsante di Indian Creek non è nelle condizioni, quanto piuttosto in quello che Pete Fromm sta cercando in quelle condizioni: “Qualunque cosa avessi scoperto, ero sicuro che sarebbe stato qualcosa che avrei potuto raccontare in seguito, una storia tutta mia”. La bellezza del racconto sta proprio nella sua genuinità o persino nell’ingenuità e conta soprattutto, come ha scritto Rick Bass, a sua volta autore di Un inverno nel Montana, “sull’integrità, sul vedere e sentire in modo intelligente e pulito”. Con la sua sincerità prima disarma il lettore, poi lo cattura: “Giravo ancora in tondo, fremendo sul mio piccolo trespolo, cercando di cogliere qualcosa che non c’era più, qualcosa che non avevo avuto il tempo di notare in quei pochi minuti troppo pieni, tentando di assorbire tutto quello che avevo visto per mesi, come se la seconda alba avesse rivelato più che delle semplici montagne”. E’ attraverso questo sguardo che si vede crescere Pete Fromm e con cui piano piano si possono assimilare e condividere i sussulti della natura, compresi i suoi estremi crudeli e pericolosi. Anche il finale, un semplice colpo di scena di una dozzina di righe, è un piccolo inno all’essenza della wilderness, nella vita e nella morte. Tutto, in Indian Creek, concorre a insegnare una libertà e una dignità che solo una vita libera e selvaggia possono mostrare, dalla severa e tagliente linea delle cime al volo di un aquila, dallo sguardo di una lince al gusto di camminare sprofondando nella neve che ci riporta a ciò che eravamo.
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