Dio la benedica, dottor Kevorkian è una minuscola raccolta di interviste impossibili vennero trasmesse come piccoli sketches radiofonici. Il tono è surreale e tagliente, a partire dall’antefatto che sta alla fonte dei rendez-vous di Kurt Vonnegut. Dalla cella per le esecuzioni capitali del carcere di Huntsville, Texas e con la collaborazione del dottor Jack Kevorkian, che ebbe il suo quarto d’ora di fama come sostenitore dell’eutanasia e del suicidio assistito, Kurt Vonnegut riesce ad attraversare il confine tra la vita e la morte quel tanto che basta per poter tornare indietro e raccontare chi ha incontrato. L’elenco dei protagonisti è variopinto ed esagerato, come è proprio nello stile di Kurt Vonnegut. L’interlocutore può essere Shakespeare (“In sostanza, ha mandato il vostro inviato a farsi fottere”) o James Earl Ray, il killer che uccise Martin Luther King, Mary Wollstonecraft Shelley (il cui Frankenstein è un’inevitabile fonte di ispirazione), un genio della scienza come Isaac Newton o un raro socialista americano, Eugene Victor Deb (“Finché esisterà una classe inferiore, io ne farò parte. Finché esisterà chi infrange la legge, io sarò dalla sua parte. Finché ci sarà una persona in prigione, io non sarò libero”), un verificatore dei record aerostatici per l’associazione aeronautica nazionale o un emerito sconosciuto e lo spirito è sempre quello: divertito, ironico, pungente e a suo modo cordiale perché come dice lo stesso Vonnegut: “sono un umanista, il che significa, in parte che ho cercato di comportarmi decorosamente senza pretendere, dopo che sarò morto, né ricompense né castighi”. Però, anche nelle ridottissime dimensioni (non sono nemmeno cento pagine) Vonnegut non rinuncia a colpire duro e con precisione, spiazzando con un colpo basso sempre pronto dietro l’angolo. Succede nell’incontro con Salvatore Biagini, uno sconosciuto in pensione sacrificatosi per salvare il proprio cane dall’assalto di “un pitbull scatenato di nome Chele”. A parte i convenevoli e i dettagli dell’aggressione quando arriva la conclusione, Kurt Vonnegut (è più forte di lui) non riesce a rinunciare alla sua (sacrosanta) verve polemica: “Ho chiesto a questo eroico amante degli animali cosa si provava a essere morti per uno schnauzer di nome Teddy. Salvatore Biagini è stato filosofico. Ha detto che era mille volte meglio che essere morti per niente nella guerra del Vietnam”. Kurt Vonnegut non resiste nemmeno alla tentazione di un colloquio con il personaggio che ha incarnato il male nel ventesimo secolo e risolve l’incontro con Adolf Hilter in modo irriverente e sarcastico. Si concede una meritata autocitazione (volendo, scaramantica) anche nell’incontro con il suo alter ego Kilgore Trout, dove comunque non rinuncia agli strali di una caustica conversazione riguardo la pulizia etnica e l’intervento della NATO in Kosovo. Per concludere poi con la classica citazione di Jean Paul Sartre, “l’inferno sono gli altri” che vista l’ambientazione e l’atmosfera degli incontri suona come uno sberleffo pop, allegro e geniale.
giovedì 30 agosto 2012
Kurt Vonnegut
martedì 28 agosto 2012
Thomas McGuane
Con Il grande silenzio, Thomas McGuane spiega la pesca, la pesca con la mosca in particolare, con una passione che ne fa una questione di vita o di morte. E’ proprio il trasporto con cui si dedica nel raccontare la pesca, a rendere Il grande silenzio, che in effetti è una parte consistente della sua autobiografia, in qualcosa di più importante. Per dire: alla mosca, ovvero all’esca, Thomas McGuane dedica ampi squarci della sua attenzione (e della scrittura, che è sempre brillante), tanto da riuscire a essere coinvolgente anche con un argomento specifico e del tutto particolare: “Cerco di costruire mosche che mi faranno pescare meglio, cerco di pescare più di frequente, di sognare pesci quando non posso pescare, di ricordare a me stesso che devo fare tutto il possibile per rendere il mondo più accogliente per i pesci e, in ultima analisi, per progredire ulteriormente così da diventare un pesce io stesso”. Per lui la pesca non è un hobby, non è un secondo lavoro e non è una via di fuga. Può essere una metafora o un particolare momento della vita, con un catalogo di dettagli molto vivi, di ricordi da conservare (“In realtà, anche se mentre scrivo queste cose sono trascorsi molti anni da allora, quei momenti sono ancora vivi nella mia mente. Che meraviglia possederli”), di storie, luoghi, persone, viaggi e (tanti) pesci da raccontare. Negli appunti giornalieri di Thomas McGuane affiora un’ossessione coltivata con tale, minuziosa dedizione da trasmetterla alla fine anche al lettore che non è mai stato sintonizzato su ami e canne, lenze ed piombe, trote fario e salmerini, stagni e torrenti, laghi e mare aperto. Basterebbe occuparsi di qualsiasi cosa con un decimo delle motivazioni che Thomas McGuane riversa nella pesca e il mondo sarebbe di sicuro un posto migliore. La cura, la curiosità, il meticoloso assemblaggio dell’incontro con i pesci e con gli uomini, la sportività (vera e sincera) verso entrambe le specie formano e alimenta con Il grande silenzio un modo per ritrovare un rapporto con se stessi (“Le condizioni meteo esistono a prescindere, e dopo aver percorso un certo tratto di vita è corroborante contemplare le molte cose che per esistere non hanno bisogno di te”), con la natura (“Soltanto osservando la natura ci è possibile recuperare la visione dell’eterno che ha consolato i nostri antenati”), tutto sommato con la vita (“Mi domandai come sarebbe stata la mia vita se avessi saputo a dodici anni che a cinquantacinque avrei vissuto una giornata da venti pesci”) e con il tempo (“Il nostro atteggiamento verso il tempo ci pone in conflitto con la società di cui facciamo parte”). Attraverso la pesca e Il grande silenzio che la sottolinea, Thomas McGuane matura una filosofia o meglio una visione del mondo come dovrebbe essere. Non a caso contiene un punto di vista piuttosto caustico sulla realtà e i suoi aridi dati di fatto, compresa una lapidaria, meravigliosa definizione dell’economia moderna: “Si chiama libera impresa. O caghi o ti togli dal cesso”.
lunedì 27 agosto 2012
William Faulkner
C’è qualcosa di acerbo e sensuale nelle Poesie del Mississippi del giovane William Faulkner, attratto dalle forme femminili non meno che dalle curve della natura e dalle possibilità ancora inesplorate della scrittura. Eccessivo, romantico, trascinante, criptico, il poeta William Faulkner si lascia incantare dalle parole e ricambia e condivide questa gioia con il lettore. Siamo nel campo dei pruriti giovanili, ma la classe è già chiarissima: è vero che a questo stadio le pulsioni e gli eccessi sono gli stessi per tutti, a quell’età, e la morte, e l’amore (e il sesso, soprattutto), ma per William Faulkner si nota già una ruvida precisione che è una certezza. E’ facile dirlo in prospettiva e dopo che la sua voce è diventata una delle tonalità più forti e intense (per non dire immortale) della letteratura americana. Per quanto ancora in embrione, ed espressione di quello che William Faulkner chiama “un desiderio brillante ed elevato”, il tratto è già nitido, pronto, sicuro e le sue Poesie del Mississippi sono un fulgido esempio, con tutti i loro limiti, di un talento chiarissimo e fertile e senza paura. I suoi versi sono imperiosi e floridi, intrisi di quelle colorite associazioni che saranno la fortuna di generazioni e generazioni di scrittori e songwriter. Basta uno dei versi di Marzo per cogliere lo spirito delle Poesie del Mississippi: “Nella notte d’inverno all’uomo può sembrare caldo perdono di vecchi peccati che commise, di incantare la nave del sangue coi feticci, dimentico che lui, essendo nato, ne è erede”. O ancora, un passaggio in Il poeta diventa cieco: “Dal mondo il vento mi soffia sulla guancia, formando colline non viste, e io dispero. Sei forte: odio c’è, e paura su cui fracassare il tuo potere! O lasciami occhi per cercare, per dotare il cuore d’ali attraverso aria cava d’oro”. I richiami agli elementi sono un altro filo che lega le Poesie del Mississippi perché le passioni viscerali di William Faulkner comprendono “l’amore per la natura che ci sta intorno, da scrutare e da trascrivere”. Poi, più in là, sembra quasi accorgersi che lo strumento non sia quello giusto e prima ammette che “ciò di cui credi di morire passa presto: lascia stare quel che non puoi ricucire” e poi sembra arrendersi: “Sia dunque questo il mio destino, se mi scordo che una primavera c’è e sa ancora rompere il mio sonno”. La poesia non concede margini, è un taglio chirurgico e musicale nello stesso tempo e William Faulkner confesserà, in seguito: “Sono dell’opinione che in principio ogni scrittore voglia essere poeta. Quando scopre di non saper scrivere poesia di prim’ordine, e la poesia deve essere di prim’ordine, di gradazioni non ne esistono, allora tenta con i racconti, che sono il secondo genere più arduo. Quando fallisce con i racconti, viene il momento del romanzo. Vale a dire che cerca di esprimere la tragedia e la passione dell’esperienza, della vita, con quattordici parole. Se non va, ci ritenta con duemila parole. Se fallisce di nuovo, gliene serviranno centomila”. Ecco cosa sono le Poesie del Mississippi: un bel fallimento, all’inizio di un grande carriera.
sabato 25 agosto 2012
Richard Matheson
Questa bella antologia copre uno spettro tra il 1950 e il 1971 e ha scopi più che altro introduttivi, vista la vastità della produzione di Richard Matheson. La qualità dei racconti è però tale che vale la pena di una rilettura o, nel caso, è utilissimo per scoprire uno scrittore unico e originale. Il fantastico è, senza dubbio, l’elemento narrativo in cui nuota Richard Matheson, ma gli effetti speciali sono ridotti al minimo, a parte un po’ di sangue che zampilla ogni tanto. Sono altre le dimensioni a cui Richard Matheson si applica perché i suoi temi vengono tutti, in modo diretto ed esplicito oppure in maniera più sfumata, dalla realtà, che è il vero film dell’orrore. E’ l’uomo, e le sue solitudini, a determinare la propria autodistruzione e non c’è esempio migliore di La casa impazzita dove uno scrittore votato al fallimento è trascinato in un abisso dalle sue ossessioni. Le stesse paranoie alimentano gran parte dell’antologia ed esplodono con Il nuovo vicino di casa, un racconto agghiacciante eppure avvinghiato alla realtà psicotica della vita nelle periferie suburbane o in quella “società degli altri”, come la chiama il signor Jasper in La legione dei cospiratori, che coltiva il suo giorno di “ordinaria follia” in modo maniacale. E’ un maestro, forse il migliore nel lasciare in sospeso, soprattutto nell’esiguo spazio delle short stories ed è vero, come ha detto Stephen King, che “non chiede pietà e non ne concede”, però lascia al lettore spazi infiniti e non perché ai suoi racconti manchi qualcosa, anzi. Sono essenziali, proprio perché vanno nel centro del bersaglio e coltivano la tensione con poche indicazioni e molta suggestione, circondando il lettore più che cercando di sconvolgerlo o di provocarlo. Con fare sornione e raffinato, Richard Matheson tiene nascoste le mostruosità, fino in fondo ai racconti, dove soltanto alcuni dettagli le possono rivelare e in questo senso La danza dei morti è un piccolo capolavoro, tanto che sembra l’estratto di un romanzo, dato la quantità di suggerimenti che rimane nell’aria. L’effetto finale, comunque, è lo stesso nel sottolineare la perversione della cosiddetta normalità e la salutare disgressione nella diversità. Come succede nell’ormai classico Duel, figlio di una metamorfosi dovuta all’elementare, al primordiale concetto ed esigenza di sopravvivenza (che ritorna anche con La preda) perché all’improvviso succede che “tutti gli anni di buon senso e di certezze vengono spazzati via e, all’improvviso, ti ritrovi davanti la giungla”. Il peggio, sembra dire Richard Matheson, deve ancora venire e non gli manca una vena di autorironia, forse involontaria, in L’uomo enciclopedico, dove aggiunge un pizzico di perfidia al delirio di un genio improvviso: “E così non c’era niente che potesse fare: nient’altro che sputare in continuazione parole incomprensibili e domandarsi ogni notte perché gli stesse succedendo quella cosa terribile”. Non è difficile leggerci il ritratto di uno scrittore inquieto, capace di seminare il virus del dubbio tra le apparenti certezze dei nostri modern times.
giovedì 23 agosto 2012
Derek Nikitas
Una constatazione di Greta Hurd, detective avvolta in una spirale di dubbi esistenziali, aiuta a comprendere dove cominciano a divampare I fuochi del nord: “I casi di omicidio non erano come le autopsie. Non se ne stavano lì sdraiati, fermi a farsi sezionare dal bisturi. Si contorcevano, scalciavano e urlavano fino a quando non riuscivi a seppellirli nella fossa”. L’assassinio di Oscar Moberg, stimato professore di letteratura, mite pescatore, padre di Luc alias Lucia, è la scintilla che contiene già tutta l’essenza e la forza della storia. Il nocciolo malefico si intuisce fin dall’inizio e il lettore appena appena esperto comprenderà subito che qualcosa non quadra, ma I fuochi del nord si svelano per gradi, uno strato dopo l’altro. In fondo, lo stesso Derek Nikitas non sembra preoccuparsi per aver lasciato ben visibili alcuni indizi rivelatori. Quei dettagli in superficie suggeriscono che gli interessi qualcosa in più della suspense e/o del mistero, anche se la tensione e il ritmo rimangono costanti fino alla fine. Grazie anche ad alcune scelte originali ed eccentriche: un lungo lavoro di preparazione dopo il botto iniziale, un plot articolato e orchestrato con grande cura e su sui si possono applicare più chiavi di lettura, molta azione che si trasforma in scene vivide e, come ha scritto, Joyce Carol Oates “coinvolgenti”, compresa la pirotecnica resa dei conti e, last but not least, un’ambientazione particolare, fiabesca, nella neve e nel freddo. Derek Nikitas gioca con la mitologia nordica come farebbe uno dei suoi punti di riferimento, citato tra le righe, Stephen King: la comunione tra l’elemento metafisico e quello naturale, sempre a stretto contatto nelle favole e nelle leggende, è uno dei tratti caratteristici di una trama intensa, densa e profonda. I mostri sono altri e, come in tutti i noir di un certo spessore, anche I fuochi del nord allinea alcune visioni concrete di realtà deformate e decadenti: l’alienazione nelle periferie suburbane, la deviazione antropologica delle gang, le violente alterazioni nei rapporti umani. Le pareti tra mondi diversi e in contrasto sono sempre più sottili, per non dire comunicanti, e le differenze tra i cosiddetti normali e i mostri stanno soprattutto nelle apparenze. Le associazioni (a delinquere) non avvengono mai per caso: piuttosto per assimilazione, per simbiosi, per osmosi, con la stessa naturalezza della wilderness che circonda I fuochi del nord. Ed è l’elemento femminile, altra sfumatura su cui Derek Nikitas non manca di insistere, a far scattare i cardini della storia: sono tutte donne quelle che, da varie angolazioni e in punti diversi, accendono I fuochi del nord e l’incendio divampa e viene infine spento solo grazie a loro. Proprio a cominciare da Greta Hurd, che non vuole credere a un omicidio dal profilo fin troppo ambiguo, per finire con l’esperienza di Luc che, grazie al padre, ha un canale privilegiato con il mondo fantastico che vive nella foresta, nei ricordi e nei sogni che sono sempre meglio anche perché i mostri sono ben altri, e ben più reali.
sabato 18 agosto 2012
Dale Maharidge
Gli scenari americani evocati da Homeland riportano alla repubblica di Weimar o all’anticamera di una seconda guerra civile americana. Corsi e ricorsi storici, coincidenze e cicli in effetti contribuiscono a somiglianze e paragoni per chi ha sempre bisogno di punti di riferimento. La realtà americana (e non solo) dopo l’11 settembre è, sì, frutto di storia e precedenti assortiti, ma è anche nuova, imprevedibile, inarrestabile. Le reazioni dello stato e del governo, la paura, una violenza endemica, i controlli orwelliani in nome della patria, l’atmosfera da Fahrenheit 451 dovuta alle incursioni nelle biblioteche), le censure radiofoniche di canzoni innocue, l’integralismo religioso sono tutti elementi (prevedibili) emersi in risposta all’11 settembre. Tutti contenevano, e contengono ancora, una dimensione che andava oltre lo scopo principale di trovare altri terroristi o impedire altre azioni distruttive. Erano volte a mantenere lo status quo, ad alimentare guerre non dichiarate e mai finite. Dale Maharidge non si lascia andare a facili giudizi politici e morali (anche se è molto chiaro da che parte sta): la sua ricostruzione è più legata ai fatti, a dati concreti, reali, ottenuti parlando con uomini e donne in locali da quattro soldi a notte fonda, quando hanno finito i turni dei loro doppi e tripli lavori. Una delle testimonianze raccolte da Dale Maharidge è essenziale ed esplicativa nella sua sintesi: “Non penso che sia giusto quello che è successo l’11 settembre. Ma guarda che cosa sta capitando a noi ora”. Nei loro discorsi (e nei volti fotografati da Michael Williamson) emerge la paura di non farcela a pagare i conti, a mantenere i figli, a tirare avanti, piuttosto che la paura del terrorismo o di un altro 11 settembre. Le due angosce non sono poi così diverse, anzi. La relazione è complessa e opinabile (finché si vuole) ma è anche una riflessione ineluttabile se si vuole comprendere l’America del ventunesimo secolo, dove sembra che la sospensione dei diritti costituzionali e, di fatto, uno stato d’emergenza e di guerra perenne stiano determinando la vita quotidiana e compromettendo il futuro in modo irreversibile. Il ricorso al patriottismo, a partire da un uso smodato e ossessivo del termine, dal Patriot Act all’idea stessa di Homeland cioè di patria, è volto a giustificare scelte ambigue e a nascondere la corruzione sistematica di un sistema di tutele e di convivenze civile. E’ lecito quindi confidare nella distinzione di Mark Twain, citato a proposito da Dale Maharidge, quando diceva che “il patriottismo significa essere sempre fedeli al proprio paese ed essere fedeli al proprio governo quando lo merita”. Quando i cittadini rimangono senza tutele e vengono reclutati per guerre lontane, di cui si è persa persino la cognizione dell’origine, la definizione di Homeland, di patria e di nazione, è tutta in una frase del padre di Dale Maharidge, a sua volta un veterano della seconda guerra mondiale: “Non ci sono eroi. Solo superstiti”. in mezzo a una valanga di bugie e dietrologie assortite, un salutare e concreto tuffo nella realtà.
lunedì 13 agosto 2012
H. D. Thoreau
Il carattere atlantico di Cape Cod può apparire insolito per un paladino della wilderness come H. D. Thoreau, visto che la terra dell’America rimane “alle spalle”. L’ambiente e gli habitat sono insoliti: la costa sembra un riflesso, “il mare e il deserto” non sono poi così diversi, resti e relitti nella sabbia raccontano un oceano che è nello stesso tempo distanza e legame e la prospettiva è spesso falsata dalla luce, come notava H. D. Thoreau: “Il sole sorto alla vista così lontano sul mare che il fronte delle nuvole all’orizzonte, che all’inizio l’aveva nascosto, non era percepibile finché il sole non s’era alzato di molto dietro e l’aveva spezzato e disperso di netto, come una freccia. Ma lo guardavo ancora come se sorgesse dalla terra e ho dovuto fare uno sforzo per rendermi conto che invece stava sorgendo dal mare”. Con questo, il viaggiatore arrivato a Cape Cod è minuzioso, appassionato, ossessionato dalla natura del luogo e dalla natura in sé. Tiene conto anche di altri testimoni che l’hanno preceduto, cercando di comprendere la complessa e delicata dimensione del luogo, a partire dalle descrizioni di flora e fauna. Osserva il mare con molto rispetto e scrupolosa attenzione. E’ una panoramica completa, risolutiva, determinata, colta e ricchissima che risponde a un legame indissolubile con la wilderness che Thoreau riassume così: “Insomma, stavamo attraversando un deserto con un panorama autunnale di straordinaria brillantezza, una specie di terra promessa, da un parte, e l’oceano dall’altra”. Nello stesso tempo, visto che “sono gli individui e i destini personali che esigono la nostra simpatia”, c’è qualcosa di metaforico che non è dichiarato nei continui riferimenti di H. D. Thoreau all’Atlantico e ai suoi naufragi, coincidenza che non deve essergli sfuggita. Sulle spiagge di Cape Cod si forma una linea, un residuo storico americano, frutto di un approdo sbagliato, dove uno dei lavori più diffusi è quello dei “recuperanti”, personaggi che vagano su e giù lungo il litorale frugando tra i rimasugli rigurgitati dalle onde. Le dimensioni, tutte umane, che nota H. D. Thoreau sono due, opposte e complementari come partenza e arrivo. La prima riguarda i viaggiatori: “E’ strano che gli uomini non solchino il mare con maggiori aspettative. Mai nulla di notevole è stato compiuto con animo prosaico. Eroi ed esploratori hanno sempre scoperto più di quanto si credeva in precedenza solo quando speravano e sognavano qualcosa che era più di quanto sperassero e sognassero i loro contemporanei, ovvero persino più di quanto loro stessi avevano scoperto quando erano in uno stato d’animo più pronto ad adattarsi alla verità. Misurati sul criterio comune di normalità, essi erano sempre dei pazzi”. L’estremo finale è proprio a Cape Cod, dove si è incagliata “l’anima americana” perché H. D. Thoreau ammette che “siamo tutti recuperanti intenti a immaginare che qualche grande tesoro si areni sulla nostra spiaggia per assicurarcelo”. Nel miraggio di Cape Cod, l'attesa sembra persino naturale.
domenica 12 agosto 2012
Mark Twain
Un Mark Twain nella versione filosofo, in cerca di risposte (o, forse, più di domande) ricostruisce il confronto tra un giovane e un vecchio sulla natura dell’uomo, sulla determinazione delle “influenze esterne”, sui doveri dell’educazione, sui legami con l’ambiente e sull’essenza stessa della vita. Il dialogo su cui si basa Che cosa è l’uomo? è dubitativo, senza sosta e sincopato, con interrogativi che si succedono a raffica a definire le personalità dei due protagonisti. Il giovane è attento, scrupoloso e incalzante, per niente timoroso nell’affrontare lo snodarsi imprevedibile e fin troppo articolato della conversazione. Più che l’archetipo della saggezza, il vecchio è un insegnante convinto della propria conoscenza, forgiata dall’osservazione, dalla riflessione e, in ultima analisi, dall’esperienza non meno che dalle convizioni che hanno alimentato la sua decisa opinione sulla natura del genere umano. La tesi sostenuta dal vecchio e su cui il giovane ribadisce la sua necessità di approfondimento è implicita nel titolo di Che cosa è l’uomo?, trattandosi, e questa è la fonte del confronto, di “una macchina impersonale. Un uomo, così com’è, dipende dalla sua fattura d’orgine, e dalle influenze esercitate su di essa dal suo patrimonio ereditario, dal suo habitat, dalle sue associazioni. Egli è mosso, diretto, comandato, esclusivamente da infuenze esterne. Egli non dà origine a niente, nemmeno a un pensiero”. L’elemento provocatorio è evidente ed è attorno a quello che Mark Twain, attraverso il ridotto convivio di Che cosa è l’uomo?, distribuisce con generosità i paradossi con cui cerca di spiegare la sua scarsa fiducia e nello stesso tempo la sua grande compassione verso il genere umano. In effetti se sono le cosiddette “influenze esterne” a delimitare in modo irrevocabile la formazione di ogni uomo e a determinarne in modo più o meno diretto il suo destino, quello che resta da fare secondo Mark Twain sarebbe tutto sommato elementare e comprensibile ai più: “Dobbiamo produrre quello che possiamo; dobbiamo fare del nostro meglio e non dobbiamo preoccuparci affatto se degli sconsiderati ci rimproverano di non produrre dei gobelin”. La sottile ironia riferita alla raffinata tappezzeria parigina è un calembour per dire che, per quanto dipenda dalle “influenze esterne”, secondo Mark Twain alla fine per l’uomo fa giusto quello che può, ovvero “compie un unico dovere, il dovere di appagare il suo spirito, il dovere di rendersi gradevole a se stesso”. Il vecchio impiega più di mille parole per spiegare al giovane Che cosa è l’uomo? e quest’ultimo ne ha bisogno altrettante per arrivare per riuscire ad afferrarne il senso, anche se soltanto in modo molto vago e non del tutto convinto. L’involuzione della discussione è inevitabile perché il quesito fondamentale, quello del titolo, rimane insoluto ed è tutto meno che retorico. Come scriveva altrove Mark Twain: “Io non domando a che razza appartiene un uomo; basta che sia un essere umano; nessuno può essere qualcosa di peggio”. Onesto.
sabato 4 agosto 2012
Matt Bondurant
E’ paradossale che per comprendere La contea più fradicia del mondo si debba seguire il comportamento dei cervi in un periodo di estrema siccità. Gli animali scendono a valle in cerca di cibo e soprattutto dell’acqua, sfidando la sorte e diventando facili prede e altrettanto facili bersagli, ma è ineludibile perché “il bisogno di bere è più forte della paura di morire”. Tradotto con le giuste proporzioni per gli uomini e con l’alcol è il tema dominante di La contea più fradicia del mondo: lo smercio del whisky è il motivo dell’epica battaglia che, negli ultimi e convulsi anni del probizionisimo e della crisi economica del 1929, imperversa nella contea di Franklin e si avvinghia all’albero genealogico di Matt Bondurant, che ricostruisce a partire dal “ricordo di un’antica irrequietezza” per arrivare a definire, ancora una volta, una nuova frontiera americana. Per farlo, oltre ad affidarsi ai documenti storici e alle cronache famigliari, Matt Bondurant si appoggia a un altro fatto reale e si fa accompagnare nella sua meticolosa esplorazione da Sherwood Anderson che all’epoca provò davvero a comprendere vita e morte nel nome del whisky nella contea di Franklin. Un compito difficile e rischioso perché, come si dice da quelle parti, “chi ficca il naso tra le colline della contea di Franklin, rischia di trovare solo due cose: whisky illegale e un fracco di botte”. Davanti al fatto compiuto, all’impercettibile distinzione tra potere e giustizia, Sherwood Anderson, o la sua “trasfigurazione”, condensa con una domanda tutta La contea più fradicia del mondo (la definizione, del resto, è davvero sua): “Qual è il prezzo che dobbiamo pagare affinché il nostro incessante appetito bestiale possa essere appagato?”, ed è questo il nocciolo duro e liscio al centro del romanzo di Matt Bondurant. Un soggetto avvincente e trascinante nella stesura, molto lineare ed essenziale, e privo (per fortuna, visto l’argomento) di spiccioli moralismi o banali consolazioni. La corsa al whisky, le immense fatiche per produrlo nascosti nei boschi e poi per distribuirlo, gli scontri tra i produttori e infine con l’ordine pubblico (e le sue deviazioni) hanno un motivo solo ed è quello “che sanno tutti gli alcolizzati: un buon liquore è in grado di fermare il tempo. Per qualche ora il mondo gira al contrario, la terra scorre velocemente sotto i piedi, le montagne si sollevano a formare una corona scintillante mentre, con la mano salda sul manico del bottiglione, la schiena pompa come un pistone. Ma questa non è vita, lo sanno tutti. Passata la dose quotidiana di illusioni, di possibilità ingannevoli, arrivano i conati di vomito devastanti, le fitte allo stomaco, le mattine confuse, la depressione. Ma sempre meglio di niente”. Mentre le canzoni della Carter Family e Jimmie Rodgers risuonano alla radio evocando tutta un’era e un territorio, il sottile confine tra timore e necessità viene varcato più volte e a ogni passaggio, tracciato con il sangue, il fuorilegge si rivela più onesto degli sceriffi. Based on a true story, merita più di una riflessione.
venerdì 3 agosto 2012
Ernest Hemingway
Hemingway, in tutta la sua passionalità, in Addio alle armi mescola storia, cronaca, finzione e opinione con quel savoir faire irresistibile. Sembra dare per scontato che il lettore conosca, sia informato, capisca senza ulteriori spiegazioni. Una confidenza con la scrittura che permette ai fatti, quelli con tutti i riscontri nella realtà e quelli creati ad hoc, di giustificarsi e definirsi in completa autonomia. La forma è quella e l’Addio alle armi di Frederic Henry, la sua diserzione e la sua fuga d’amore (“Stavo andando a dimenticare la guerra. Avevo fatto una pace separata”), nascono, prima di tutto, dall’esperienza di Hemingway sul campo e al fronte (italiano) della prima guerra mondiale che l’ha portato a definire un’opinione e cruda, alla base del romanzo: “Siccome di guerre ne ho fatte troppe, sono certo di avere dei pregiudizi, e spero di avere molti pregiudizi. Ma è persuasione ponderata dello scrittore di questo libro che le guerre combattute dalla più bella gente che c’è, o diciamo pure soltanto dalla gente, per quanto, quanto più ci si avvicina a dove si combatte e tanto più bella è la gente che si incontra; ma sono fatte provocate e iniziate da precise rivalità economiche e da maiali che sorgono a profittarne. Sono persuaso che tutta la gente che sorge a profittare della guerra e aiuta a provocarla dovrebbe essere fucilata il giorno stesso che comincia a farlo da rappresentanti accreditati dai leali cittadini che combatteranno”. Il rocambolesco viaggio di Frederic Henry dalle macerie di Caporetto alle sponde del lago Maggiore inseguendo l’amore di Catherine Barkley è un drammatico tentativo di trovare un senso dove non c’è: la devastazione della guerra, il suo orribile ripetersi, perché “c’è qualcuno che non lo capisce mai”, non è soltanto il fondale, il paesaggio, il terreno e l’orizzonte di Addio alle armi. Attraverso Frederic Henry, Hemingway legge attraverso il vuoto che aprono “parole astratte come gloria, onore, coraggio o dedizione” o ancora “sacro, glorioso e sacrificio” quando poi anche la guerra rimane immobile e dura per sempre non c’è nulla di eroico della disfatta, della distruzione, nel massacro e nella disperazione. Hemingway si infila in quella paurosa terra di nessuno, dove le parole sono travolte con tutto il resto, e le rimette nelle mani dei suoi protagonisti che hanno così modo di esprimere tutta la lancinante natura del proprio dolore, come confessa Frederic Henry: “So che la notte non è come il giorno: che tutte le cose sono diverse, che le cose della notte non si possono spiegare nel giorno perché allora non esistono, e la notte può essere un momento terribile per la gente sola quando la loro solitudine è incominciata”. Addio alle armi è una porta aperta sul ventesimo secolo perché soltanto i romanzi, certi romanzi, dicono la verità e questo, anche nel suo volitivo essere, non concede nulla perché “non troviamo mai niente. Siamo nati con tutto quello che abbiamo e non impariamo mai”. Hemingway single malt al 100%.