Gli scenari americani evocati da Homeland riportano alla repubblica di Weimar o all’anticamera di una seconda guerra civile americana. Corsi e ricorsi storici, coincidenze e cicli in effetti contribuiscono a somiglianze e paragoni per chi ha sempre bisogno di punti di riferimento. La realtà americana (e non solo) dopo l’11 settembre è, sì, frutto di storia e precedenti assortiti, ma è anche nuova, imprevedibile, inarrestabile. Le reazioni dello stato e del governo, la paura, una violenza endemica, i controlli orwelliani in nome della patria, l’atmosfera da Fahrenheit 451 dovuta alle incursioni nelle biblioteche), le censure radiofoniche di canzoni innocue, l’integralismo religioso sono tutti elementi (prevedibili) emersi in risposta all’11 settembre. Tutti contenevano, e contengono ancora, una dimensione che andava oltre lo scopo principale di trovare altri terroristi o impedire altre azioni distruttive. Erano volte a mantenere lo status quo, ad alimentare guerre non dichiarate e mai finite. Dale Maharidge non si lascia andare a facili giudizi politici e morali (anche se è molto chiaro da che parte sta): la sua ricostruzione è più legata ai fatti, a dati concreti, reali, ottenuti parlando con uomini e donne in locali da quattro soldi a notte fonda, quando hanno finito i turni dei loro doppi e tripli lavori. Una delle testimonianze raccolte da Dale Maharidge è essenziale ed esplicativa nella sua sintesi: “Non penso che sia giusto quello che è successo l’11 settembre. Ma guarda che cosa sta capitando a noi ora”. Nei loro discorsi (e nei volti fotografati da Michael Williamson) emerge la paura di non farcela a pagare i conti, a mantenere i figli, a tirare avanti, piuttosto che la paura del terrorismo o di un altro 11 settembre. Le due angosce non sono poi così diverse, anzi. La relazione è complessa e opinabile (finché si vuole) ma è anche una riflessione ineluttabile se si vuole comprendere l’America del ventunesimo secolo, dove sembra che la sospensione dei diritti costituzionali e, di fatto, uno stato d’emergenza e di guerra perenne stiano determinando la vita quotidiana e compromettendo il futuro in modo irreversibile. Il ricorso al patriottismo, a partire da un uso smodato e ossessivo del termine, dal Patriot Act all’idea stessa di Homeland cioè di patria, è volto a giustificare scelte ambigue e a nascondere la corruzione sistematica di un sistema di tutele e di convivenze civile. E’ lecito quindi confidare nella distinzione di Mark Twain, citato a proposito da Dale Maharidge, quando diceva che “il patriottismo significa essere sempre fedeli al proprio paese ed essere fedeli al proprio governo quando lo merita”. Quando i cittadini rimangono senza tutele e vengono reclutati per guerre lontane, di cui si è persa persino la cognizione dell’origine, la definizione di Homeland, di patria e di nazione, è tutta in una frase del padre di Dale Maharidge, a sua volta un veterano della seconda guerra mondiale: “Non ci sono eroi. Solo superstiti”. in mezzo a una valanga di bugie e dietrologie assortite, un salutare e concreto tuffo nella realtà.
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