lunedì 30 aprile 2012
Francis Scott Fitzgerald
sabato 28 aprile 2012
Dexter Filkins
In un manuale dei ribelli, Dexter Filkins trova una frase che lo colpisce: “La guerra è fatta di trucchi”. L’ha imparato vivendola in prima linea: giornalista “embedded”, come ha detto in un'intervista, Dexter Filkins è stato “una mosca sul muro” nei suoi anni tra le guerre in Afghanistan e (soprattutto) in Iraq. L’immagine rende alla perfezione l’idea dell’immobilità e della vulnerabilità della sua posizione, dove ha avuto il privilegio, se così si può chiamare, di vivere senza mediazioni o versioni differite, l’essenza della guerra. Ha sentito gli iracheni (sia i nemici, sia gli alleati) mentire agli americani e gli americani mentire a se stessi e se lo è segnato su almeno mezzo migliaio di taccuini mentre cercava di capire perché lui, per non dire un intero esercito, erano lì: “Non c'era dubbio che gli iracheni mentissero agli americani. Ma le bugie peggiori erano quelle che gli americani raccontavano a se stessi. Ci credevano perché faceva comodo, e perché non crederci era un pensiero troppo spaventoso”. Il paradosso è comprensibile in un conflitto senza quartiere (e certo non in senso metaforico), multiforme e parcellizzato dove la guerra ha separato persino la percezione del giorno e della notte. In un altro reportage dei colleghi del New York Times, il sergente David Safstrom diceva: “Stiamo aiutando gente che cerca di ammazzarci. Di giorno li aiutiamo e di notte ci voltano le spalle e cercano di ucciderci”. Affidarsi alle bugie, di fronte alla palese inutilità di ogni missione, è un modo per convincersi ad arrivare fino in fondo anche perché come scrive altrove Dexter Filkins “i giorni possono morire, ma i sogni esplodono” e in Iraq e in Afghanistan c’era già abbastanza roba che saltava per aria. Dexter Filkins l’ha vissuto in prima persona, e così l’ha riportato in Guerra per sempre. Ha corso nel crepuscolo di Baghdad e ha vissuto l’incubo di Falluja. Ha parlato con le autorità politiche, religiose e militari e ha rischiato di essere rapito, ucciso o ferito dal fuoco amico non meno di quello nemico come tutti in Afghanistan e in Iraq. Ha vissuto con i soldati e ha capito l'assurdità della guerra, del prepararsi alla guerra, del vivere la guerra quando glielo ha spiegato il capitano Sal Aguilar: “Quando ti addestri per questo, ci scherzi su, non vedi l’ora di viverlo nella realtà. Poi quando lo vedi, quando vedi com'è veramente, non lo vorresti rivedere più”. Il suo reportage è fatto così: viscerale, senza correzioni, quasi un diario di bordo, giorno per giorno, notte dopo notte, nel tentativo di scovare un’improbabile barlume di speranza, almeno di riuscire a respirare l’aria che rimane sopra la polvere. Non c’è niente di romanzesco, non c’è l’adrenalina della prima linea che da Hemingway in poi ha distinto la vita dei reporter, non c’è gloria e non ci sono eroi, come se Dexter Filkins avesse riletto le esperienze in Afghanistan e in Iraq solo alla luce della verità di Carl Von Clausewitz ovvero che “La guerra è un atto di violenza, e non si danno limiti alla manifestazione di tale violenza”. Tutto resto, che sia utile, politically correct o meno, è falso e superfluo.
venerdì 27 aprile 2012
A. M. Homes
Claire Roth, moglie, madre e analista con studio nel centro delle nevrosi mondiali (New York) riceve la richiesta di un appuntamento da Jody Goodman, venticinque anni, un inizio di carriera nell’evanescente tran tran delle produzioni cinematografiche. “Ho qualche problema a prendere delle decisioni sul mio futuro”, le dice per spiegare la sua necessità e A. M. Homes lascia galleggiare, non senza una certa classe, quella frase sibillina in cui c’è già tutto In un paese di madri. Per Claire Roth, qualcuno che guarda in avanti e non è prigioniero del proprio passato è già una rarità, se non proprio una fortuna, perché “lo vedeva tutto il giorno che cos’era la memoria per la gente: era il posto in cui si cristallizzavano le brutte sensazioni, i peggiori momenti di una vita, ripassati tante di quelle volte che diventavano lisci e duri come calli o vetri levigati dal mare”. Quando conosce l’insicura e tentennante Jody Goodman, nel rapporto professionale tra analista e paziente si insinua un dubbio che diventa via via una certezza e/o un’ossessione: Claire Roth si convince che Jody Goodman è la figlia che, un quarto di secolo prima, diede in adozione. La figlia che le costò l’allontanamento dalla famiglia, la figlia la cui assenza le insegnò a diventare ciò che è diventata, la figlia che le manca. La suggestione è troppo forte: Claire Roth (ribadire i cognomi in questa storia non è un vezzo, ma un modo per ribadire con precisione ruoli e distanze) si lascia trasportare dal desiderio, allo stesso tempo logico e assurdo, di ricollocare le sue scelte, di ritrovare un tempo perduto ed è l’anfitrione di una galleria di personaggi ipocondriaci, ipersensibili e confusi a cui l’analisi psicologica è appena appena sufficiente a disegnare i contorni della loro precaria percezione della realtà. A. M. Homes torna ancora su un tema autobiografico, quello dell’adozione, ed è innegabile che In un paese di madri sia ben architettato e abbia momenti di grande lirismo. Senza dubbio A. M. Homes è una scrittrice di talento, capace di rendere vivi i tormenti dei suoi personaggi e di trasmettere al lettore, attraverso le loro gesta, la sensazione di disorientamento, di fatica, di vuoto che li distingue. Va detto però che l’ambizione si contorce alla ricerca di una soluzione che il finale non porta. Tutta la costruzione della prima parte, la migliore, e i primi passaggi del terzo libro portano all’idea di un dramma con una svolta clamorosa e le aspettative sono tante, così come è alto il livello della suspense. Molte vengono rispettate, altre si sfilacciano nelle eccessive contorsioni psicologiche dei personaggi, da una parte, e in repentine semplificazioni dei loro caratteri (certi dialoghi piuttosto schematici sono il limite più evidente). Alla fine il lettore non vuole sapere soltanto se l’ossessione di Claire Roth corrisponde alla verità: A. M. Homes illumina bene l’aspetto istintivo e radicale dell’essere o non essere madre, ma proprio sul piano narrativo lascia così, in sospeso, la differenza e chiuso In un paese di madri non si capisce se è finito oppure no.
mercoledì 25 aprile 2012
Stephen King
Anche come saggista Stephen King non rinuncia alla sua verve, alla sua dimensione autobiografica e soprattutto alle sue passioni, le storie dell’orrore e del fantastico. Il racconto di Stephen King attraverso il cinema, la televisione (“Chiudete gli occhi, però, mentre danzeremo attraverso il tubo catodico; ha la brutta abitudine di ipnotizzare e poi di anestetizzare”) e la narrativa (con un continuo richiamo al rock’n’roll, e non è male la sua visione di Ramones e Sex Pistols come di un “ritorno al futuro”) è personalissimo, sempre disposto alla divagazione, convincente e colto. Cita, tra gli altri, Hunter Thompson, Joan Didion, Richard Matheson, Harlan Ellison, Henry James e l’elenco è molto lungo e articolato: Stephen King è un lettore attento alle singole peculiarità di ogni narratore, di cui ha modo di sfogliare i romanzi, sapendo che il minimo comune denominatore è che “la narrativa è fatta di bugie su bugie” e in fondo “il romanzo è la verità dentro la bugia, e nella storia dell’orrore, così come in qualsiasi altra storia, la stessa regola vale oggi così come valeva al tempo in cui Aristofane raccontò la sua storia dell’orrore sulle rane: la moralità è dire la verità come il tuo cuore la intende”. Danse Macabre sembra più una lunga confessione, in questo speculare e complementare a On Writing, una florida dichiarazione di intenti, un omaggio ai suoi maestri e insieme una continua precisazione della necessità e dell’utilità dell’orrore e del fantastico. Senza tentativi di aggrapparsi a un’elevazione particolare, che non è e non sarà indispensabile: il suo è un gusto pop, inteso nell’originaria contrazione di popular, e dal un punto di vista estetico, è facile condividere l’idea per cui “l’orrore davvero diventa una danza, una ricerca continua, ritmica. Ed è alla caccia del luogo dove tu, lettore o spettatore, vivi al tuo livello primitivo”. Il suo scopo, pur nelle svariate forme ed espressioni che assume è una sorta di elaborato esorcismo (“Costruiamo orrori per aiutare a convivere con gli orrori del reale”) e, nella candida ammissione di Stephen King, anche un modo per riciclare la nostalgia perché “l’immaginazione è un occhio, un meraviglioso terzo occhio che fluttua in libertà. Da bambini, quell’occhio ha una vista di dieci decimi. Man mano che cresciamo, essa comincia a offuscarsi… E un giorno il tizio accanto alla porta ti lascia entrare nel bar senza chiederti alcun documento di identità; e se vuoi capire capisci: ormai sei dall’altra parte. E’ negli occhi. Qualcosa che è nei tuoi occhi. Guardateli nello specchio e dimmi se sbaglio. Il lavoro dello scrittore del fantastico, o dello scrittore dell’orrore, è di allargare temporaneamente le pareti di quella visione a tunnel; di fornire quel terzo occhio di una singola, potente lente. Il lavoro dello scrittore del fantastico o dell’orrore è di farti tornare temporaneamente bambino”. La ripetizione dell’avverbio rafforza l’idea della Danse Macabre: un viaggio verso quel tempo in cui le storie (e non solo dell’orrore e del fantastico) dominano su tutto e tutti.
giovedì 19 aprile 2012
Francisco Goldman
L’equipaggio di una nave viene reclutato a Managua mettendo insieme le speranze e le illusioni di un gruppo composito di disperati di varia forma e natura. I personaggi vanno da un giovane reduce della guerra contro i contras (Esteban, che è anche il protagonista del romanzo, per quanto non dichiarato) ad un vecchio lupo di mare, Bernardo. La nave, l’imbarco, il viaggio in aereo verso il porto di New York danno adito ad un’infinità di sogni, coltivati con grande passione che però vengono ben presto ridimensionati e poi trasformati in un vero e proprio incubo dalla realtà dei fatti. La Urus, questo il nome della nave su cui s’imbarca la piccola e assortita armata Brancaleone, è poco più di un relitto, batte una bandiera di comodo (Panama), ha un armatore fantasma ed è sotto il comando di due strane ed evanescenti figure, il capitano Elias e il suo alter ego, Mark Bare. La nave non prenderà mai il largo e i marinai si troveranno, loro malgrado, ad affrontare un'infinita serie di privazioni, umiliazioni e difficoltà: un fallimento su tutti i fronti, ancorati davanti alle mille luci scintillanti del sogno americano. Prendendo spunto da un fatto realmente avvenuto, Francisco Goldman confeziona un voluminoso romanzo di quattrocento pagine utilizzando un linguaggio scarno, ricco di informazioni tecniche e di particolari suggestivi, ritraendo in maniera complessa e definita l’immagine di una sconfitta che ha molte facce. Quella di New York, una città in cui i marinai dimenticati non possono nemmeno rischiare di avventurarsi. Un approdo che è anche un vicolo cieco. Quella del Nicaragua e in generale di tutto il Sud America che, nonostante anni di soprusi e di invasioni, continua a guardare agli Stati Uniti come alla terra promessa. Quella di una nave e di un equipaggio utilizzati soltanto per una truffa destinata, in modo clamoroso, a finire nel nulla. L’equipaggio dimenticato parte da una situazione vagamente kafkiana e surreale per ricostruire una rete di rapporti umani in cui, nonostante le evenienze, la solidarietà non è scomparsa. Con poche pretese letterarie, e forse è meglio così e non soltanto perché è based on a true story. Con molta cognizione di causa, Francisco Goldman riesce nella non facile impresa di raccontare l’immobilità, l’incertezza (a tutti i livelli, dallo status sociale e politico dell’equipaggio alla difficoltà di mettere insieme un decente pasto quotidiano), la vulnerabilità di uomini attratti da una speranza non fosse altro che un lavoro duro, diffile, pericoloso e mal pagato. Un lavoro minuzioso e accurato sui dettagli, sulla scansione impercettibile, sulle condizioni di vita a bordo, dove l’unica possibilità è la condivisione di un destino comune. Soprattutto tra i membri dell’equipaggio e tra quei personaggi che, a differenza dei loro sfruttatori, non hanno mai conosciuto il sapore di una vittoria se non nel calore di un legame, per quanto circoscritto della paratie di un relitto galleggiante. Qualcosa in più di un bel romanzo.
lunedì 9 aprile 2012
Jack Kerouac
La leggenda di Duluoz è un corpo celeste dalla traiettoria complicata nell’universo di Jack Kerouac, di suo già abbastanza espanso e articolato. E’ a tutti gli effetti una selezione antologica e tutti i suoi romanzi (da Il dottor Sax e Tristessa a Visioni di Cody fino all’onnipresente Sulla strada) sono rappresentati in modo più che dignitoso da altrettanti spezzoni. E’ altrettanto chiaro che i vari segmenti non hanno l’assoluto bisogno di essere raccordati tra loro visto che, a detta dello stesso Kerouac, La leggenda di Duluoz è un libro assemblato perché chiunque “se lo porti in giro e lo legga a suo piacere”. L’indicazione, in sé, è autosufficiente e non c’è dubbio che la particolarità delle scelte su cui si basa Le leggenda di Duluoz sia in armonia con le concezione stessa che Kerouac aveva della letteratura e della sua scrittura visto che ha sempre considerato la sua opera come “un unico grosso libro” che raccontasse “il mondo dell’agire furioso e della follia e anche della dolcezza soave, visto attraverso il buco della serratura che è il suo occhio”. Ora, se è vero che La leggenda di Duluoz risponde a una necessità antologica e riepilogativa, è più difficile dire se corrisponda alle vere intenzioni (e ambizioni) di Kerouac cioè di dare un’unità proustiana alla propria narrativa. La scintilla da cui è cominciata la genesi di tutta La leggenda di Duluoz, come spiegava lo stesso Jack Kerouac, è quella: “Quando sarò vecchio voglio radunare tutti i miei libri e reinserirvi il mio Pantheon di nomi uniformi, abbandonare al suo destino quel lungo scaffale pieno di volumi e morire felice. L’opera completa forma un’enorme commedia, vista attravrso gli occhi del povero Ti Jean (io) altrimenti noto come Jack Duluoz”. Gioca a suo favore la concentrazione di alcuni dei suo passi più significativi che, accostati gli uni agli altri, danno l’idea della forza e dell’espressività della scrittura di Kerouac e della sua idea di letteratura intesa come “una storia raccontata per tenere compagnia e per insegnare quello che c’è di religioso, di reverenza religiosa, nella vita reale, in questo mondo reale che la letteratura dovrebbe riflettere (e qui lo fa)”. Resta in fatto, non irrilevante, che La leggenda di Duluoz, così come ci è appare, è, nonostante la voluminosa sostanza, un’infinitesima parte del continuum evocato da Jack Kerouac. Il paradosso è che La leggenda di Duluoz funziona proprio perché è incompleta, almeno rispetto alle aspirazioni iniziali. E’ la sintesi di un sogno, che rimane là, infinito viaggio, ormai giunto alle porte del mito. E’ un po’ un limite vedere miscelate atmosfere distanti e diverse (Angeli di desolazione accanto a I sotterranei, giusto per fare un esempio), ma seguendo le scarne indicazioni di Jack Kerouac e con un decisivo sforzo dell’immaginazione si può benissimo percepire La leggenda di Duluoz come un libro e un romanzo con una propria identità. Più difficile dire se valga il prezzo da pagare anche se la bellissima copertina resta un invito allo spreco.
mercoledì 4 aprile 2012
William Least Heat-Moon
martedì 3 aprile 2012
Edith Wharton
Come tutti, Hubert Granice “voleva viaggiare e scrivere, questi erano i suoi desideri”, ma poi c’è qualcosa nella vita, quella roba che chiamiamo realtà, che trasforma l’illusione in disperazione, finché non ci si trova davanti quella che Edith Wharton chiama, con mille ragioni, La porta sbarrata. L’unico difetto, in questo racconto che sfiora la perfezione, è che (forse) nel titolo andava usato il plurale perché di porte sbattute in faccia Hubert Granice ne trova più di una. La sua ambizione principale, diventare un grande autore teatrale, è stata stroncata dai rifiuti degli impresari, dalla “stupida stampa” e dal pubblico che non si è presentato all’appello. Un po’ anche dall’indecisione con cui ha affrontato la non relativa questione dello stile visto che “aveva provato tutti i genere: commedia, tragedia, prosa e poesia, farsa leggera, dramma breve e tagliente, realismo borghese e romanticismo lirico”, sempre con gli stessi, miseri risultati. Sempre più convinto di essere incompreso, Hubert Granice investe diecimila dollari dell’eredità avuta da un lontano ed eccentrico parente per mettere in scena, a sue spese, l’ultima delle sue invenzioni operistiche, La riva sottovento (soltanto il titolo chiede giustizia) che si trasforma, neanche a dirlo, nell’ennesimo e memorabile fiasco, tanto che il bistrattato autore deve fuggire in Europa “per scappare dalle frasi di cordoglio dei suoi amici”. L’ossessione che porta al fallimento è anche il fallimento dell’ossessione perché Hubert Granice non riesce nemmeno a confessare di essere un’omicida. Da una parte, è evidente, gli mancano le basi essenziali del narratore perché anche nel tentativo di autodenunciarsi lascia incredibili lacune nella sua storia. D’altra parte ad ascoltarlo c’è una borghesia decadente, immobile, con i suoi sigari e i suoi whisky & soda scolati tra pareti foderate di libri. Una rete di poteri, dal giudice al medico al direttore del giornale decide ciò che è vero da ciò che non lo è. La cernita è spietata e Hubert Granice, già affetto dalla malinconica sindrome dello sconfitto, non resta che subire, una condizione in cui gli altri decidono il suo destino, in un misto di cordialità e cortesia, buone maniere e ipocrisia a cui si deve accodare perché comunque “era più facile dare corpo ad automatiche convenzioni sociali, piuttosto che rivelare a un occhio umano l’abisso che aveva dentro”. Più che prevedibile, il finale è ineludibile: per Edith Wharton un buon racconto è “una lancia conficcata nel cuore dell’esperienza umana. La sua arte si basa sull’attenta selezione e sull’incastro di dettagli che culminano in un lampo di intuizione”, e La porta sbarrata sembra costruito parola dopo parola proprio tenendo presente la sua direttiva. Particolari incisi con il bisturi, dialoghi tagliati con un rasoio, personaggi il cui profilo viene affilato passo per passo, e soprattutto l’impressione nel tono autorevole di Edith Wharton che la storia sia soltanto una traduzione di un destino già scritto.