Come tutti, Hubert Granice “voleva viaggiare e scrivere, questi erano i suoi desideri”, ma poi c’è qualcosa nella vita, quella roba che chiamiamo realtà, che trasforma l’illusione in disperazione, finché non ci si trova davanti quella che Edith Wharton chiama, con mille ragioni, La porta sbarrata. L’unico difetto, in questo racconto che sfiora la perfezione, è che (forse) nel titolo andava usato il plurale perché di porte sbattute in faccia Hubert Granice ne trova più di una. La sua ambizione principale, diventare un grande autore teatrale, è stata stroncata dai rifiuti degli impresari, dalla “stupida stampa” e dal pubblico che non si è presentato all’appello. Un po’ anche dall’indecisione con cui ha affrontato la non relativa questione dello stile visto che “aveva provato tutti i genere: commedia, tragedia, prosa e poesia, farsa leggera, dramma breve e tagliente, realismo borghese e romanticismo lirico”, sempre con gli stessi, miseri risultati. Sempre più convinto di essere incompreso, Hubert Granice investe diecimila dollari dell’eredità avuta da un lontano ed eccentrico parente per mettere in scena, a sue spese, l’ultima delle sue invenzioni operistiche, La riva sottovento (soltanto il titolo chiede giustizia) che si trasforma, neanche a dirlo, nell’ennesimo e memorabile fiasco, tanto che il bistrattato autore deve fuggire in Europa “per scappare dalle frasi di cordoglio dei suoi amici”. L’ossessione che porta al fallimento è anche il fallimento dell’ossessione perché Hubert Granice non riesce nemmeno a confessare di essere un’omicida. Da una parte, è evidente, gli mancano le basi essenziali del narratore perché anche nel tentativo di autodenunciarsi lascia incredibili lacune nella sua storia. D’altra parte ad ascoltarlo c’è una borghesia decadente, immobile, con i suoi sigari e i suoi whisky & soda scolati tra pareti foderate di libri. Una rete di poteri, dal giudice al medico al direttore del giornale decide ciò che è vero da ciò che non lo è. La cernita è spietata e Hubert Granice, già affetto dalla malinconica sindrome dello sconfitto, non resta che subire, una condizione in cui gli altri decidono il suo destino, in un misto di cordialità e cortesia, buone maniere e ipocrisia a cui si deve accodare perché comunque “era più facile dare corpo ad automatiche convenzioni sociali, piuttosto che rivelare a un occhio umano l’abisso che aveva dentro”. Più che prevedibile, il finale è ineludibile: per Edith Wharton un buon racconto è “una lancia conficcata nel cuore dell’esperienza umana. La sua arte si basa sull’attenta selezione e sull’incastro di dettagli che culminano in un lampo di intuizione”, e La porta sbarrata sembra costruito parola dopo parola proprio tenendo presente la sua direttiva. Particolari incisi con il bisturi, dialoghi tagliati con un rasoio, personaggi il cui profilo viene affilato passo per passo, e soprattutto l’impressione nel tono autorevole di Edith Wharton che la storia sia soltanto una traduzione di un destino già scritto.
Nessun commento:
Posta un commento