sabato 31 dicembre 2011
Hubert Selby Jr.
Henry Miller
Tom Robbins
venerdì 30 dicembre 2011
Cormac McCarthy
giovedì 29 dicembre 2011
William Burroughs
“Lieto di averti a bordo lettore, ma ricordati che questa sotterranea ha soltanto un capitano”: la precisazione è quanto mai utile, visto che il comandante si chiama William Burroughs. Sono passati soltanto due anni dalla pubblicazione del Pasto nudo, un romanzo rivoluzionario e infinito, e con La macchina morbida William Burroughs inaugura la cosiddetta Nova Trilogy (che coprende anche Il biglietto che è esploso e Nova Express) dopo sublima la sua stessa visione della scrittura con un altro balzo visionario nel tempo e nello spazio. Ricordava Gregory Corso: “William (Burroughs) si serviva del suo materiale altamente volatile, dei suoi testi inimitabili che sottoponeva a tagli implacabili. Era sempre il più deciso della compagnia. Nulla riusciva a turbarlo”. Difficile dargli torto: la trama poliziesca e il detective protagonista in La macchina morbida sono falsi nel senso che sono immagini in “una città di film in bianco e nero strade che sbiadiscono con migliaia di volti corrosi dal fumo. Figure del mondo rallentano fino ad essere catatonico calcare”. L’apocalittico panorama serve a spiegare perché “la parola non viene usata per il suo significato, ma come immagine” in un vortice spietato dove l’idea geniale del cut-up, alla base del Pasto nudo, si completa con il fold-in. Tagliare le connessioni tra le parole per scoprire la verità. Piegarle per viaggiare nel tempo, come spiega lo stesso William Burroghs: “Quando si scorre un giornale come fa la maggior parte di noi si vede assai più di quanto non si creda. Per essere esatti si vede tutto ad un livello subliminale. Quando ripiego il giornale di oggi con quello di ieri e sistemo le immagini in modo da formare un montaggio del tempo, ritorno letteralmente indietro al momento in cui ho letto il giornale di ieri, cioè viaggio a ritroso nel tempo verso ieri”. Il processo è tanto semplice da sembrare banale, se letto in una prospettiva convenzionale. Anche Norman Mailer subì l’abbaglio, pensando ancora alla scrittura e alla letteratura in termini lineari e temporali. William Burroughs vedeva invece le sue applicazioni secondo coordinate spaziali, più istintive che razionali, più legate alla percezione che alla cognizione. Non è un caso, anzi è la prova tangibile, che La macchina morbida e tutta la Nova Trilogy ispireranno plotoni di musicisti più che di scrittori: da Patti Smith fino a David Bowie che ne recupererà tecniche e idee ancora sul finire del ventesimo secolo (nonché i Soft Machine, che dal romanzo prenderanno persino il nome) le intuizioni di William Burroughs si sono evolute in strumenti di composizione adattabili a tutti i processi creativi, dal songwriting ai videoclip. Chissà cosa sarebbe successo, se avesse avuto a disposizione il mondo digitale di oggi all’epoca della Nova Trilogy visto che diceva: “Sono un agente pubblico e non so per chi lavoro, prendo istruzioni da segnali stradali, da giornali e da brani di conversazioni che strappo dall’aria come un avvoltoio che porti via interiora da un’altra bocca”. Un classico che è ancora un rivelazione.
Sandra Cisneros
mercoledì 28 dicembre 2011
William Faulkner
martedì 27 dicembre 2011
Jennifer Egan
Gustav Hasford
Quello di Nato per uccidere è uno di quei casi fortunati in cui la riduzione cinematografica ha saputo leggere con precisione e fedeltà lo spirito originario della storia. Il merito va senza dubbio a Stanley Kubrick (e a Michael Herr) che nel trasformare Nato per uccidere in Full Metal Jacket ha accentuato la divisione e insieme il collegamento tra i due tempi, un passagio in cui diventa evidente che la deformazione del linguaggio prelude alla rarefazione dell’umanità. Nella prima parte di Nato per uccidere la violenza è compressa nella sintassi sgranata, nel continuo battibecco di volgarità. E’ quasi espressionista, con quel gergo militare che contagia e corrompe tutte le comunicazioni, deforma le parole, traccia un confine preciso verso un altro mondo con una lingua monca, gutturale, crudele. A Parris Island, il campo di addestramento dove tutto comincia, non serve molto altro perché “i marines muoiono, siamo qui per questo” e l’identità omicida e suicida comincia proprio da lì, da un linguaggio che è una forma estrema di esclusione ed emarginazione. Per questo Nato per uccidere non ha alcuna bellezza stilistica, almeno secondo i canoni e le consuetudini normali: la sua forma è un patois gorgogliante che la sua massima espressione in frasi che sono pugni sferrati nell’aria. “Il Vietnam mi può ammazzare, ma non può appassionarmi. Non me ne fregherà mai niente. Voglio solo tornarmene a casa tutto d’un pezzo. E’ il minimo che devo a me stesso” dice uno dei protagonisti di Nato per uccidere, la cui forza è tutto in quello che vede e mostra. Nella seconda metà, è un’esplosione di ferocia incisa a tratti vividi e spietati nell’elencare le mutilazioni, le viscere, le esplosioni, i corpi che è “impossibile determinare a quale esercito appartenessero”. E’ con un distacco quasi impressionista che Gustav Hasford descrive i macelli quotidiani, ovvero dove le aberrazioni linguistiche trovano un’applicazione pratica. I marines la usano per affrontare i duri giorni del Tet nel 1968 e così raccontano come hanno affrontato una delle più dure battaglie di quei giorni: “Con saggezza salomonica, abbiamo fatto di Hué un ammasso di macerie, al fine di salvarla”, paradosso che tornerà con una certa frequenza nelle guerre americane da lì in poi. La disperazione non serve soltanto a giustificare qualcosa che non si può giustificare. E’ anche un modo per accorgersi in quale valle di tenebre si è trasformato il Vietnam, un posto dove le parole diventano persino imbarazzanti perché rivolte in una direzione impossibile, come confessa Joker: “Parlare ai morti non è sensato e a un vivo gli conviene non prenderci il vizio. Ma ultimamente a me capita spesso di parlare ai morti. Mi sa che ci parlo, coi morti, fin da quando compii la mia prima uccisione accertata. Confirmed kill è il termine che usiamo. Ebbene, dopo la mia prima uccisione accertata, parlare ai cadaveri ha cominciato a essere più logico, per me, che non parlare con chi non è ancora stato fatto secco”. “Nowhere to run, nowhere to go”: nessuno tornerà più a casa.
sabato 24 dicembre 2011
giovedì 22 dicembre 2011
Robert Olen Butler
I cento figli del Drago è il ritratto dell’altra faccia della sconfitta della guerra del Vietnam: il disorientamento, l’alienazione, la disperazione dei profughi che si sono dovuti trasferire in America, sparsi in particolare tra le coste del Texas e della Louisiana. Le loro storie sono più legate ai fantasmi che alla realtà, molto simile tra America e Vietnam: gli affari sono affari, la famiglia è la famiglia, la fede è la fede. Quello che cambia è quella sensazione di vuoto, il buio alle spalle, il debito della memoria che non sarà mai saldato, l’incubo di un presente infinito e di un futuro che rimane un’incognita. E’ il protagonista di Fiaba, affascinato dalla parola upon a comprendere la vacua dimensione del tempo, con l’idea salirci sopra e “cavalcarlo senza sapere dove di porta, né se ti farà cadere dalla groppa”. Il tono, colto alla perfezione da Robert Olen Butler, è un pericolante equilibrio tra il mondo incantato delle leggende, servite da una lingua che bada più all’intonazione che alla grammatica, e gli eventi drammatici della guerra, vissuti in Vietnam o riportati in America. I cento figli del Drago sono l’ultimo lascito del conflitto, veterani senza aver combattuto, reduci da un fronte lontano, su un altro continente, divisi dalla propria terra da un oceano. Vivono da fantasmi e con il ricordo di fantasmi perché come scrive uno dei protagonisti di Lettere da mio padre “il mondo intero è stato tradito”. Sono stranieri e lo sarebbero anche nella loro terra, dopo la guerra. Una condizione di esilio che li obbliga a sprofondare nei propri pensieri, come succede al protagonista di A braccia aperte: “Tanto il desiderio quanto una forte fede possono portare all’infelicità. Io riesco a stare seduto per ore e ore, dal tardo pomeriggio fino a notte fonda, senza sentirmi obbligato a guardare, ascoltare o fare qualcosa”. Vale anche la storia di Amore, dove un marito tradito si vendica degli amanti spacciandoli per bersagli all’aviazione americana. Questo in Vietnam, dove la guerra permetteva tutto, in America è diverso e lui stesso si trasforma in una vittima della sua gelosia. E’ la stessa condizione che si ritrova nella confessione del protagonista in Il viaggio di ritorno: “Quando infine qualcosa mi si ripresenterà alla memoria, si tratterà magari di un’auto di lusso appesa a una gru o del muro appena ridipinto di una nuova lavanderia o del tenue ronzio di una sveglia accanto al letto. Dentro di me, in segreto, potrei essere disposto a tradire tutto ciò che sono convinto di amare di più”. Caso più unico che raro, I cento figli del Drago riesce a trasformare le sofferenze e le inquietudini dell’esilio in temi affascinanti, come sintetizza il protagonista di Metà autunno: “Ho avuto la mia notte sulla luna e, quando sono ridiscesa lungo l’arcobaleno, anche il mondo che ho trovato era buono. Purtroppo non c’è ritorno, ma possiamo sempre accendere una lanterna e, guardando nel cielo della notte, ricordare”. E’ l’ultimo appiglio e, in fondo, l’unica nota di speranza.
lunedì 19 dicembre 2011
Kurt Vonnegut
lunedì 12 dicembre 2011
Jim Harrison
venerdì 9 dicembre 2011
Seymour Hersh
lunedì 5 dicembre 2011
Flannery O’Connor
Quello che affronta Flannery O’Connor è un territorio marcato da punti di domanda affilati come filo spinato, una zona di frontiera che viene riassunta con queste mirabili parole: “Quando parliamo della terra dello scrittore, siamo inclini a dimenticarci che, qualunque terra sia, essa è dentro come fuori di lui. L’arte richiede un delicato adattamento tra il mondo esteriore e quello interiore, in modo che, senza snaturarsi, possano essere l’uno il riflesso dell’altro. Conoscere se stessi è conoscere la propria regione. E’ anche conoscere il mondo ed è altresì, paradossalmente, una forma di esilio dal mondo. Il valore dello scrittore si perde, per sé e per la sua terra, non appena cessa di considerarla come una parte di sé, e conoscere se stessi è, soprattutto, conoscere quello che manca”. Non è un territorio facile, non lo è mai stato, in più Flannery O’Connor ci aggiunge una meticolosità tutta sua nell’affrontare l’arte della scrittura e le sue evoluzioni, senza nascondersi nulla: “Le forme artistiche si evolvono fino a raggiungere la perfezione ultima, o uno stato di fossilizzazione, oppure finché non viene innestato un nuovo elemento e creata una nuova forma artistica. Ma qualunque sia stato il passato della narrativa o quale sarà il suo futuro, allo stato presente un brano di narrativa deve essere un’unità drammatica autosufficiente”. Se queste sono le fondamenta, e dovrebbero esserle sempre, Flannery O’Connor ha una concezione particolare del rigore che non è fatto di imposizioni formali, di costruzioni e di norme. E’ una sorta di assoluto morale che si traduce in una continua sfida con la scrittura, un confronto ideale serrato e mai pedante che non lascia niente al caso. E’ lapidaria e intransigente sulla prima e unica linea di demarcazione: “Base dell’arte è la verità, nella sostanza come nella forma. Chi nella propria opera persegue l’arte, persegue la verità. In senso immaginativo, né più né meno”. E’ la disposizione nei confronti della scrittura e della lettura, ancora prima dell’atto in sé, a formare l’identità di uno scrittore e di un lettore e Nel territorio del diavolo, Flannery O’Connor la rende evidente in modo progressivo e convincente: “La mente che sa capire la buona narrativa non è di necessità quella istruita, ma la mente sempre disposta ad approfondire il proprio senso del mistero attraverso il contatto con la realtà, e il proprio senso della realtà attraverso il contatto con il mistero. La narrativa dovrebbe essere oculata e occulta”. Nel territorio del diavolo ha il sorprendente pregio di rendere limpida la visione di Flannery O’Connor. E’ l’accettazione di un mistero che ha sempre del prodigioso perché “chi è senza speranza non solo non scrive romanzi ma, quel che più conta, non ne legge. Non ferma a lungo lo sguardo su nulla, perché gliene manca il coraggio. Il miglior modo per piombare nella disperazione è rifiutare ogni tipo di esperienza, e il romanzo è senz’altro un modo di fare esperienza”. Un manuale di sopravvivenza.