I cento figli del Drago è il ritratto dell’altra faccia della sconfitta della guerra del Vietnam: il disorientamento, l’alienazione, la disperazione dei profughi che si sono dovuti trasferire in America, sparsi in particolare tra le coste del Texas e della Louisiana. Le loro storie sono più legate ai fantasmi che alla realtà, molto simile tra America e Vietnam: gli affari sono affari, la famiglia è la famiglia, la fede è la fede. Quello che cambia è quella sensazione di vuoto, il buio alle spalle, il debito della memoria che non sarà mai saldato, l’incubo di un presente infinito e di un futuro che rimane un’incognita. E’ il protagonista di Fiaba, affascinato dalla parola upon a comprendere la vacua dimensione del tempo, con l’idea salirci sopra e “cavalcarlo senza sapere dove di porta, né se ti farà cadere dalla groppa”. Il tono, colto alla perfezione da Robert Olen Butler, è un pericolante equilibrio tra il mondo incantato delle leggende, servite da una lingua che bada più all’intonazione che alla grammatica, e gli eventi drammatici della guerra, vissuti in Vietnam o riportati in America. I cento figli del Drago sono l’ultimo lascito del conflitto, veterani senza aver combattuto, reduci da un fronte lontano, su un altro continente, divisi dalla propria terra da un oceano. Vivono da fantasmi e con il ricordo di fantasmi perché come scrive uno dei protagonisti di Lettere da mio padre “il mondo intero è stato tradito”. Sono stranieri e lo sarebbero anche nella loro terra, dopo la guerra. Una condizione di esilio che li obbliga a sprofondare nei propri pensieri, come succede al protagonista di A braccia aperte: “Tanto il desiderio quanto una forte fede possono portare all’infelicità. Io riesco a stare seduto per ore e ore, dal tardo pomeriggio fino a notte fonda, senza sentirmi obbligato a guardare, ascoltare o fare qualcosa”. Vale anche la storia di Amore, dove un marito tradito si vendica degli amanti spacciandoli per bersagli all’aviazione americana. Questo in Vietnam, dove la guerra permetteva tutto, in America è diverso e lui stesso si trasforma in una vittima della sua gelosia. E’ la stessa condizione che si ritrova nella confessione del protagonista in Il viaggio di ritorno: “Quando infine qualcosa mi si ripresenterà alla memoria, si tratterà magari di un’auto di lusso appesa a una gru o del muro appena ridipinto di una nuova lavanderia o del tenue ronzio di una sveglia accanto al letto. Dentro di me, in segreto, potrei essere disposto a tradire tutto ciò che sono convinto di amare di più”. Caso più unico che raro, I cento figli del Drago riesce a trasformare le sofferenze e le inquietudini dell’esilio in temi affascinanti, come sintetizza il protagonista di Metà autunno: “Ho avuto la mia notte sulla luna e, quando sono ridiscesa lungo l’arcobaleno, anche il mondo che ho trovato era buono. Purtroppo non c’è ritorno, ma possiamo sempre accendere una lanterna e, guardando nel cielo della notte, ricordare”. E’ l’ultimo appiglio e, in fondo, l’unica nota di speranza.
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