giovedì 28 aprile 2011
James Sallis
mercoledì 27 aprile 2011
Jack Ritchie
Robert Stone
martedì 26 aprile 2011
Delmore Schwartz
Chester Himes
Soldi neri & ladri bianchi vede i protagonisti preferiti di Chester Himes, Coffin Ed e Grave Digger, alle prese con un caso particolare e delicato. Qualcuno ha fatto sparire i soldi raccolti da una congregazione nelle strade di Harlem per pagare il viaggio del ritorno in Africa. I due “duri” si trovano così a dover inseguire i rapinatori (bianchi) che hanno derubato i fondi l’agognata traversata verso le radici, ma anche i mistificatori (neri) che su quella storia si sono inventati un gigantesco affare. La valutazione di Chester Himes è implicita e prende forma mentre Coffin Ed e Grave Digger vanno su e giù per le strade di Harlem, tra una battuta e l’altra, diventa evidente che “la vita potrebbe essere fantastica, ma ci sono dei delinquenti in giro” ma anche che rubare la speranza è peggio che far sparire un bottino. Attraverso le gesta di Coffin Ed e Grave Digger, più risoluti che mai, Chester Himes sfoggia tutto il suo sarcasmo e una lingua che prende dalla street life il vocabolario e il gergo, ma insieme mette sul piatto una fedele ricostruzione storica dell’utopia del ritorno in Africa, che da Marcus Garvey a Bob Marley è rimasta senza risposta. In particolare la vicenda di Marcus Garvey e della sua Black Star Line, la compagnia di navigazione che avrebbe fornito i mezzi e le rotte per tornare in Africa, è il tema in sottofondo a Soldi neri & ladri bianchi. Chester Himes non insiste su un riferimento esplicito, però l’accostamento è continuo e il tono senza inibizioni o paure. La cornice che sta attorno a Soldi neri & ladri bianchi è ancora la condizione degli afroamericani che Chester Himes rilegge così nell’intenzione di tornare in Africa: “Non avevano trovato una patria in America. Quindi guardavano all’Africa, di là dal mare, dove altri neri erano sia governati che governanti. Per loro l’Africa era una grande terra libera che avrebbero potuto chiamare orgogliosamente patria, perché là erano sepolte le ossa dei loro avi, là si trovavano le radici delle loro famiglie e là abitavano i discendenti di quei loro stessi avi, e questo li apparentava a loro per sangue e razza. Tutti devono credere in qualcosa, e a loro i bianchi d’America non avevano lasciato niente in cui credere”. A maggior ragione per la condizione femminile perché, come scrive Chester Himes, le donne: “Più di ogni altra cosa volevano sfuggire a una vita grigia; se non riuscivano a far parte della middle class e vivere in una grande casa nei sobborghi, allora volevano partire e tornare in Africa, dove sapevano che sarebbero state importanti”. Per Ed Coffin e Grave Digger non è soltanto una missione per ristabilire la giustizia e la legge (in fondo, sono anche degli sbirri) perché qualche dubbio lo nutrono anche loro. Anche se non si tirano indietro (come dice Grave Digger: “Sarà un bel casino spero solo che serva a qualcosa”) perché non possono star fuori dalla mischia, lasciano con un punto di domanda grosso quanto un continente: “Hai mai visto le navi che avrebbero dovuto riportarvi in Africa?”
Edward Allen
Lenny Bruce
martedì 19 aprile 2011
Henry James
giovedì 14 aprile 2011
Philip Roth
Nella tendenza crepuscolare di Philip Roth cominciata con L’animale morente, L’umiliazione si distingue per l’efficacia della misura e del ritmo stesso che la scrittura impone alla storia. Il “lungo viaggio nella notte” del suo protagonista, Simon Axler, è condensato in un romanzo dalle dimensioni ristrette che si evolve con sequenze elicoidali e proprio come una vite guida la trama senza la minima sbavatura. Bastano due soli cambi di scena sostanziali, molto precisi, e L’umiliazione arriva dritta al capolinea che a sua volta è l’ineludibile coup de théâtre che aleggia tra le righe fin dall’incipit. Questa non è scrittura. E’ chirurgia e Philip Roth, attraverso la crisi di Simon Axler, attore nel panico, affonda il bisturi in quella zona dei legami e delle relazioni umane in cui la finzione e la realtà si sfumano nella linea d’ombra dell’assurdo. Come scriveva uno dei protagonisti del teatro nel ventesimo secolo, Jean-Louis Barrault, “l’attore è colui il quale col suo movimento incide uno spazio e con il suono incide un silenzio. L’attore entra in uno spazio e deve raccontare. In realtà non è l’attore che recita ma è il pubblico che recita per lui. Egli è la sintesi di una storia. L’attore è un segno, un ponte fra la storia e il pubblico che vuole entrare nella storia”. Quando Simon Axler decide che il tempo del talento è scaduto perché “proprio ciò che prima aveva fatto di lui quel che era, adesso faceva di lui un pazzo”, la vita che fin lì ha vissuto diventa passato. Perde sua moglie, entra in un ospedale psichiatrico, non mangia più e si isola nel suo fallimento perché comunque “a un certo grado di infelicità, le provi tutte per spiegare cosa ti sta capitando, anche se sai che non spiegano nulla e che sono solo una filza di spiegazioni mancate”. L’arrivo di Peegen Mike Stapleford, figlia di amici d’infanzia (anche loro attori, va detto), ormai quarantenne e lesbica dichiarata scatena una metamorfosi per entrambi. La relazione che cominciano, consapevoli di vivere il momento e sicuri che nella vita conta solo “cercare tenacemente ciò che vuoi” e “smettere di cercare ciò che non vuoi più”, è incendiaria. Nonostante tutti gli avvisi, gli allarmi e i presagi Simon e Peegen non si pongono limiti e, anzi, usano il sesso senza inibizioni come un laboratorio emotivo. L’atto finale viene da solo: un colpo di ghigliottina, automatico e perfetto. Serve piuttosto tornare indietro un attimo, quando Simon Axler era ricoverato e “tutti gli altri sedevano in un cupo silenzio, interamente tesi e intenti a ripassare tra sé, nel lessico della psicologia pop o dell’oscenità da trivio o della cristiana sofferenza o della patologia paranoide, gli antichi temi della letteratura drammatica: incesto, tradimento, ingiustizia, crudeltà, vendetta, gelosia, rivalità, desiderio, perdita, disonore e lutto”. L’umiliazione è il riflesso delle tracce di tutti questi temi fatti roteare nell’aria da un giocoliere che non sbaglia niente, tanto che sembra un prestigiatore. Il migliore.
domenica 10 aprile 2011
Sherman Alexie
giovedì 7 aprile 2011
Kaye Gibbons
Ellen Foster è una ragazzina giovanissima a cui gli eventi della vita hanno messo in bocca un linguaggio duro, semplice e diretto e una visione complessiva della sua esistenza che definire realistica suona un po’ troppo semplice. Un padre violento e alcolizzato, la madre che gli muore nello stesso letto, un peregrinare (drammatico) da un tribunale a una famiglia adottiva, dalle nonne alla vita scolastica che non sempre è il posto migliore per crescere e dare un senso alla propria esistenza. Tutto ciò potrebbe far pensare a un lungo e triste grido di dolore, contornato dal caratteristico paesaggio southern, ma Kaye Gibbons non si ferma alla prima emozione e offre alla sua Ellen Foster la possibilità di rispondere, volta per volta, a tutte le avversità. Così, le inventa un suo personale linguaggio, ritmatissimo e scattante, quasi fosse un ragtime o un sincopatissimo blues e, attraverso questo, una via d’uscita, una sorta di libertà che si mostra attraverso i sogni, le idee, la difesa della propria, naturale innocenza. Il tema ricorrente è questo ed è proprio nella sua ripetitività l’unico neo: piuttosto che allargare l’inquadratura su Ellen Foster, Kaye Gibbons ha preferito ribadire, puntualizzare, ridefinire le cause delle sue reazioni, del suo crescere. Logica che viene ben espressa dalla stessa voce di Ellen Foster: “Sapete, se ci si racconta per un bel po’ di volte sempre la stessa storia, alla fine i racconti diventano storie diverse, e di solito ci si può illudere e dimenticare che si è iniziato con un’unica stagione solitaria di tutta una vita”. Con il succedersi delle versioni, il narrare di Kaye Gibbons passa attraverso un fluire ben più tagliente e spigoloso di Un rimedio per i sogni e L’amuleto della felicità, successivi a Ellen Foster. Ciò non vuol dire assolutamente che Ellen Foster sia un romanzo trascurabile (specie per chi ha una predilizione nei confronti delle scrittrici e scrittori sudisti come Walker Percy, William Faulkner, Flannery O’Connor e Eudora Welty) ma che va inquadrato nell’insieme del lavoro con cui Kaye Gibbons si è affermata come una delle principali narratrici americane contemporanee. All’epoca di Ellen Foster stava ancora cercando una sua voce e, dovendo trovarla per la protagonita del suo esordio, riuscì a scovarla nelle pieghe di una resistenza (prima femminile e poi umana) a tratti persino epica. Poi, oltre quest’urgenza espressiva e linguistica, ha trovato anche un vocabolario, più di una raffinatezza e un’attenzione molto dettagliata ai paesaggi, alle storie e ai dialoghi dei suoi personaggi. E’ diventata brava, e sarebbe anche ore che diventasse famosa e riconosciuta perché a differenza di tante colleghe e di molti mestieranti ha davvero colto l’essenza del raccontare, quell’arte con cui la vita di Ellen Foster e quella di tutti noi acquista un senso e una logica. Nella memoria, che non è un polveroso archivio di ricordi, ma il magazzino di motivi da cui escono gli amuleti e gli strumenti e le parole per non dimenticare un’altra volta, per ribellarsi, per vivere.
mercoledì 6 aprile 2011
Joyce Carol Oates
martedì 5 aprile 2011
Jerome Charyn
Jerome Charyn è uno dei pochi scrittori che hanno raccontato New York come l’ha cantata Lou Reed e come l’ha vissuta Miles Davis. Una sorta di mondo superiore, una Metropolis dove silenzio e rumore sono estremi che si dividono la vita quotidiana della città, un territorio dove tutto è possibile. I suoi romanzi sono costantemente ambientati della Big Apple, come se non ci fosse altro possibile scenario. Una città dove ogni giorno comincia con “piccoli schizzi di inchiostro di rame venefico” e che gli offre le quinte perfette per i personaggi picareschi e per le intricate storie noir che distinguono i suoi migliori romanzi. Soltanto con Morte di un re del tango Jerome Charyn ha provato a trasferire il suo mondo misterioso e colorito nella giungla colombiana, forse coadiuvato dall’amico Paco Ignacio Taibo II a cui, per inciso, è dedicato il libro. L’autore stesso conferma l’amicizia con lo scrittore spagnolo naturalizzato messicano, ma smentisce il suo intervento a favore di una trasferta sudamericana e gli si può credere perché i personaggi di Morte di un re del tango sono tipicamente e naturalmente di Jerome Charyn. Il percorso da New York alla Colombia è tortuoso e pieno di imprevisti: è una gold rush che permette a personaggi spietati di dettare legge e a Yolanda, l’eroina di Morte di un re del tango, di sfoderare tutta la sua grinta. Nel dettaglio, Jerome Charyn spiega così la situazione: “Tutta l’America Latina stava inseguendo una sola meta. El Dorado. La sete dell’oro. Non aveva importanza che quell'oro assumesse la forma di smeraldi, di cocaina, di banane, di alberi della gomma o di piccole pepite nel rio Amacayacu. I conquistadores avevano sognato l’El Dorado e fatto sorgere tra i brividi un intero continente, una terra perduta dell'oro”. Yolanda non ha grande scelta: o segue questi traffici, con tutto ciò che comporta, o rimane nel carcere di Harrington Hills dove le Hell Sisters, una gang femminile dai propositi tutt’altro che gentili, ha messo gli occhi su di lei, con intenzioni non proprio politically correct. Dalla padella alla brace: Yolanda è aiutata ad uscire legalmente, ma il pegno che dovrà pagare la porterà in Colombia. Il suo obiettivo è cercare un alleanza con il cugino Ruben Falcone, plenipotenziario del cartello della cocaina di Medellín per intervenire a difesa della foresta colombiana. I propositi ecologisti per cui si deve battere la portano nel mezzo di una lotta intestina di cui è difficile tracciare un profilo morale. Forse non serve nemmeno: Jerome Charyn è infatti a suo agio quando scrive in quella terra di nessuno dove la giustizia è un’opinione e se la Colombia non è esattamente il Bronx certe dinamiche sono simili, se non spietatamente uguali. La nota differente è che il ballo a cui tutti sono invitati è una metafora piuttosto colorita perché, come scrive Jerome Charyn “il tango è una questione di vita e di morte. I paisas non hanno prodotto altro, all’infuori di questa danza folle”. Per lui, è l’occasione di una trasferta languida e scoppiettante.