venerdì 31 dicembre 2010
Cormac McCarthy
William Least Heat-Moon
Prateria di William Least Heat-Moon somiglia a uno di quei manuali per pionieri che venivano distribuiti con generosità per popolare i trasferimenti verso il selvaggio West, con la differenza che in questo “reticolo” non si nasconde niente e non si vende nulla, non c’è alcun paesaggio “fantastico” in offerta speciale perché si tratta di una “topografia manuale della zona”. L’idea del reticolo e della profondità cercata in un quadrilatero del Kansas “è un bel modo di viaggiare: basta iniziare con una meta molto vicina, seguirla fino alla successiva rivelazione e continuare così finché le cose stesse non traccino una mappa, ovvero una sequenza di eventi che, invece di essere ben chiari davanti a sé prima di cominciare, si vedono solo a posteriori, ben ordinati in fila indiana dietro le spalle”. Si può credere che nasca da quella che Stephen Jay Gould definisce “curiosità minuziosa e infinita”, ma è lo stesso William Least Heat-Moon a rivelare, in fondo a Prateria, la sua genesi, che si è sviluppata più per istinto che con metodo, con un’idea semplice, breve e naturale: “Fa’ un piccolo viaggio di congiunzioni, di coincidenze, passa il tempo ad attraversare, o perlomeno a sfiorare, le latitudini e le longitudini altrui; e dal momento che non puoi occupare lo stesso posto degli altri nello stesso tempo, cerca di occupare lo stesso tempo nello stesso tempo”. L’appunto rivelatorio può apparire criptico una volta estrapolato dal contesto di Prateria ed è utile allora per comprenderne il “folklore” una definizione di un altro “compagno di viaggio” di William Least Heat-Moon, Joseph Brodsky: “La geografia combinata al tempo equivale al destino”. La sua essenza è anche in una domanda (e nella sua risposta) di Robert Penn Warren: “Che cos’è l’amore? Un altro nome per definirlo è conoscenza”. L’idealismo di William Least Heat-Moon dipende dalla stessa materia con cui sono fatti i miti americani della frontiera, del West, della strada, del territori, degli spazi che ricrea attraverso un diario di viaggio, una moltitudine di appunti in sequenze ravvicinate e riordinati con la grazia di un romanzo. Lo spirito di Prateria è racchiuso inoltre in una (bella) citazione di Ralph Waldo Emerson: “Noi viviamo in successioni, in divisioni, in parti, in particelle”. Ed è così che nasce un modello, uno stile, una forma, un vademecum per l’osservazione, il viaggio e la lettura che è stato in un certo senso, la nemesi di Strade blu: il vero racconto delle radici. La sua ricognizione è meticolosa e le citazioni letterarie, poste in epigrafe ai singoli capitoli, sono preziose e utili per sottolineare la natura delle fonti primarie a cui attinge William Least Heat-Moon, che ne riconosce anche i limiti perché, come scrive in uno dei passaggi centrali di Prateria “le biografie, la storia, la letteratura e tutte le arti sono, ancor più dell’autobiografia, pezzetti sparsi che, accostati, danno l’illusione della completezza: ne consegue che noi conosciamo le cose solo a brandelli”. Provare a metterli insieme, è la meta di Prateria.
Jason Starr
giovedì 30 dicembre 2010
Alistair MacLeod
lunedì 27 dicembre 2010
Sam Shepard
martedì 21 dicembre 2010
Jack Kerouac
Henry Miller
lunedì 20 dicembre 2010
Raymond Carver
E’ stato il narratore blue collar per eccellenza, se non altro perché ha sempre dichiarato di essere un fan di Tom Waits e Bruce Springsteen: biglietto da visita relativo, ma sono pochi gli scrittori che confessano la passione per il rock’n’roll e Raymond Carver, tra questi, è stato quello più vicino alla poesia e alla scrittura intesa come mezzo per scoprire qualcosa in più di una bella prosa, qualche short story toccante, un modo elegante per rappresentare la vita. Già, la vita. Durante il suo ultimo discorso pubblico, il 15 maggio 1988, Raymond Carver spiegò con la consueta coincisione e chiarezza quale fosse il rapporto che intendeva tra vita e scrittura, offrendo una delle regole fondamentali (e indispensabile) per sviscerarlo: “Fate attenzione allo spirito delle vostre parole, delle vostre azioni. E’ una preparazione sufficiente. Non c’è bisogno di altre parole”. Forse è per questo che i suoi racconti sono condensati fino all’osso (anzi “al midollo”) e che più andava avanti, più somigliavano a poesie, come la stupenda Bretelle in Il nuovo sentiero per la cascata o tutto Blu oltremare e sono soltanto due tra le dozzine di esempi possibili: la sua scrittura sembra la ricerca di una luce, di una verità, con un’attenzione religiosa, ma che a tutti gli effetti è un solido, logico attaccamento alla realtà. Introducendo con Tom Jenks, American Short Story Masterpieces, diceva infatti: “Vorremmo avanzare l’ipotesi che il talento, il genio, addirittura, sia anche il dono di vedere quello che tutti hanno visto, ma vederlo in modo più chiaro, da ogni lato”. C’è tutto Raymond Carver in quest’idea di arte: né fiction, né interpretazione della realtà, ma soltanto una visione più nitida, più chiara o, soltanto, diversa. Dentro questa luce (blue) vive e resiste la miriade di personaggi sempre in lotta per la sopravvivenza, con un dramma alla porta, con vite che sembrano non risolversi mai. Non c’è traccia di consolazione, non c’è alcun happy end, non ci sono eroi memorabili: i racconti di Raymond Carver vivono e si nutrono soltanto di parole che sono l’inizio, la fine e il mezzo con cui si può salvare qualcosa. Nessuno come lui ha raccontato la vita blue collar, il linguaggio monocorde e scarno della provincia americana (come di tutte le province), i piccoli e infinitesimi drammi di uomini e donne che non sanno più cos’è quella piccola cosa chiamata amore, centellinando le parole perché “in definitiva, le parole sono tutto che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste, con la punteggiatura nei posti giusti in modo che possano dire quello che devono dire nel modo migliore”. Sarebbe da spiegare a tutti quei pseudoscrittori che si dicono posseduti dal linguaggio (neanche fosse un demonio) e riempiono pagine su pagine, romanzi su romanzi, libri su libri, di un vuoto che è, appunto, un vuoto. Dovrebbero seguire la lezione di Raymond Carver perché c’è un mondo là fuori (o qui dentro) che nel suo quotidiano tirare avanti offre una storia più bella dell’altra: “Presto dentro, presto fuori. Niente indugi. Avanti”. Indimenticabile.
venerdì 17 dicembre 2010
Jonathan Dee
mercoledì 15 dicembre 2010
Larry McMurtry
Lonnie, giovane cowboy che sta rapidamente crescendo, vede svolgersi tutta la vita e la morte e il tempo che le collega nel ranch del nonno: piccole incombenze quotidiane e grandi tragedie, a partire dallo sterminio del bestiame, si susseguono nello scenario intenso e crudele del Texas, incrociando i passi degli uomini, che non sempre vanno nel verso giusto. Una voce di Hud il selvaggio lo dice in modo più prosaico e senza usare mezzi termini: “Le cose non vanno come dovrebbero, ecco tutto. C'è tanta di quella merda in questo mondo che uno prima o poi ci finisce in mezzo per forza, che faccia attenzione o meno”. Solo un grande scrittore, un narratore con la sensibilità e il gusto per le immagini, per i dialoghi e per l'ambiente, uno storyteller che è sempre molto vicino ai suoi personaggi, come se fossero vivi, come se fossero reali, poteva immaginarsi la vita in un ranch del Panhandle, ovvero il Texas più profondo, come un sistema solare. Sostituendo i pianeti con gli uomini e le donne che ruotano attorno ad un sole effimero chiamato di volta in volta felicità, prosperità, amore, si avrà lo schema alla base dello scenario di Hud il selvaggio, romanzo d'esordio di Larry McMurtry, datato 1961, che inaugurò la fortunata carriera di uno scrittore amatissimo dal cinema (a partire da L’ultimo spettacolo, da cui Peter Bogdanovich trasse uno dei suoi film migliori). La trama è un intreccio di passioni, iniziazioni, deviazioni che Larry McMurtry annoda con un gusto certosino, quasi macchiavellico, ma che poi snocciola con una scrittura florida, ritmata piena di odori, di sapori e di tutto ciò che Lonnie, il giovane protagonista, riesce a vedere e a sentire. Comprese ovviamente le malefatte di Hud, un ribelle fuori posto, e il crepuscolo del nonno, il proprietario del ranch, che se ne va insieme a tutto il suo piccolo mondo antico. Larry McMurtry cesella una storia dentro l’altra con un linguaggio molto lineare e immediato, ma che salda dialoghi, immagini e azione in un intreccio densissimo di cui si riescono a percepire tutti i particolari solo per l'innata propensione dello scrittore texano a vedere e a mostrare, quasi che la scrittura fosse lo strumento per decifrare una visione. Un peso specifico non relativo l’hanno anche le canzoni di Hank Williams che sembrano onnipresenti nell’aria del Texas. Quando al gran ballo del villaggio, l’orchestra suona Ghost Rider In The Sky, la canzone s’intona “con tutto meglio, di qualunque altra cosa. Le poche storie che la gente sulla pista da ballo poteva raccontarsi erano già state raccontate nelle canzoni come quella, e la loro vita, e le cose che sapevano e per le quali viveavno era già descritte in quella triste, antica melodia”. Per Hud il selvaggio, qualcosa in più di un colonna sonora: un grande romanzo, invecchiato come si concede ad un vino speciale, perché ancora a distanza di più di quarant’anni Hud il selvaggio riporta in un libro sapori forti e pungenti, rimasti tutti intatti e che ormai hanno anche il gusto della rarità.
martedì 14 dicembre 2010
Neal Cassady
lunedì 13 dicembre 2010
John Cage
Se uno scrittore si misura dalla proprietà del linguaggio, dall’essenza con cui articola le idee, dal grado di creatività e di coraggio con cui si inventa uno stile, John Cage è un grande scrittore. Va da sé che in una normale biografia sarebbe conosciuto (solo) come musicista, ma Silenzio rivela un pensatore capace di alternare i piani di lettura e di influire in modo molto incisivo sulla scrittura. Lo scompaginamento, il disorientamento e le provocazioni sono continue, eppure legate tra loro da un’anedottica degna dei migliori storyteller, ma non è questo lo snodo principale, anche se molte, se non tutte, delle storie che racconta a pié di pagina sono pregevoli. E’ la coscienza di una sintesi tra le forme e la loro evoluzione che John Cage spiega con l’associazione tra grazia e chiarezza: “La grazia forma un binomio inscindibile con la chiarezza della struttura ritmica. Insieme intrattengono un rapporto simile a quello di anima e corpo. La chiarezza è fredda, matematica, disumana. La grazia è calda, incalcolabile, umana opposta alla chiarezza e simile all’aria”. Tenendo fede a questo limpido mandato, John Cage riesce a trasmettere con rara chiarezza e altrettante grazia anche idee, concetti, provocazioni piuttosto complessi, senza perdere il gusto del nonsense, degli haiku (“Possiamo volare soltanto se siamo disposti a smettere di camminare”), dell’ironia. Con tutta una sua concezione della prosa e della poesia che teorizza così: “La poesia non si differenzia dalla prosa soltanto perché è formalizzata in un modo o nell’altro. Non è poesia a causa del contenuto o per la sua ambiguità, bensì perché permette agli elementi musicali (il tempo, la sonorità) di entrare nel mondo delle parole”. Anche l’uso delle pagine, delle righe e delle colonne, della punteggiatura è uno stimolo, ed è uno stile. Sulle conferenze, i suggerimenti e le lezioni ci si può ragionare altrove (qui siamo più prosaici e meno rigorosi rispetto alle vibrazioni musicali, anche se condividiamo il suo pensiero quando dice: “La musica è edificante perché di tanto in tanto fa lavorare l’anima. L’anima è l’agglutinante di elementi disparati e il suo lavorio di riempie di pace e amore”) ma anche nelle dissertazioni più avant-garde John Cage ha tutto un suo modo di spiegare e raccontare. Superando anche i luoghi comuni della sperimentazione e delle estrapolazioni (linguistiche o musicali) perché “una persona non fa solo un esperimento, ma quanto va fatto. Con questo intendo dire che uno con le sue azioni non cerca soldi ma quanto va fatto, non cerca con le se azioni di ottenere la fama (il successo) ma quanto va fatto, non cerca il piacere dei sensi (la bellezza) ma quanto va fatto, non cerca con le sue azioni di fondare una scuola (la verità) ma quanto va fatto”. Nelle sue pagine sghembe, curiose, divertite e Silenzio racchiude l’autobiografia di un genio musicale (“Abbiamo occhi quanto orecchie, e finché siamo vivi siamo tenuti ad adoperarli”) così come di un brillante filosofo (“E’ per questo che amo la filosofia: non vince mai nessuno”) che solo un grande scrittore poteva tenere insieme.
venerdì 3 dicembre 2010
Walker Percy
giovedì 2 dicembre 2010
Victor Gischler
Nelle paludi dove i Mudcrutch si sono formati, poi sciolti e poi ricostruiti, non c’è margine di trattativa. Un ambiente suburbano fatto di locali di infima categoria, (pessimi e pericolosi) rock’n’roll show (Tom Petty, appunto, si è costruito una reputazione laggiù), quartieri anonimi, bar dove la vita si ripete all’infinito. La distanza tra Gainesville e Orlando, Florida dove modelli diversi di bande (quelle di Victor Gischler) affilano ben altra esperienza si misura in un paio di centinaia di chilometri, ma si tratta pur sempre della stessa, disperata geografia. L’humus ideale in cui Charlie Swift, protagonista della Gabbia delle scimmie, deve far fronte ad un travolgente susseguirsi di inganni, errori e altri misfatti che portano, neanche a dirlo, lui e tutti i disperati come lui a trovarsi dalla parte sbagliata di una pistola. In realtà non è nemmeno facile capire quale sia quella giusta anche se Charlie Swift detto anche il Sarto rimane fedele fino in fondo al suo boss e alla sua limitatissima visione dell’esistenza e del “lavoro”: “Ero abituato a lavorare con una certa professionalità, io. Forse per questo preferivo lavorare da solo. O forse era perché non mi piaceva la gente”. È il capitano che affonda con la nave e rimane in prima linea fino all’ultimo cadavere, sempre nella speranza che non sia il suo, ma la sua coerenza è unica e, agli occhi di tutti gli altri, anche fuori posto. La trama è spessa e contorta proprio perché tra doppi e tripli giochi, agenti infiltrati e traditori, pasticci e impiastri vari (come ricorda qualcuno: “il marcio è dappertutto”) è difficile tenere il conto, ma a tutti gli effetti non è neanche necessario. Charlie Swift deve far sparire una persona e per un veterano del suo calibro dovrebbe essere ordinaria amministrazione. Però si dimentica qualcosa, o forse è troppo tempo che fa lo stesso lavoro e la storia comincia a prendere una piega imprevedibile e piena di incognite: le armi si accendono e non si spengono più. Già dopo le prime pagine ci si trova invischiati in una lunga teoria di omicidi, sparatorie, torture, tutto il vocabolario più efferato delle gang malavitose e quindi si va giù duro con pistole e fucili sempre caldi e abbondanti, che Victor Gischler descrive e maneggia con cognizione di causa in calibri, manovre e (devastanti) effetti finali. Non si tratta di un elemento secondario perché come ama dire Charlie Swift, se c’è qualcosa di importante sono “i dettagli. Questo distingue i professionisti dai coglioni qualunque. I dettagli”. Nella Gabbia delle scimmie è difficile trovarne uno fuori posto, tanto che, più che un romanzo, sembra già un film: frulla fotogrammi di Sam Peckinpah, Martin Scorsese e Quentin Tarantino in un’ipotetica e passionale carrellata sulla storia dei gangster movie. Univoco in questo senso perché il ritmo forsennato non risparmia nessuno, inchioda il lettore alle pagine dall'inizio alla fine non concede lo spazio per altre considerazioni, nemmeno per rifiniture di stile o deviazioni di percorso. Una macchina infernale che stritola tutti i cliché e i luoghi comuni delle storie noir e/o hard boiled in una centrifuga che funziona a pura adrenalina. Come se già fosse un film.