lunedì 31 maggio 2010
James Lee Burke
Jonathan Raban
Agli inizi del ventesimo secolo, migliaia di immigranti di ogni nazione, istigati da una sistematica e ambigua opera di propaganda, si lanciarono verso le praterie del Montana, spacciato per l'ennesimo Eden americano. Presumibilmente, si sentivano tutti pionieri forti e coraggiosi, pronti a sfidare con quell'idealismo e quell'ottimismo che ha sempre distinto tutte le storie americane, le intemperie, la fatica, il lungo viaggio. In realtà, dietro la concessione dei terreni del Montana, la nuova terra promessa (tra l'altro, presa come si sa agli indiani), premevano poteri forti e interessi che non avevano nulla da spartire con lo spirito entusiasta dei futuri agricoltori. Il grande esodo avrebbe favorito la costruzione della ferrovia (da Chicago a Seattle: un'opera mastodontica), di conseguenza le industrie metallurgiche e tutto l'indotto collegato. Di sicuro, non i nuovi proprietari terrieri, a cui le banche inizialmente concessero generosi prestiti che ben presto si rivelarono vere e proprie ipoteche sui terreni, sulle case e sulle vite. Come direbbe William Least Heat-Moon, quelli che partirono alla volta del Montana furono "uomini sulla cui spina dorsale ha marciato tutta l'America". Jonathan Raban, scrittore di origini inglesi (una mezza dozzina di libri alle spalle) che da tempo vive a Seattle, ha ricostruito in Bad Land tutta la saga delle famiglie attirate in Montana, terra che non avrebbe regalato niente a nessuno, da un'abilissima e strategica operazione pubblicitaria. Bad Land è la storia di una sconfitta nascosta nelle pieghe del linguaggio, di un inganno costruito all'ombra del sogno americano e di uomini e donne che, nonostante tutto, avrebbero finito con l'amare quella terra, l'unica che potevano permettersi. Lasciandosi coinvolgere da questioni apparentemente minimali (la qualità del filo spinato o la quantità della pioggia, per esempio) eppure fondamentali, parlando direttamente con gli attuali proprietari terrieri (in molti casi pronipoti di quelli di un secolo prima), ricostruendo un paesaggio storico e geografico di cui non è rimasto granché e viaggiando direttamente sulle vecchie mappe, Jonathan Raban ha con Bad Land un'intuizione importante e per molti versi illuminante: "Per due anni avevo vissuto una storia così americana che alcuni Americani l'avrebbero ritenuta insignificante. Emigranti falliti che avevano abbandonato la casa e si erano trasferiti altrove: e allora? Quella era l'America, il paese in cui tutti avevano diritto di fallire: era scritto nella costituzione". Lo aiutano le fotografie di Evelyn Cameron, i dialoghi con la famiglia Wollaston (con contorni di salsiccia di alce), le ricerche sugli opuscoli e sui materiali pubblicitari che provocarono l'esodo verso il Montana, a partire dal famigerato Manuale Campbell per la coltivazione del suolo, l'architrave su cui si basava gran parte delle illusioni agricole. Con Bad Land Jonathan Raban invece sembra aver seguito uno dei motti principali che hanno ispirato William Least Heat-Moon in Prateria ("Ridurre significa falsare") e ha fatto il possibile per non dimenticare nulla. Dettaglio per dettaglio, frammento per frammento, appunto per appunto e dopo migliaia di pagine ingiallite e ore a scrutare le fotografie di Evelyn Cameron ha percepito che "il futuro emigrante doveva creare un'America immaginaria sufficientemente palpabile da rappresentare una destinazione reale: così, quando comprava il biglietto del transatlantico, faceva rotta su un paese che, ornato di tanti aspetti bizzarri ed errati, esisteva solo nella sua testa". Hollywood? Dilettanti. Il rock'n'roll? Una fantasia adolescenziale. La madre di tutte le illusioni aveva partorito una terra fertile, rigogliosa e paradisiaca da un orizzonte piatto e desolato, da una Bad Land. Poi era stata data in concessione e qualcuno ci aveva speculato per decenni a seguire. Business as usual, dicono in America. A farne le spese sarebbero state famiglie costrette a vivere al limite estremo della sopravvivenza, spesso subendo le angherie delle banche e del governo federale. C'è un retroterra storico, quindi, se diversi stati americani cominciano a vedere Washington (e New York, e Los Angeles) come il fumo negli occhi. In un modo o nell'altro molti si adattarono alla Bad Land, perché come scrive Jonathan Raban "quella terra non valeva un granché, ma era la loro terra, e i difetti che aveva la rendevano ancora più amata. Ormai ne avevano abusato e dovevano rimediare al disastro". In cambio, restano ghost town lungo la ferrovia, chilometri di recinti abbandonati e soprattutto una contradditoria carica di individualismo che è uno degli elementi fondamentali dell'uomo di frontiera e del suo legame con il paesaggio: "Essere così soli e vistosi in un'arena che ha una circonferenza talmente enorme da ridurci a un puntino ci fa gonfiare di presunzione. Siamo allo stesso tempo grandissimi e piccolissimi, ed essendo entrambi non siamo nessuno dei due. Questa perdita acuta e improvvisa della nostra dimensione è probabilmente spiacevole come il giramento di testa che si accusa fumando una sigaretta dopo una settimana d'interruzione. Avvertiamo uno strano malessere della vista e, come l'afflitto personaggio di Stevenson che rincasa, torniamo un po' barcollanti all'automobile che ci riporta alle dimensioni abituali grazie allo spazio chiuso dell'abitacolo e al diametro familiare del volante". I nuovi cowboy hanno messo John Wayne in un angolo e si sono fatti saggi, perché non c'è alternativa per chi vuol tirare avanti: "La nostra filosofia è questa: non abbiamo ancora venduto il grano dell'anno scorso e quindi possiamo perdere il raccolto di quest'anno. Non compriamo molte cose nuove perché in un anno di siccità le cose nuove sono solo un aggravio. Se non spendi, le annate buone ti permettono di far fronte alle annate cattive". La domanda l'ha posta chiaramente James Agee ed anche se riferita a tutta un'altra parte dell'America si adegua perfettamente alla Bad Land di Jonathan Raban: "In che modo siamo rimasti intrappolati? Dove, lo sbaglio che abbiamo fatto? Cosa, come, dove, quando, in che modo, tutte queste cose avrebbero potuto essere diverse, se solo avessimo diversamente agito? Se solo avessimo saputo". Già, sapere: nessuno dei novelli pionieri aveva gli strumenti per capire, discernere, vedere oltre le panoramiche degli opuscoli e del Manuale Campbell per la coltivazione del suolo e i loro figli, nipoti e pronipoti sono stati allevati con la mitologia dell'eroe sopra la testa, una spada di Damocle pronta a rovinare su un'educazione precaria e fuorviante. Generazioni e generazioni che non avranno mai una casa perché come scrive Jonathan Raban "Tutti gli eroi moderni avevano faticato a lungo sui testi scolastici (...) Ma soprattutto i testi facevano appello alla fede nella bandiera e nell'America vista come la terra che rendeva possibili i miracoli e in cui la porta della fattoria si apriva su un sentiero che, passando per la scuola con una sola aula, conduceva alla gloria". Il miraggio iniziale, quello che nel sottotitolo originale viene chiamato romance (termine che ha un'accezione fantastica e sentimentale, quindi perfetto per la storia di Bad Land) si propaga ancora in forma di disillusione, risentimento, una diffusa ignoranza che porta direttamente alla violenza, come il proliferare delle milizie armate tra i boschi testimonia. Un danno compiuto un secolo prima non si risolverà così. Se mai si risolverà: Jonathan Raban si è fermato un po' prima ed è tornato a casa conscio che, come direbbe il maestro James Agee "le parole non possono rappresentare; possono solo descrivere. Descrivere, a volte, può bastare se è come Jonathan Raban ha descritto quella Bad Land che un secolo fa sembrava davvero la terra promessa. Invece, era soltanto un pezzo d'America.
Susan Sontag
Tobias Wolff
domenica 30 maggio 2010
Thomas McGuane
Will Ferguson
Ci sono libri che cambiano la vita e libri che promettono di cambiarla. Ci sono manuali per la felicità e con ogni tipo di soluzione, ci sono storie belle e brutte, ma ormai è difficile trovare un romanzo come Felicità® che sappia raccontare "il tempo. Il tempo vero. Quello in cui viviamo tutti". Un tempo dedicato alla ricerca spasmodica della felicità, senza nemmeno cercare di capire cosa sia davvero. Will Ferguson ha toccato un nervo scoperto, smascherando con un urlo tutte le false promesse, le illusioni, i consigli, i modelli e i programmi per essere felici. Un libro che parla della nostra quotidianità, di oggi, senza alcuna pietà per il genere umano e per le sue debolezze. Un libro che sviluppa in trecento pagine quello che ha detto un altro grande scrittore americano, Jim Harrison: "E' solo per caso che si è felici". Tutto comincia con una dattiloscritto di un migliaio di pagine, ricoperto da margherite autoadesive. Nell'intenzione del suo enigmatico autore, Tupak Soiree, dovrebbe essere la soluzione, la panacea per ogni evenienza: dal sesso alla depressione, dal cibo all'alcool, Quello che ho imparato sulla montagna (così il titolo di questo fantomatico libro nel libro) racchiude tutte le filosofie esoteriche e trendy degli ultimi anni. Per Edwin de Valu, protagonista di Felicità®, è soltanto l'occasione per rimediare ad un buco nella programmazione della casa editrice in cui lavora. La decisione di pubblicare Quello che ho imparato sulla montagna porterà ad una serie di eventi a catena: diventerà un successo di proporzioni mondiali, trasformerà i consumi e, con essi, un'intera civiltà (o presunta tale, la nostra). Edwin de Valu si ritroverà sempre nel cuore degli eventi: prima per inerzia, trascinato dall'apocalisse generata da Tupak Soiree; poi per scelta, avendo deciso di smascherare l'arcano e l'inganno che si celano dietro Quello che ho imparato sulla montagna. Della trama non si può raccontare di più, perché Felicità® ha anche il ritmo del thriller, è caotico, rocambolesco, ironico e divertente. Non è un capolavoro di scrittura, perché Will Ferguson fino ad oggi aveva scritto soltanto manuali di viaggio, però Felicità® si legge di gusto ed è un libro importante, coraggioso, anche amaro, perché racconta chi siamo e quanto lontano siamo andati. Senza nascondere una punta di amarezza quando dice: "Passiamo la nostra esistenza a costruire castelli di carte, poi passiamo il resto della nostra esistenza ad aspettare che qualcuno inciampi nel tavolo. Sperando che qualcuno inciampi nel tavolo. Ci mettiamo i vestiti adatti al tempo di ieri. Tratteniamo il fiato. Confondiamo i nostri ricordi con quello che siamo". Un libro sincero, attuale e scomodo fino in fondo.
venerdì 28 maggio 2010
Lewis Shiner
Richard Brautigan
Flannery O'Connor
La cattolicissima Flannery O'Connor è la fonte d'ispirazione letteraria più citata dall'altrettanto cattolico Bruce Springsteen. Per entrambi fede e religione sono parti integranti di una cultura che hanno assorbito fin dalla tenera età e con cui hanno continuato a fare i conti per tutta la vita. Peccato e redenzione, colpa e innocenza, l'eterna lotta tra il bene e il male, ma anche la comprensione di un mondo che contenga entrambi sono l'humus in comune nonché un bel po' di titoli a cui Bruce Springsteen si è frequentemente e liberamente ispirato per via della stessa, parole sue, "spiritualità tenebrosa". A partire da Nebraska, giusto per essere precisi. Tanto basta per rendere Sola a presidiare la fortezza un titolo a cui dedicare un particolare riguardo, ma sarebbe sbagliato limitarsi a scoprire Flannery O'Connor solo per via di un suo lettore e fan del tutto particolare. Anche se la sua attenzione verso chi sta dall'altra parte del libro è sempre costante ("Puoi scrivere per la gioia di farlo, ma l'atto della scrittura non è completo in sé. Trova un fine nel lettore") Flannery O'Connor è una narratrice superlativa e, come riesce a mostrare Sola a presidiare la fortezza, anche una lettrice e un'osservatrice fuori dal comune. Per scoprire la storyteller è necessario ritornare ai racconti; qui è la sua parte più intima, personale, a tratti direttamente autobiografica, raccontata attraverso un lungo epistolario di lettere a editori, agenti, amici o semplici lettori. Si parla di narrativa ("La narrativa dovrebbe rappresentare la vita, e lo scrittore di narrativa è tenuto a utilizzare tutti gli aspetti della vita necessari a formare un quadro d'insieme convincente. Lo scrittore di narrativa non afferma, ma mostra, raffigura") e di arte tout court ("L'arte non è cosa da verificarsi tra la gente, e comunque non l'arte del romanzo. E' cosa che si vive da soli e allo scopo di cogliere in modo nuovo, attraverso i sensi, il mistero dell'esistenza"), del suo tran tran quotidiano (compresi gli amatissimi pavoni), di morale nella scrittura ("Ci tengo ad avanzare ottimi argomenti in favore della devianza, perché mi vado convincendo che è l'unico modo per aprire gli occhi alla gente") e nella vita ("Il fatto è che per scandalizzarsi bisogna avere una visione d'insieme delle cose, e sono in pochi ad averla") con una verve, spesso polemica, che è difficile riconoscere in altri scrittori e/o scrittrici. Anche con un'umiltà e una semplicità ("Certe domande non è che me le hanno fatte gli altri, me le sono fatte da sola. Spesso la gente non si degna nemmeno di farle, si limita a dirti dove hai sbagliato. Non sono tipo da prendere le domande alla leggera e sicuramente le mie risposte sono incomplete, ma per ora non so fare di meglio") che le rendono omaggio e ci convincono ad accodarci, con tale Bruce Springsteen, tra i suoi fans.
giovedì 27 maggio 2010
Jack London
Il viaggio raccontato e raccolto da Jack London nei suoi giornali quotidiani è l'antenato primordiale di tutti i pellegrinaggi americani. Da John Steinbeck a Woody Guthrie, attraverso James Agee e infine Jack Kerouac e compresi testimoni oculari come Tom Kromer e Bertha Thompson, La strada ha compiuto infinite trasfusioni di "sangue di americano libero", come lo chiama Jack London, nel corso di oltre un secolo. Il suo modello di osservazione, che vale anche per la narrazione, è nello stesso tempo dentro e fuori. Dentro, da protagonista di pericolosi arrembaggi ai treni, di soluzioni giornaliere dovute un po' alla fortuna e un po' alla furbizia, di un'arte della sopravvivenza che si traduce in una sorta di infinita e faticosa resistenza umana. Per gli hobo, il viaggio sui treni è un rischio mortale in ogni singolo momento del giorno. Oltre alla naturale pericolosità di massa per velocità dei vagoni, su cui salire è sempre un tiro di dadi, è la caccia ai liberi viaggiatori da parte dei ferrovieri e della polizia l'elemento di sfida, che non risparmia nessuna violenza. E' anche il "destino manifesto" dell'hobo, l'outsider per eccellenza che si nega all'America costituita, rifiutando l'imposizione delle regole e della morale comune e che non nasconde i suoi tratti polemici. In questo c'è una consapevolezza che distingue un hobo da un qualsiasi vagabondo, anche se la distinzione può sembrare aleatoria. Un hobo come Jack London riesce ad attivare anche uno sguardo da fuori, sapendo che "la strada è una delle valvole di sicurezza attraverso la quale si espelle lo scarto dell'organismo sociale". La definizione non è l'unica utile e pertinente perché l'opposizione (risoluta e polemica) di Jack London alle fratture umane e sociali provocate dalla crescente industrializzazione (e militarizzazione) dell'America è continua, costante e valorizzata da una scrittura precisa e fluente, che non ha bisogno di altre presentazioni. La bellezza della lotta, che è poi quella della strada e della scrittura, sta infine nell'esortazione, quanto mai attuale nonostante siano passati cento anni, di John Steinbeck che dice, quasi formulando un veloce saluto "on the road": "Dunque stiamo allegri e cerchiamo di essere onesti". Con una bella copertina, la nuova edizione aggiunge ai "diari di un vagabondo" altri quattro inediti (tra saggi e racconti) che rendono omaggio all'importanza di un libro fondamentale nell'aver creato, attraverso la strada e senza tante metafore inutili, un sinonimo di libertà.
Nelson Algren
E' una lunga ed intensa discesa negli inferi di un'America smarrita e violenta, povera ed eccentrica, cupa e durissima dove i disperati viaggi sui vagoni dei treni merci, la prostituzione nelle vie torbide di New Orleans e mille piccoli espedienti della lotta quotidiana per la sopravvivenza ("Tutti devono mangiare. Tutti devono morire") ispirano un'umanità composita e pittoresca, dolente e malinconicamente reale. L'affresco di Nelson Algren è, in forma narrativa, l'equivalente di quello che James Agee ha fatto con il reportage, Walker Evans con le fotografie, Woody Guthrie con le canzoni: raccontare luoghi in cui "tutto era perduto. Perduto già da tanto tempo, in qualche terra più fredda. Perduto di nuovo dalle generazioni successive". L'unica speranza resta la saggezza (e l'ironia) della street life, per raccontare "periodi duri e facili, periodi trascorsi tra quattro mura e periodi trascorsi nei campi di lavoro, periodi trascorsi in prigioni federali e statali, periodi trascorsi in prigioni di contea, periodi brevi e periodi di pacchia, periodi tranquilli e periodi di pressione, periodi in prigioni grandi, piccole medie, periodi di lavoro in fabbrica e periodi di buona condotta, vale a dire, per esserti fatto un culo così a lavorare". La scrittura di Nelson Algren, vivida e intensa, sembra documentare, in tutti i dettagli e non senza una certa crudezza, tutti i momenti della vita spericolata di Dove Linkhorn, il country boy che spera nel colpo grosso e salta da un equivoco all'altro senza soluzione di continuità. E' un narratore, Nelson Algren, per cui anche la descrizione di un risveglio malaticcio (di Dove, appunto) diventa l'occasione per sfoderare due o tre frasi taglienti, che vanno subito a segno. Creando un'atmosfera nel giro di quattro righe: "Una mattinata così umida che il sale era una specie di poltiglia nel suo barattolo, Dove si svegliò sentendosi come se fosse stato masticato a lungo e poi sputato. La sua giacca a righe, attaccata a un chiodo piantato nella parete, sembrava qualcosa che fosse stato ripescato nel fiume. Ogni cosa su cui gli cascasse l'occhio sembrava o ripescata nel fiume o sputata in terra". Figurarsi nell'arco delle quattrocento pagine: come è giustamente ricordato da Russell Banks, nell'introduzione, aveva motivi da vendere Nelson Algren quando presentava Walk On The Wild Side come un libro che "chiede come mai dagli individui si sviluppano talvolta esseri umani migliori di quelli che non sono mai stati smarriti in vita loro". Un'intuizione che, spostando le coordinate da New Orleans a New York, avrebbe ispirato Lou Reed nella sua esplorazione dei sottofondi, a partire proprio dal'omonima Walk On The Wild Side che da qui prese il titolo.
Allen Ginsberg
James Agee
Sia lode ora a uomini di fama è un libro che, come scriveva James Agee nella dedica a Walker Evans, “contro il tempo e i guasti del cervello, affila e calibra” la percezione che è uno dei suoi temi fondamentali. Lo scrive James Agee fin dalle primissime pagine: “Poiché nel mondo immediato è necessario discernere ogni cosa, per chi sia capace di discernere, e con essenzialità e semplicità, senza dissezione in scienza o digestione in arte, ma con coscienza totale, cercando di percepire la osa per come si pone: per cui, ad esempio, l'aspetto di una strada in pieno sole può ruggire nel suo proprio intimo come una sinfonia, e forse come nessuna sinfonia può: e quel tutto di coscienza di sposta dall'immaginato, dal riesaminato, allo sforzo di percepire altro che il crudele raggiare di ciò che è”. Quello che videro James Agee e Walker Evans (attraverso la scrittura il primo e con la fotografia il secondo) nell'Alabama dell'estate del 1936 era un sole malato: la Grande Depressione aveva distrutto l'economia rurale e la povertà era dilagata con la forza di un uragano e la sistematicità di un'epidemia. Non è facile raccontare la miseria: James Agee e Walker Evans ci sono riusciti in modo chiaro, duro, perfetto e con un metodo che sarebbe da insegnare come materia principale in tutte le università: per capire, per percepire, vissero nelle famiglie dei contadini e la descrizione, il minuzioso elenco degli oggetti, delle case, dei volti di James Agee ha un riflesso speculare e complementare negli scatti di Walker Evans. A quel punto l'idea del reportage è abbondantemente superata: entrambi mettono in gioco qualcosa che va oltre il giornalismo, la letteratura, la fotografia, l'arte. Affrontano la questione in prima persona, mettendo in discussione le proprie certezze, le idee, la stessa vita. Non è un libro semplice, Sia lode ora a uomini di fama. Già la sua forma è indefinibile: non è un saggio, anche se ne ha tutto l'aspetto. Non è un romanzo, eppure James Agee è un narratore sublime. E' un viaggio. E' un manuale per ogni aspirante reporter. E' contraddittorio perché come direbbe Walt Whitman “contiene moltitudini”. E' scomodo, perché James Agee e Walker Evans si schierano, prendono posizione e, tra le righe, riescono a spiegarci il perché dell'arte, della creatività, dell'ingegno. E soprattutto quanto tutto ciò sia importante. Scriveva infatti James Agee: “Senza particolari condizioni e se necessario con combattività io rispetto le opere dell'immaginazione anche quelle ritenute le più fantastiche e ci credo. Sono anzi disposto a dire, poiché coerente con me stesso ci credo, che le opere di immaginazione (...) fanno progredire e aiutano il genere umano, aprono una prospettiva nel buio che lo circonda, come a nient'altro è possibile”. Sia lode ora a uomini di fama (ora in versione economica, con un prezzo che è quasi un favore: meno della metà di quanto costava in origine) è un libro che non lascia indifferenti: James Agee e Walker Evans rivelano un paesaggio (umano, e non solo) lasciandosi trasportare da quello che scoprono: “Arrivare a toccare con devozione il nodo centrale di un argomento, mentre a ogni passo cresce il rispetto che per esso provi e il cuore ti si scioglie di vergogna per come lo stai trattando: arrivare a sapere con sempre maggior chiarezza e infine sin nell'intimo dell'anima che tu ne sei indegno: lasciatemi sperare almeno che sia già qualcosa aver cominciato a imparare”. Non è esagerato dire che un uso costante di Sia lode ora a uomini di fama cambi sensibilmente il livello della percezione perché riabitua a porsi delle domande, chiedersi “in che modo siamo rimasti intrappolati? dove, lo sbaglio che abbiam fatto? cosa, come, dove, quando, in che modo, tutte queste cose avrebbero potuto essere diverse, se solo avessimo diversamente agito?”. Tutte queste domande contengono già la risposta: “se solo avessimo saputo”. Ecco, Sia lode ora a uomini di fama spiega cosa vuol dire sapere, essere a conoscenza e l'argomento può essere tanto la vita nei campi dell'Alabama del 1936 quanto il rock'n'roll (o quant'altro) oggi. Poi sarebbero arrivati William Least Heat Moon, Bill Bryson e Jonathan Raban (e James Talley con Cavalliere Ketchum che nello struggente The Road To Torreon hanno provato ad aggiornare l'Alabama di James Agee con il New Mexico), ma il vero viaggio nell'America blue collar è cominciato Sia lode ora a uomini di fama. Fondamentale.
Terry Southern
Sandra Cisneros
James Sallis
"La gente qui è diventata la gente che fa finta di essere" diceva Sam Shepard mentre si aggirava nella Los Angeles delle sue ormai leggendarie Motel Chronicles. Esattamente: quella fabbrica di sogni e illusioni che risponde al nome di Hollywood sembra aver contagiato tutta la metropoli e allora chiunque interpreta più ruoli, ma tutti sono in cerca del colpo grosso, quello che ti cambia la vita. Per sempre. Sapessero quello che sa Driver, ovvero che "la vita non fa altro che mandarci dei messaggi, e poi resta a vedere, sghignazzando, com'è che non riusciamo a capirci un accidente", non starebbero a dannarsi l'anima più di quel tanto. Driver vive così: guida (con quel nome lì, evidentemente) le macchine nelle scene più pericolose, le tiene su due ruote, le fa saltare, le fa roteare, tutto il catalogo di follie stradali che il cinema ci ha propinato da Thunder Road (un punto di riferimento per Driver) in qua. Ogni tanto, un po' perché le macchine sono una vera passione, un po' perché ci finisce dentro, guida anche per qualche rapina. Niente di colplicato: un ufficio postale, un banco dei pegni, quattro soldi e via. Quello che è strano e molto curioso è che tutto il suo lavoro gli porta via qualche ora e il resto è sempre attesa. Così, per evitare al minimo i guai Driver ha scelto un profilo bassissimo: si concede di mangiare e bere bene (l'elenco dei posti allineati da James Sallis potrebbe, con i relativi menù, riempire una guida gastronomica), ma poi se ne torna nei suoi appartamenti in affitto, disadorni, scarni e forse anche un po' tristi come il suo stesso tran tran. Non è il primo ad essere solo in una città di dieci milioni di persone, ma sembra essersi abituato o almeno si è fatto una ragione quando dice: "il mondo è pieno di posti che sono vere e proprie sacche di esistenza, dove non cambia mai niente o quasi. Come golene". Invece qualcosa cambia perché proprio mentre aveva conquistato la fiducia di una piccola e strampalata famiglia, se la ritrova massacrata durante un tentativo di rapina. Essendo stato prescelto come autista, è testimone di un intreccio di parti e ruoli che non può funzionare nemmeno in una città fondata sulle sceneggiature più astruse. E' in quel momento che Driver smette di guidare (almeno per il cinema) e diventa qualcos'altro o, forse, riscopre un vecchio ruolo che sembra conoscere molto bene. Grande romanzo che ruota attorno al tema dell'identità e alle sue deformazioni, Drive è un noir che scorre come un inseguimento mozzafiato con momenti lirici che ricordano persino il miglior Raymond Chandler, ma se si vuole un paragone, almeno in termini di atmosfera e tensione, bisogna tornare a Vivere e morire a Los Angeles di William Friedkin. Due modi per raccontare la stessa, disarmante solitudine di una città che, non dimentichiamolo, è costruita nel deserto.
Jack Finney
Kevin Baker
“Abbiamo quest'immagine” ha detto Kevin Baker parlando di Dreamland, ovvero de Il paese dei sogni “degli immigranti che arrivavano in America che, pur sofferendo, lavorando duro potevano arrivare a qualsiasi grande successo. In effetti, questa è stata la lunga lotta di diverse generazioni, ma anche quando gli immigrati riuscirono ad avere successo, non bisogna dimenticare il prezzo che hanno pagato, non soltanto separandosi dalle proprie culture e dai linguaggi, ma anche dalle famiglie”. Romanzo storico che si prende più di una libertà, Il paese dei sogni racconta l'epopea di Coney Island del primo Novecento, quando le navi provenienti dall'Europa la vedevano sfavillare di luci mentre ancora erano al largo nell'Atlantico. L'american dream li aspettava, ma non sarebbe stato né semplice né comodo: attraverso una folla di personaggi picareschi e volubili, Kevin Baker racconta la vita di Coney Island restando costantemente nel tracciato degli eventi storici, ma concedendosi tutte le variazioni di percorso necessarie anche perché come ha detto lui stesso "ho sempre pensato che si possano creare personaggi e cambiare un po' le cronologie degli avvenimenti, se tutto ciò serve a far capire l'essenza del romanzo e della storia". Si può essere tranquillamente d'accordo anche perché Kevin Baker ama partire dal basso, dalle strade, dal reticolo di vicoli per raccontare le piccole, grandi storie della comunità ebraica del Lower East Side, le bande di gangster, i primi scioperi, Sigmund Freud e Carl Jung, poliziotti e giocatori d'azzardo, strilloni e politici in una Babele linguistica (inglese, yiddish, cinese, italiano). "Vivere a New York un secolo fa significava sentire ogni giorno per strada decine di lingue diverse" scrive infatti Kevin Baker per introdurre il breve e utile glossario in appendice e la sua ricostruzione scorre via felicemente perché della vita di Coney Island, del Il paese dei sogni racconta nei dettagli i passaggi quotidiani, le piccole scoperte e le grandi invenzioni e un paio di storie d'amore che non guastano mai. Un libro così non guasta mai perché ricorda (a noi) che siamo stati degli immigranti e (agli americani, e non solo) che abbiamo tutti la memoria corta, e non solo New York come dice Big Tim Sullivan, uno dei protagonisti principali di Il paese dei sogni.
mercoledì 26 maggio 2010
Richard Yates
Nella vita sfortunata e tormentata di Richard Yates c'è stato persino il ruolo di ghost writer per Bob Kennedy, nel 1962. Poi una lunga serie di fallimenti e di sconfitte (personali) come corollario ad una ricerca narrativa intensa ed importante, purtroppo rimasta nell'ombra per tantissimi anni. Basti pensare che Tennessee Williams di lui diceva: "Ecco qualcosa di più di un'ottima scrittura: ecco cosa, aggiunto all'ottima scrittura, fa diventare subito vivo, in modo intenso e brillante, un libro. Se nella letteratura americana moderna occorra di più per creare un capolavoro, non saprei proprio dire cosa sia". Parlava di Revolutionary Road, uno straordinario romanzo che oggi trova una sua nuova e adeguata veste nella collana minimum classics, dove sono usciti anche John Barth (il sontuoso L'opera galleggiante) e Donald Barthelme. Tutte le note biografiche e bibliografiche e l'introduzione di Richard Ford ("Revolutionary Road guarda dritto verso di noi con sguardo smaliziato e ammonitore, e ci invita a fare attenzione, a stare all'erta, a badare bene, e a vivere la vita come se avesse importanza quello che facciamo, poiché fare di meno mette in pericolo tutto quanto") contribuiscono a ridargli la giusta luce. La storia è tutta nel titolo ("Il complesso residenziale di Revolutionary Hill non era stato progettato in funzione di un tragedia. Anche di notte, come di proposito, le sue costruzioni non presentavano ombre confuse né sagome spettrali. Era invicibilmente allegro: un paese dei balocchi composto di casette bianche e color pastello, le cui ampie finestre prive di tende occhieggiavano miti in un intrico di foglie verdi e gialle. Fasci di luce sfacciata spazzavano i prati, le eleganti porte d'ingresso e le curve delle automobili color panna ormeggiate dinanzi") perché è proprio nella realtà suburbana, provinciale e un po' amena dell'America anni Cinquanta che si consuma la vita matrimoniale e famigliare (hanno due figli, Jennifer e Michael) di Frank e April Wheeler. All'inizio è una routine di liti, incomprensioni e frustrazioni condite dall'abuso di alcool; poi arrivano i tradimenti, i sotterfugi e altre piccolezze in grado di disintegrare tutti i rapporti umani e sociali; infine, non inaspettata, ma repentina e crudele, la tragedia. Richard Yates, narratore attentissimo ai dialoghi e alle luci (a tratti sembra di essere in un quadro di Edward Hopper o di Charles Sheeler), non nasconde la sua partecipazione e coinvolge il lettore in un turbinio di parole travolgente anche se la vicenda, nella suo quotidiano tran tran, sembra persino banale. Revolutionary Road è una storia ad orologeria. Per tre quarti si gonfia di tensione con schegge e frammenti di un lungo e complesso rapporto di no love, come direbbero gli americani (quella situazione che non è amore e non è odio), tra marito e moglie (con due figli, e poveri i bambini). Le reciproche frustrazioni (lei è un'attrice mancata; lui è un'intellettuale ridotto al ruolo di travet) serpeggiano, con un lungo stillicidio di liti, equivoci, tradimenti e altre amenità famigliari (compreso l'improbabile sogno di fuggire a Parigi) condite dall'abuso tanto dell'alcool quanto delle parole. E' la vita di provincia, della provincia americana che Richard Yates ritrae con la stessa luce di Edward Hopper: un narratore che rimane alla finestra, non entra nel vivo dell'azione, si tiene fuori, eppure riesce a scoprire con una precisione disarmante tutto quello che succede dentro. Con la lentezza di uno di quei balli, più stanchi che languidi, che Frank e April Wheeler si concedono, con gli amici, in un locale fuori mano. Poi, nell'ultimo quarto, in fondo a Revolutionary Road, la bomba esplode e i sotterfugi, le bugie che hanno covato a lungo nei sotterranei della mediocrità deflagrano in una tragedia. A quel punto su Revolutionary Road cala il silenzio, e Richard Yates è grandissimo nel distinguere il passaggio, ma anche questa, alla fine, è una condizione spietata e crudele perché restano i due figli, Jennifer e Michael, tristi, muti e in attesa di risposte che non arriveranno mai. Sembra di vederli, ed è facile condividere quello che dice Richard Ford a proposito, ovvero che "Revolutionary Road guarda dritto verso di noi con sguardo smaliziato e ammonitore, e ci invita a fare attenzione, a stare all'erta, a badare bene, e a vivere la vita come se avesse importanza quello che facciamo, poiché fare di meno mette in pericolo tutto quanto". Un capolavoro, o quasi.