A parte il fatto che Thomas McGuane è un grandissimo scrittore, capace di rendere affascinante persino le notizie dell'ultimo notiziario radiofonico del Montana, Il canto dell'erba è un gran bel romanzo perché è strutturato in maniera curiosa: un po' è un'acida commedia per interni, con infiniti dettagli domestici e un groviglio di legami (“Le vite degli altri, anche quelle dei propri figli, sono un mistero autentico mistero”) che formano la matassa della prima parte. Nella seconda metà prende il ritmo di un film noir (ha qualche punto di contatto, non ultimo il paesaggio, con Fargo dei fratelli Cohen) che si apre su orizzonti incantevoli e nello stesso tempo gelidi e minacciosi, compreso un emblematico (e forse anche metaforico) passaggio con la frontiera del Canada. Sono altri i confini che i personaggi (tutti) passano e ripassano, senza sapere esattamente dove vanno a finire, perché si fanno guidare da troppe emozioni o da troppa razionalità o perché non si fanno guidare per niente. Alla morte di Sunny Jim Whitelaw, facoltoso e ambiguo imprenditore del Montana, un famiglia (molto) allargata, tra cui la moglie Alice, le figlie Natalie ed Evelyn, i generi Paul e Stuart, il ranchero Bill Champion, si ritrova a confrontarsi con le disposizioni del suo testamento. Tutti con i loro sacrosanti motivi per aspirare ad un pezzo del bottino, tutti pronti a tutto (o quasi) perché l'eredità sembra essere la classica esca piovuta in un nido di vipere fameliche. Sunny Jim Whitelaw, il caro defunto, ha lasciato postille (in realtà una sola, piuttosto brutale) che scatenano le ire, le ambiguità, le voglie e tutto un passato che ritorna. Quando poi sulla scena arriva uno dei curatori degli interessi dello scomparso, C.R. Munjab ("Aiuto le aziende a espandersi, oppure le aiuto a rimpicciolirsi. Ma il mio pezzo forte è farle sparire") il sarcasmo della commedia prende le tinte di un noir e l'eredità (tutta in blocco, non soltanto in termini economici) sarà infine la nemesi di gran parte della disperata combriccola. Thomas McGuane è abilissimo nell'assecondare i diversi toni, nel distillare un colpo di scena dopo l'altro e nel mantenere sempre alte le fibrillazioni del ritmo, giocando anche con le quinte di un paesaggio che a tratti è ampio e sconfinato o altrimenti ha i contorni ristretti e asfissianti delle pareti domestiche. Uno sguardo "dentro e fuori" come direbbe un altro ranchero prestato alla letteratura (e al cinema: Sam Shepard) per testimoniare il falò delle vanità (e non solo quelle) di un'intera nazione che Thomas McGuane fa sintetizzare così ad uno dei protagonisti: "Sofisticazione? La sofisticazione è il nostro futuro. In America non abbiamo nient'altro: sofisticazione". Non è facile dirlo, figurarsi raccontarlo in un romanzo.
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