C’è acqua ovunque, negli stagni, nei laghi, nella pioggia e nell’oceano, acqua che porta vita, senza dubbio, perché Mary Oliver la esplora, la celebra senza sosta, la condivide. La scoperta della sua poesia (nella traduzione, con l’introduzione e la cura di Paola Loreto) è un assiduo abbandonarsi alla contemplazione della natura che riecheggia in ogni verso e diventa Musica, ritrovata con “una selettività furiosa e incolpevole”. La forma è lineare, chiara, diretta e la spontaneità è tutto, a partire dall’esplicito invito che recita La lince rossa: “Andiamo verso la foresta bianca, tutto il giorno, tutta la notte”. Avanti: la proposta è irrinunciabile perché Primitivo americano è la dimostrazione concreta che “la poesia sta lì e attende qualcuno per il quale o la quale può essere importante. Ha bisogno della persona giusta per il suo insieme di parole, per quello che sta dicendo. E può cambiare una vita. L’arte può cambiare la vita”. Il resto sono “pezzi di luce pura” al centro dell’osservazione, e non con intenzioni protezionistiche o scientifiche, ma con lo spirito di appartenenza alla stessa terra. Mary Oliver è molto esplicita, e coraggiosa, quando dice: “Io non parlo del vento, della quercia e della foglia sulla quercia, ma in loro nome”. È una scelta di campo radicale e assoluta che riguarda, come scrive in Qualcosa, “qualsiasi cosa. Questo o quello, o qualcos’altro: la ferita oscura di guardare”. I soggetti sono vivi e reali: il topo muschiato, avvoltoi, serpenti (innocui), aironi, anatre, le api, gli orsi e le Megattere dove Mary Oliver declama: “Conosco più vite che vale la pena di vivere”. Questa ricchezza riguarda i profumi e le fragranze delle more, del Miele sulla tavola che ha “un gusto fatto di tutte le cose perse, in cui tutte le cose perse son ritrovate” e che si possono avvertire con I prugni, portatori di “un sapore prima di qualsiasi cosa”. La poesia diventa così un’esperienza sensoriale ed è un continuo rimbalzare dalle impressioni dentro il paesaggio alle emozioni della percezione che, in Attraversando la palude, Mary Oliver estrapola spronando a fare della vita “un palazzo vibrante di foglie”. Gli alberi sono compagni costanti ed è sicura che “nessuno riuscirebbe a pensare, senza avere prima vissuto tra le cose viventi. Nessuno avrebbe bisogno di pensare, senza l’iniziale profusione di esperienze percettive”. Di acquitrino in acquitrino, da creatura a creatura, Primitivo americano rimette al centro dell’attenzione un intero biosistema e “col dolore, e il dolore, e ancora dolore alimentiamo questa trama febbrile, nutriti dal mistero”, scrive in Il pesce, raccogliendo nel frattempo echi della sensibilità di Elizabeth Bishop. Un omaggio, con ogni probabilità, dato che nella ricchezza di Primitivo americano “la vita è infinitamente inventiva” e “altre meraviglie stanno nel buio seme della terra”. Le origini, le radici, le stagioni sono lì dentro, un ambiente conosciuto in ogni singolo millimetro “non più di una virgola sulla mappa del mondo”, ma per Mary Oliver “l’emblema di ogni cosa”. Un legame esplicito, dichiarato, indissolubile: “Non potrei essere un poeta senza il mondo naturale. Qualcun altro può esserlo. Ma non io. Per me la soglia del bosco è la soglia del tempio”. Ecco, allora, a casa, Nei boschi di Blackwater, una poesia che è un indirizzo e un’indicazione nello stesso tempo: “Per vivere in questo mondo devi esser capace di fare tre cose: amare ciò che è mortale; tenerlo stretto contro le tue ossa sapendo che ne dipende la tua vita stessa; e, quando arriva il tempo di lasciarlo andare, lasciarlo andare”. L’esplorazione e la descrizione del lungo elenco di libellule, aquile, bisonti, talpe, albe, arcobaleni, fiumi e fulmini di Primitivo americano conduce Mary Oliver a un consiglio genuino, offerto con disinvoltura: “Istruzioni per vivere la vita: presta attenzione. Fatti stupire. Raccontalo”. La bellezza è tutta lì.
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