James Lee Burke ha un metodo: una scena alla volta, una volta al giorno. In qualche modo continua a funzionare e, in New Iberia Blues, Dave Robicheaux è coinvolto in un’intricatissima macchinazione che coinvolge Hollywood, la mafia del New Jersey, una setta di templari e che ha al centro “l’adorazione della celebrità, a prescindere da come viene acquisita o dalla forma con cui si presenta”, e il bello è che si conoscono tutti. L’enigma, questa volta, pare irrisolvibile. Robicheaux, le new entry del distretto Sean McClain e (soprattutto) Bailey Ribbons nonché Helen Soileau navigano a tentoni nella nebbia. Il bayou è un fondale con proprietà metafisiche, ma non fornisce indicazioni e Streak si appella ai suoi fantasmi per cercare la soluzione a una serie di delitti efferati. L’introspezione costituisce un elemento primario e coagulante, qualcosa che si distingue e spicca con regolare frequenza: Robicheaux gira a vuoto seguendo più le sue intuizioni che prove e indizi concreti. Del resto “la Louisiana, un luogo in cui i morti non solo sono con noi ma sono forse anche spiriti dispettosi a cui non conviene pensare”, da sempre, è fatta così, avvolta in una foschia tenebrosa. Bisogna fidarsi del suo istinto e non sempre succede, nello specifico nell’altra metà del cielo: Streak è solo con la sua sensibilità, i suoi sensi di colpa e la sua insonnia che lo convincono ad ammettere che “è strano quello che succede quando un uomo va troppo in profondità nella propria mente”. Si vedrà combattere con la sua nuova partner, con Helen Soileau, persino con la figlia Alafair coinvolta nella produzione del colossal hollywoodiano ambientato tra la Louisiana e l’Arizona (il cui budget ha origini piuttosto losche). Spinto da una forza irrazionale, Robicheaux non demorde e non molla mai, coadiuvato nelle sue intemperanze da Clete Purcel, inamovibile. I due, come è noto, si completano a vicenda. I loro metodi non sempre corrispondono alla legalità (anzi) e in New Iberia Blues sono “out of control” più del solito: come è nella loro natura, escono dal seminato e ogni volta creano panico, anche se i danni sono limitati allo stretto necessario. In effetti, James Lee Burke documenta gli stessi momenti: le colazioni, le trasferte tra terra e mare, il continuo tuffo nel rimuginìo di Streak, ben sapendo che “cambiano i volti dei protagonisti, ma non la questione di fondo. Si va al centro del vortice e si scopre di esserci già stati. Si tratta di saper vedere i dettagli”. La risoluzione e la scoperta dei colpevoli e dei moventi non manca e Streak la vede in un piccolo particolare che, nella confusione di simboli, attori, interpreti, doppi giochi e ambiguità assortite gli era sfuggito. Lui se accorge perché “il male ha un odore. È una presenza che consuma chi lo ospita. Lo neghiamo perché non abbiamo una spiegazione accettabile. Puzza come la decomposizione di un tessuto organico” e da lì in poi New Iberia Blues accelera e persino nelle paludi, dove ogni cosa è stagnante per definizione, prenderà una velocità diversa, fino al finale (travolgente). Ci si ritroverà tra i piedi anche Smiley (uno dei più enigmatici tra i personaggi recenti di James Lee Burke) così come un’ininterrotta sequenza di richiami al passato e alle altre storie di Robicheaux che fanno di New Iberia Blues una specie di compendio e insieme la più rappresentativa delle sue avventure. Contiene un bel po’ di roba: il blues che non “si impara agli incroci, tesoro. Non si torna indietro una volta che ci sei stato”, il paesaggio con una lunga teoria di luoghi e anfratti, gli elementi come la pioggia che è “sempre stata il tramite tra il mondo visibile e quello invisibile” e, appunto, quelle dimensioni parallele e misteriose. A conti fatti, nel riassunto delle gesta di Dave Robicheaux e Clete Purcel messo in scena da James Lee Burke c’è la rampa di lancio per descrivere una volta di più la Louisiana e tutta un’America che sta scomparendo, ovvero quell’habitat che ha creato con ammirevole costanza e che è la definizione ultima dei suoi romanzi. Di particolare hanno questo, e New Iberia Blues, più di tutti: arrivi alla fine e non ti interessa più cosa è successo e chi è stato, ma se i procioni (Snuggs e Mon Tee Coon) hanno mangiato e stanno bene.
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