L’avvertenza non potrebbe essere più esplicita: “Questo libro non è obiettivo, e contiene pochi elementi effettivamente verificabili. Piuttosto, contiene un vasto intreccio di narrazioni soggettive e inaffidabili, di pregiudizi, di asserzioni infondate e ricordi vaghi e confusi: una trama che risulta, sorprendentemente, molto vicina alla verità”. In effetti è un racconto orale e corale, che allinea le testimonianze di chi è stato vicino a John Belushi ed è un ritratto giustamente affettuoso, come non poteva essere diversamente, ma la ricchezza e la varietà delle voci lo rendono credibile. Una storia che non può esimersi dall’incontrare l’immagine in sé, le capacità mimetiche di John Belushi e le sue interpretazioni, il suo immedesimarsi nei personaggi, ricalcandone l’identità. Lo diceva John Landis, ai tempi di Animal House: “Il copione non prevedeva che Bluto bucasse lo schermo. Fu John a farlo”. Dall’infanzia alla triste mattina dello Chateau Marmont, la parabola di John Belushi è stata rapida e intensa, proprio come ha vissuto, senza preoccuparsi delle conseguenze. Ogni film è diventato via via una questione di gloria o di morte: successe con 1941-Allarme a Hollywood e poi con I vicini di casa (lui e Dan Aykroyd avevano persino pensato di assoldare un sicario per eliminare il regista) e nemmeno la passione per la musica (compresi i successi con i Blues Brothers), rimasta inalterata, e l’idiosincrasia per il mondo degli affari poterono invertire la rotta. La decadenza, altrettanto rapida, dovuta all’innata voracità e all’adesione a quell’immagine wild & innocent, lo resero un volto nella folla imprigionato nell’obbligo di far ridere, un clown all’ultima piroetta, un acrobata delle emozioni in un numero senza rete. L’energia non era del tutto naturale e non viene nascosto nulla: il declino, dovuto all’abuso di cocaina, è descritto con la stessa, puntuale attenzione dedicata ai trionfi e alla generosità di John Belushi e il finale è straziante, doloroso e commovente. Diviso tra uno script improbabile già dal titolo (Muffa nobile) e uno indecente proposto con insistenza dagli studios (Joy For Sex) e il buco nero della dipendenza, John Belushi vagherà nella notte di Los Angeles prima di essere trovato senza vita una mattina di marzo del 1982. Restano, indelebili, i volti e le battute, il genio e le burla, “quattro polli fritti e una coca”, le risate e gli eccessi. Non era l’unico che si era spinto un po’ troppo oltre e infatti Carrie Fisher disse, non senza una certa sincerità: “Tutti aspettavamo di sapere cosa l’avesse ucciso, sperando non fosse la nostra droga preferita”. Rimangono, a parte, un paio di ricordi tratte da Saturday Night Live. Uno è l’identikit di Robin Williams: “La cosa triste è che John avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. Adorava la musica, ma soprattutto sapeva recitare e avrebbe potuto essere un grande nelle parti drammatiche. Era un po’ come Elvis in quel senso. Era un Brando in versione comica. Aveva quel quid. Aveva appena cominciato con quelle magnifiche commedie. Era stato impareggiabile in Animal House. Senza parlare di 1941. Rimaneva impresso a tutti per la sua energia”. Il commiato migliore è poi quello di un altro grande commediante, Bill Murray che ha detto: “Ha finito la sua vita da rock’n’roll star di prima grandezza, ma era nelle situazioni più semplici che brillava davvero. Sapeva trovare l’essenziale in ogni momento e in ogni esperienza. Era davvero qualcosa”. Eh, sì.
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