Un temporale sempre in agguato sul golfo e sul bayou. Elettricità nell’aria. Fantasmi che si aggirano negli acquitrini. Una violenza strisciante e costante perché il Sud degli Stati Uniti è così e “la legge in Louisiana non è mai stata pensata per essere applicata”. Ambizioni legittime (e non, il più delle volte) che si scontrano con logiche imperscrutabili, spesso e volentieri in debito con il passato ed è un bel problema visto che “la memoria non ritorna al momento opportuno”. Fedelissimo al suo titolo, Robicheaux è un’apoteosi totale e incontrollata del mondo di James Lee Burke, dove ormai i personaggi vivono di vita propria, tanto che la trama può cominciare da qualsiasi dettaglio, qui nello specifico da una spada della guerra civile. Un cimelio che passa di mano, ma che riflette una storia controversa che somma i comportamenti di Jimmy Nightingale, un bel candidato a una rapida carriera politica, Bobby Earl e altri delinquenti assortiti, compreso l’ultimo arrivato, Smiley, un killer disadattato e micidiale che presto o tardi ritroveremo ancora. L’intreccio è densissimo, James Lee Burke non si risparmia neanche un po’, tra le righe risale tutta la saga di Robicheaux e infila una serie personaggi, a partire proprio da Dave Robicheaux che, avendo perso la moglie Molly in un incidente stradale, è vittima e colpevole (o forse no) mentre intorno a lui i colpevoli diventano vittime, uno dopo l’altro. È l’apoteosi del suo mondo (e di quello di Clete Purcel). Il cibo, il clima, la musica, la vita sulla e nella strada, New Orleans in tutte le pronunce, lo sfondo dei drammi americani (la storia parte dalla schiavitù e nel finale arriva al Super Dome, l’improvvisato rifugio dall’uragano Katrina), i disastri ambientali e umani nonché il fatto che “la demagogia è stata un dato di fatto; la misogamia, il razzismo e l’omofobia sono diventate virtù religiose, l’ignoranza autocompiaciuta è divenuta motivo di orgoglio” (e così, non solo in Louisiana): c’è tutto in Robicheaux, e senza alcun sconto. James Lee Burke si concede ogni ammiccamento possibile verso il lettore (e direi che può permetterselo), in cerca di una complicità che non si può rifiutare. Nel complesso Robicheaux è una specie di condensato antologico delle gesta degli eroi di James Lee Burke dove la tradizione riflessiva e filosofica di Streak raggiunge picchi assoluti. La dicotomia tra bene e male non è così chiara, anche se la collocazione di Robicheaux non si discute, ma si sono un sacco di zone grigie e nebbiose che coinvolgono tutti su uno stesso terreno, paludoso e insidioso. La sua sintesi, in corso d’opera, è lapidaria: “Ho sempre creduto che non ci sia alcun mistero nei comportamenti umani. Siamo la somma delle nostre azioni. Ma non era così che stavano andando le cose”. La distanza tra intelligenza e moralità o tra caparbietà e resistenza si consuma in una torbida vicenda che ha sullo sfondo una fitta filigrana di violenze sessuali, particolarmente odiose. I bersagli, neanche a dirlo, sono le donne, ma l’ambiguità, che è l’atmosfera che respirano tutti, non consente particolari rimedi e/o difese. I luoghi comuni sono sradicati uno dopo l’altro e Robicheaux ammette che “il contributo maggiore alla soluzione dei casi non lo dà il laboratorio ma l’informatore, di solito qualcuno che ha saltato l’addestramento all’uso del wc e non sa fare un panino con burro d’arachidi nemmeno con le istruzioni illustrate”. Questo è il milieu in cui è costretto a muoversi e se anche Clete Purcel si limita (almeno per un po’), lui deve confrontarsi sempre più spesso con un istinto che lo porta inevitabilmente ad aprire una porta dopo l’altro sui peggiori scenari del degrado umano. Niente finisce per sempre, nonostante una scia di sangue che pare inarrestabile: Robicheaux è un tuffo senza rete che James Lee Burke elabora ripercorrendo passo per passo il suo stile: ruvido, diretto, martellante e ipnotico come un blues che si ripete all’infinito raccontando la realtà e il cinema, il bianco e il nero, la luce e il buio, la vita e la morte.
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