Raymond Carver amava l’acqua, essendo un pescatore che conosceva la qualità delle trote, e della pesca. Scrivere e pescare sono due attività che hanno in comune l’incognita e la pazienza, lo scorrere del tempo e la solitudine, e il silenzio. In un’immagine usata spesso da Carver, i racconti sono “come una palla di neve che rotola a valle” e, nello specifico, raccoglie un po’ di tutto, frasi, ricordi, piccoli frammenti ed “è un continuo collegamento, le cose cominciano a collegarsi fra loro”. Questo succede perché la scrittura come un “processo di collegamento” e la “connessione”, liquida o solida, è una variabile che ritorna spesso nelle analisi di Raymond Carver ed è protagonista, prima di tutto, del legame con i suoi personaggi, a cui si è dedicato con assoluta e indiscutibile emozione. Scrivere è vedere, e la scelta di campo, la “gente” che ha popolato le sue short story è una componente rilevante a cui Carver fornisce un’identità e una dignità, ma ricordando sempre che “le storie vengono da un posto non ben definito, da un matrimonio della fantasia con la realtà, da un pizzico di autobiografia e una grossa dose di immaginazione”. Far le funzionare dipende dal talento, dal genio, che “è anche il dono di vedere quello che tutti hanno visto, ma vederlo in modo più chiaro, da ogni lato”. È il motivo per cui Carver è molto attento alle necessità delle parole, alla loro collocazione, e a ciò che riescono a sortire. Lo spiega bene in quello che è solo un piccolo manuale di istruzioni per l’uso carpito da interviste, introduzioni e altri ritagli, assemblati con un ordine e gusto e tenendo ben presente che “la scrittura è un atto di scoperta”, poi viene “sempre la vita”. È prodigo di consigli, anche se poi la specificità si riduce a un paio di considerazioni ripetute spesso (e condivisibili) e condensate in pochi propositi per definire un’onestà, forse un’etica, della lettura e della scrittura, con la convinzione che “non importa se lo scrittore compone poesie o racconti: sta comunque scrivendo di questioni che gli stanno a cuore, di questioni che lo coinvolgono e che sente vicine. Deve soltanto trovare la giusta forma, il giusto modo di dire queste cose, nella speranza di comunicare al lettore i suoi sentimenti”. In questa direzione rientra la logica dei tagli e delle revisioni: Raymond Carver parla di “economia narrativa”, qualcosa che funziona quando “uno strato di realtà che si dispiega e ne apre un altro, magari ancora più ricco: il graduale accumulo di dettagli significativi; dialoghi che non si limitano a rivelare qualcosa su un personaggio, ma portano avanti la storia”. I maestri, gli esempi e i punti di riferimento sono Čechov (più di tutti), Flaubert, Hemingway, Flannery O’Connor, John Cheever e John Gardner, John Barth e Donald Barthelme. Gente che costruisce cattedrali, ma nello stesso tempo corrisponde all’esigenza irrinunciabile “che qualcuno ci ricordi che siamo esseri umani”. Come loro, per Carver la scrittura rimane un approdo ultimo e definitivo ed è perentorio quando chiarisce cosa bisogna raccontare: “Scelte. Conflitto. Dramma. Conseguenze. Narrativa”. Metodi non ce ne sono: sedersi alla scrivania e scrivere, non c’è altro. Anzi, sì, tagliare e riscrivere, all’infinito.
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