Più di mezzo secolo di corrispondenze, un flusso inarrestabile e poderoso di notizie che sgorgano senza alcun filtro da Kurt Vonnegut in persona. Ha ben ragione il curatore di questa monumentale collezione, Dan Wakefield, a ricordare che “le sue lettere sono come i suoi libri, racconti, articoli e saggi: ti fanno riflettere, ti tirano su di morale, suscitano la tua indignazione per le ingiustizie, ti portano a vedere le cose sotto un’ottica nuova, ti spingono a mettere in discussione le verità accettate, e ti divertono, sempre”. Sì, un sorriso arriva comunque: Vonnegut si definisce “uno scrittore compulsivo, irrazionale, raramente padrone del processo creativo” e nelle lettere è ancora più libero ed effervescente. Scorrono le letture (il primo consiglio: la Poetica di Aristotele), le cronache della lotta impari contro il fumo e la depressione, l’insegnamento e la famiglia, le poesie (“Sono regali da scambiarsi in una famiglia allargata”) e le trattative editoriali, i racconti e i romanzi, la serigrafie, la politica (“I gentiluomini sanno che il vuoto esiste, ma non ne parlano per non allarmare le classi inferiori, che potrebbero diventare ingestibili”) e più di tutto i libri che “sono sacri per gli uomini liberi”. Kurt Vonnegut scrive tutto e nell’epistolario prende forma in parallelo una specie di diario la cui trama può essere condensata in uno dei tanti brillanti commenti: “Cerchiamo di condurre un’operazione di classe qui, ma spesso e volentieri falliamo”. È in buona compagnia, visto che le lettere toccano e, in un modo o nell’altro, molti colleghi, una lunga teoria di scrittori che appaiono in varie forme e collocazioni: Vance Bourjaly, Richard Yates, José Donoso, George Plimpton, Bernard Malamud, Allen Ginsberg, Ring Lardner, William Kotzwinkle, Isaac Bashevis Singer, Leslie Fiedler, William Styron, Ann Sexton, Ted Sturgeon, James T. Farrell, Joseph Heller, Peter Matthiessen, rappresentano un bel parterre della letteratura americana nella seconda metà del ventesimo secolo. In mezzo a loro, Kurt Vonnegut è uno “che sta impazzendo come tutti gli altri”, ma è un interlocutore efficace, anche nel momento in cui rimane senza voce, come i balenieri di Melville, e si chiede: “E dimmi, quando la vita ti trascina via a forza, si ridacchia o si cerca di mantenere la massima dignità possibile consentita dalle circostanze?”. La risposta va cercata nella scrittura e Vonnegut si prodiga nel cercare di capire uno strumento sfuggente (“A livello narrativo, molti problemi sono puramente meccanici, cosa di cui quasi nessuno si rende conto”) e, in fondo, quello che riesce a trasmettere (“Una cosa che rende tutti i miei libri difficili da scrivere è che cerco di raccontare storie senza due elementi quasi essenziali: la colpa e la malvagità”). Non è solo quello, come precisa Dan Wakefield: “Il modo di scrivere, ma anche di conversare, di Vonnegut spesso spiazza, perché ti fa ridere e pensare tirando fuori cose che magari ti frullavano in testa ma non avresti osato dire o pensare. L’esito è disarmante perché viene ottenuto con un linguaggio e uno stile apparentemente così semplici da turbare i lettori, ed è il turbamento dovuto al riconoscersi”. Succede spesso mentre ci si immerge nella marea di lettere e la sorpresa è dietro l’angolo: per esempio, quando dice che Cronosisma “è più che postmoderno. È decisamente postumo”, c’è tutto Vonnegut, fino alla fine.
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