Tra i modelli di stile collezionati da Perché scrivo, un’antologia che copre un campo di osservazioni abbastanza ampio, dal 1968 al 2000, spicca il ritratto di Nancy Reagan. Non è il più importante, e nemmeno il più immediato, anzi, è un articolo sostanzialmente innocuo, almeno in apparenza, ma perfetto. Solo che all’improvviso, Joan Didion vede la moglie dell’allora governatore della California e futuro presidente degli Stati Uniti in questo modo: “Nancy Reagan mi appare proprio così, congelata in quell’inquadratura, la bella Nancy Reagan in procinto di cogliere un germoglio di rododendro troppo grande per il suo cesto di quindici centimetri di diametro”. È una posa, è tutto finto, è soltanto un soggetto televisivo, ma questo Joan Didion non lo dice: la sua è una scrittura obliqua, che rimbalza sui dettagli, con una specifica utilità, come tiene a precisare: “Scrivo solo per scoprire che cosa penso, che cosa guardo, che cosa vedo e che cosa questo significa. Che cosa voglio e che cosa temo. Perché le raffinerie di petrolio intorno allo stretto di Carquinez mi apparivano sinistre nell’estate del 1956? Perché le luci notturne del Bevatron sono rimaste accese nella mia mente per vent’anni? Che cosa accade in quelle immagini nella mia mente”. Secondo Hinton Als, è “un modo di vedere le cose tutto suo, tipico del mondo che l’ha creata, un modo di vedere che, in ultima analisi, rivela la scrittrice a se stessa”. L’obiettivo delle sue attenzioni è mutevole ed è destinato a risolversi in impressioni indelebili: le parole della stampa underground, delle riunioni degli alcolisti anonimi, dei veterani delle guerre americane e dei figli in partenza per il Vietnam, Robert Mapplethorpe, Hemingway e Fitzgerald diventano oggetti della coscienziosa osservazione di Joan Didion. Per Hinton Als è “un’indagine sulla verità” e anche da prospettive distanti o strumentali il fil rouge in sottofondo è comunque “il sistema”, ovvero “il modo in cui tradizionalmente il potere viene tramandato e lo status quo mantenuto”. È il caso, esplicito, del fenomeno di Martha Stewart, che ha fatto della vita casalinga, un’azienda, un brand, un’istituzione o, meglio, una “presenza”. Joan Didion la racconta con le stesse modalità usate con Nancy Reagan, forse con un tocco di raffinatezza in più, vista la poliedrica ed evanescente struttura del personaggio, ma il confronto con la scrittura, e il senso di Perché scrivo, tocca in ogni caso ruolo dello scrittore e del lettore, un ambito fluttuante e biunivoco, almeno come lo rappresenta Joan Didion che parte con la spinta di un’inquietudine irrisolta: “La razionalità, la ragionevolezza mi confondono... Molte delle storie con cui sono cresciuta avevano a che fare con azioni estreme, lasciarsi tutto alle spalle, attraversare deserti senza sentieri”. Le potenzialità della scrittura diventano limiti (e viceversa) e in questo Joan Didion resta una voce unica e Perché scrivo nel complesso diventa una sorta di confessione, se non proprio un auto da fé quando dice che “la particolarità dell’essere uno scrittore è che qualsiasi iniziativa implica l’umiliazione mortale di vedere le proprie parole stampate”. A maggior ragione, quando la scrittura si rivela uno strumento che richiede “un’imposizione della sensibilità di chi scrive nello spazio più privato del lettore”, un gesto che, a dire il vero, a Joan Didion riesce con un’incredibile facilità.
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