Quando si trovano sulla spiaggia di Copacabana, Tristão e Isabel sono due estremi che vanno a toccarsi. Lui è un ladruncolo che vive in una baracca insieme a una famiglia derelitta. Lei è figlia di un alto rappresentante della giunta dei generali, accudita dallo zio Donaciano. Succede tutto per caso, ma la scintilla passionale diventa subito una fonte di preoccupazione e di pericolo: l’incontro è un elemento dissonante nel Brasile della Quinta Repubblica, governata dall’esercito, e quando i due ragazzi decidono si sposarsi vengono perseguitati, per ragioni opposte ma convergenti, dai rispettivi parentadi. La frizione tra i due universi, quello bianco, borghese e militare e quello nero, povero e ai limiti della sussistenza, pare sublimarsi nell’avversione al matrimonio di Tristão e Isabel. Le minacce sono reali e incontrovertibili, l’unica alternativa è la fuga, che si spalanca sugli sterminati orizzonti brasiliani. Gli eventi si susseguono con uno spiccato senso per la tragedia umana e John Updike, sprezzante del pericolo di sconfinare nella parodia o in territori ancora più surreali, mantiene un ritmo incalzante e spietato, che costringe i protagonisti a cercarsi e a rincorrersi nelle pieghe del Brasile. Nell’attraversarlo tutto gli tocca affrontare ogni sorta di avversità e Brazil diventa la cronaca serrata di un’ordalia fatta di furti, fughe, disperazione, forza e coraggio generati da un’amore sconfinato e dalla spontanea reazione alla contrarietà, dove non sfugge un certo simbolismo dedicato all’intero Brasile, rappresentato come “una palude umana di desiderio casuale e oblio”. La storia d’amore e poi la precaria famiglia che costituiscono Tristão e Isabel diventano un’odissea, sia nello spazio che nel tempo: a metà strada, l’infinito viaggio precipita in un’altra era, molto più primitiva, “come se il tempo avesse girato un angolo e stesse rotolando giù per la discesa” e nei fortissimi contrasti, con inaudite manifestazioni di violenza, cresce l’amara constatazione che “l’amore era dappertutto, sentiva, ma non risolveva alcun problema. Anzi, ne creava”. È così che il dramma di Tristão e Isabel arriva alla fine, anche se John Updike non fa sconti e riserva una conclusione tutta da scoprire. Non è la leggenda di Tristano e Isotta in salsa tropicale, anche se John Updike ne ammette l’influenza: Brazil è una favola distorta e un’avventura anche per il lettore che si trova spaesato e disorientato dalla forza del racconto e dalle sue vivide immagini, al punto che anche il suo autore ammette che “avanziamo nelle tenebre, e le tenebre si chiudono alle nostre spalle”. Se attorno alla contrastata unione di Tristão e Isabel, John Updike offre un’ampia prospettiva delle contraddizioni della nazione negli anni delle dittature, nell’incalzare del racconto diventa evidente, per dirla con Jorge Amado, che attraversare il Brasile “è come percorrere un intero continente”, ma non sono soltanto le distanze geografiche o morfologiche. È la separazione abissale tra i giovani nelle strade e i vecchi potenti nelle loro abitazioni, tra la povertà dei ghetti con i tetti di lamiera e i grattacieli di São Paulo, con l’architettura di Brasilia come apogeo di quella divisione, ma con ogni probabilità anche come elemento distintivo di un frattura più grande e frastagliata, tra mondi diversi, distanti e opposti collocati dentro gli stessi confini.
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