Le interviste raccolte in Un antidoto contro le solitudine vanno dal 1987 al 2008 ed è impressionante notare come la densissima filigrana dei pensieri di DFW tenda via via a sfilacciarsi. Certo, la sua visione resta costante e coerente nell’arco di tutte le conversazioni, con una percezione della letteratura e della scrittura in generale che rimane acutissima, partendo dalla consapevolezza delle sue mutazioni: “In passato il compito della letteratura era rendere familiare ciò che era strano, portarti in un posto e fartelo apparire familiare. Ma mi sembra che una caratteristica della vita di oggi sia che tutto si presenta come familiare, quindi una delle cose che l’artista deve fare è prendere molta di questa familiarità e ricordare alla gente che è strana”. Alcune definizioni sono destinate a formare dei punti di riferimento classici, e così la sua prospettiva sulla realtà della comunicazione, a partire dal suo mezzo più ingombrante: “Una cosa che fa la televisione è aiutarci a negare la nostra solitudine. Attraverso le immagini televisive, possiamo avere un facsimile di relazione senza la fatica di una relazione vera. È un’anestesia della forma”. L’attitudine verso i suoi interlocutori è guardinga, sul piano personale, ma quando si tratta di discutere di letteratura, filosofia, linguaggio, DFW non si nasconde e usa l’intervista come uno strumento per esprimersi né più né meno della scrittura. È scrupoloso nelle risposte, mantiene intatto l’entusiasmo e intervista dopo intervista non manca di ribadire alcuni concetti fondamentali: i suoi autori di riferimento (a partire da Don DeLillo), la conoscenza della cultura pop, un’attitudine istintiva alla lettura, ma anche molto elaborata verso la scrittura che prevedeva un rapporto intenso, univoco. Aveva un rispetto singolare e, ancora prima della pratica quotidiana (“Devi disciplinarti e imparare a dar voce solo alla parte di te che ama le cose che scrivi, che ama il testo a cui stai lavorando”), ne riconosceva il senso a partire dalla musicalità (“E per me, molta della bellezza della scrittura ha a che fare con il suono e il ritmo”), sapeva confessare i suoi rituali (“Ammucchio un sacco di metafore, cerco di rendere la scrittura più graziosa che mai, tento continuamente i colpi più ambiziosi”) e infine non nascondeva i suoi limiti: “E se c’è una cosa che continuamente mi infastidisce, rispetto alla scrittura, è che davvero non mi sembra di raccapezzarmi dentro il linguaggio: non mi sembra mai di raggiungere la chiarezza e la concisione che desidero”. Anche nella forma delle interviste, comunque limitate nello spazio e, come sappiamo, la brevità non era tra i pregi di David Foster Wallace, è riuscito a mostrare di distinguere a fondo il valore di un’opera letteraria perché “ci permette, grazie all’immaginazione, di identificarci con il dolore dei personaggi, allora forse ci verrà più facile pensare che altri possano identificarsi con il nostro. Questo è un pensiero che nutre, che redime: ci fa sentire meno soli dentro. Magari è tutto qui, semplicemente”. È stato anche sincero riguardo i meccanismi dell’editoria e del marketing, sperimentato in prima persona con l’hype sorto attorno a Infinite Jest, con tutti i giochi e i ruoli del caso, che sono pure una parte dell’insieme, anche se poi resta solo la convinzione che “la letteratura o smuove le montagne o è noiosa; o smuove le montagne o sta col culo piantato per terra”. La differenza è tutta lì e la ricerca di quel “clic”, come lo chiama DFW, è un’altra delle costanti, perché “c’è qualcosa, quantomeno nei romanzi e nei racconti, che ti permette di entrare in intimità con il mondo, e con un’altra mente, e con certi personaggi, in un modo in cui non puoi proprio farlo nel mondo reale”. È per quello che, alla fin fine, la letteratura è qualcosa di più di Un antidoto contro la solitudine dato che “si occupa di cosa vuol dire essere un cazzo di essere umano”. DFW lo era in modo un po’ speciale, o, per dirla con l’amico scrittore ed editore Colin Harrison, “era come una cometa che passava rasoterra”. Sì, proprio così.
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