Dentro, fuori. Prima, dopo. Inizio, fine. Spiare la prima persona è un ultimo saluto, un testamento, una breve pièce e tutto insieme per confezionare un addio: due uomini si osservano, ma forse sono soltanto due metà della stessa persona, perché “qualche volta la gente appare così, dal nulla. Appaiono e scompaiono. Molto in fretta. Come una foto emerge da un bagno chimico”. Va messo in conto. Uno sta in una veranda accudito dalla famiglia, adagiato su una sedia a dondolo o incastrato in una sedia a rotelle. Sam Shepard non fa eccezioni, neanche per se stesso: “Un anno più o meno giusto fa poteva camminare a testa alta. Vedere attraverso l’aria. Poteva pulirsi il sedere”. Ogni riferimento non è proprio casuale, anzi. L’altro è a distanza di sicurezza nei cespugli, con un binocolo, molto potente. Per entrambi, l’immobilità, è una condizione inderogabile e Sam Shepard riassume i loro pensieri chiedendosi “cos’è che ti trascina in basso, che ti fa sentire che non ce la farai mai, non ce la farai mai a superare qualcosa. Io non so cosa sia. La monotonia. La ripetizione”. È necessario tenere d’occhio i dettagli. Al crepuscolo, Sam Shepard è più rarefatto che mai: ogni parola pesa come una pietra nel deserto, ogni frase è un concentrato denso e asciutto nello stesso tempo, i ricordi rimbalzano nella memoria e “a un certo punto nel passato, a un certo punto nel passato, andava tutto bene. Non c’era disperazione. Funzionava tutto. Quindi qual è la cura. C’è qualche modo per curare il presente? Possiamo fare qualcosa di semplice, tipo un bagno caldo nelle acque termali. O dobbiamo ricominciare tutto da capo. Dev’esserci una cura. Siamo figli dei miracoli. Lunga pausa. Pausa. Nessuno si sofferma sulle sue parole. Nessuno si sofferma nel momento. Nessuno si sofferma per nessuno”. Il richiamo del passato è guarnito da una sottile sensazione di nostalgia, compresa l’impressione che andasse tutto bene, o almeno meglio di adesso, ma non era proprio così: c’erano la guerra in Vietnam, Nixon, il Watergate, e direi che bastano e avanzano. È Sam Shepard che prova a rielaborare i ricordi, ma sono soltanto piccoli appunti rubati alla memoria. Alcatraz, Pancho Villa, il Messico e il confine sono echi che arrivano da lontano, e che si ritrovano spiazzati nelle istantanee di oggi, quando si domanda se “li capiamo, gli uomini sull’angolo che parlano una lingua straniera? Capiamo da dove potrebbero essere venuti? Forse è il vento che li ha portati qui”. Eccoci qui. Il presente è laconico: “Noti la natura progressiva delle cose. Le cose decadono. Noti come sono diverse. Non vuoi crederci”, e allora le due figure si misurano, si tengono d’occhio, si scrutano nell’aria tersa della prateria, ma non si incontrano e rimangono agli estremi della prospettiva almeno finché non appare un serpente a sonagli verde del Mojave e, quasi come un segnale ancestrale nell’aria, la vena autobiografica li fa collimare. A quel punto i due contorni si sovrappongono in una sola ombra, quella di Sam Shepard, che prende il sopravvento e che commenta: “C’è questo fatto, nel dopo. Che non sai cosa verrà. Non sia come andranno a posto tutti i sospesi. Qualcosa succederà di certo, ma non sai cosa. Per esempio, io sono fuori, per esempio”. Resta il tempo di un’accorata dedica ai figli: “Ho fatto degli errori ma non ho idea di quali siano stati. E non ho mai desiderato ricominciare da capo. Non ho il desiderio di eliminare delle parti di me stesso. Non ho desiderio. Forse dovremmo incontrarci come completi estranei e parlare fino a notte fonda come se non ci fossimo mai visti prima. Sappiamo solo che c’è reminiscenza, c’è qualche misteriosa connessione. A volte”. Spiare la prima persona è l’apoteosi finale di Sam Shepard, osservatore e osservato che “in altre parole, non sempre, ma a volte”, confeziona il memoriale definitivo di un fuggitivo costretto a guardare l’orizzonte con gli occhi di qualcun altro.
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