Nelle Notti del Sud c’è sempre un jukebox o una radio che trasmette Hank Williams, Lightnin’ Hopkins, Clyde McPhatter, Sam Cooke, Percy Sledge, Bobby Womack, i Valentinos, Guitar Slim, Stevie Ray Vaughan, Sonny Boy Williamson, Jerry Lee Lewis, Patsy Cline, Rolling Stones, Aretha Franklin, Muddy Waters e Aaron Neville. Nei momenti più taglienti spuntano anche Thelonious Monk con Johnny Griffin, nonché Ornette Coleman. Del resto, il titolo in origine coincide con quello di una canzone di Allen Toussaint, che è uno dei principi di New Orleans, la città dove si concentrano le storie di questa trilogia che comprende tre romanzi: Gente di notte, Alzati e cammina e Baby Cat-Face, usciti rispettivamente nel 1992, 1994 e 1995. L’assemblaggio in un corpo solo rende merito a quella che si presenta come un’opera sorprendente e travolgente dove Barry Gifford riesce a ricordare che “nonostante il comportamento spesso violento e l’apparente follia o la fin troppo scontata depravazione rappresentata nei romanzi esistevano, ed esistono, anche la bellezza, la generosità, la genuina tenerezza e lo sforzo eroico di fronte alla pazzia. La vita reale, così come si svolge in ogni luogo del pianeta”. Attenzione al “tocco femminile”: già il ritmo sincopato e inarrestabile di Gente di notte che vede le donne protagoniste assolute delle turbolenze sudiste, delinea e determina la forma, il tono, la direzione che sarà poi seguita anche da Alzati e cammina e Baby Cat-Face. Un raffica di personaggi che si accodano uno dopo l’altro senza soluzione di continuità in un vortice visionario e selvaggio, partendo dove “accadeva qualcosa che mai uno si sarebbe immaginato, e poi il mondo sembrava un altro”. I nomi variopinti dei protagonisti si incastrano alla perfezione e scorrono incatenati da bizzarri eventi che si estendono tra sesso, rapine, fughe, vendette. La rappresaglia delle donne sugli uomini è il leitmotiv che distingue la trilogia per intero e che si esprime al suo meglio nel milieu sudista. Con tutti gli addentellati con i Caraibi, l’atmosfera burrascosa e mutabile della Louisiana e del Mississippi, e in particolare della zona paludosa al confine tra i due stati, rende l’idea degli Stati Uniti d’America come un “un curioso esperimento molto probabilmente condannato al fallimento”. Tra predicatori, delinquenti seriali, tossici e alcolizzati, outsider e disperati di varia forma e natura, “sembra che tutto finisca in merda” e quella generale follia condivisa spicca in Alzati e cammina. I racconti sono tumultuosi, la trama non serve e nelle Notti del Sud il gioco è lasciarsi trasportare, facendosi trascinare dalle visioni di Barry Gifford, senza cercare spiegazioni o motivazioni. Le storie che costituiscono i singoli capitoli sono tutte fatte di dialoghi e di situazioni surreali, almeno quanto è diventato surreale il nostro mondo. Strambe congregazioni e comunità dissolute, l’imperversare senza meta sulle strade americane, ogni modello di auto con un curriculum alle spalle, le donne che si tramandano da una generazione all’altra sofferenze e rivalse, la televisione onnipresente che è un gas di parole, le camere dei motel disadorne e cornici ideali per i tormenti degli ospiti: viene tutto convogliato nel forsennato tour de force linguistico di Barry Gifford. Mantenere il ritmo è già un successo, ma bisogna resistere e annusare “la puzza della sconfitta” che aleggia nelle Notti del Sud fino a Baby Cat-Face dove dominano tutti “gli abitatori del lato sordido della vita” ed è il tripudio finale di donne libere, selvatiche e giustamente pericolose e versi dell’Antico Testamento nella versione apocrifa di Barry Gifford. L’apocalisse viene dispensata toccando con mano la metamorfosi al ribasso del verbo, che è la soluzione infiammabile che alimenta e nello stesso tempo consuma le Notti del Sud. Per i più scafati, il messaggio era già chiaro in un verso di Bob Dylan, una citazione di Knockin’ On Heaven’s Door nascosta tra le righe delle prime pagine. Si sta facendo buio, mamma, ed è proprio quello il momento che a New Orleans cominciano le danze. Straordinario.
sabato 31 ottobre 2020
mercoledì 28 ottobre 2020
Jeanine Cummins
In un mondo diviso e ferito, come dice Jeanine Cummins, i migranti “nella peggiore delle ipotesi li percepiamo come una massa di invasori e criminali che prosciugano le nostre risorse; nella migliore, come una folla di poveri senza colto con la carnagione scura, che chiedono aiuto a gran voce bussando alle nostre porte. Di rado pensiamo a loro come a esseri umani uguali a noi. Persone capaci di prendere decisioni, persone in grado di costruire un futuro luminoso non solo per sé ma anche per noi, come hanno fatto prima di loro tante generazioni di immigrati spesso disprezzati”. Ma “quelle persone sono persone”, e con Il sale della terra Jeanine Cummins riesce a scandagliarne a fondo l’essenza, che è sempre la ricerca di un confine da superare, un anelito indomabile verso la speranza, anche quando non c’è più. Trovato l’escamotage e la soluzione per legare Lydia, di professione libraia, al capo di un cartello di Acapulco, che sterminerà tutta la sua famiglia, senza esitare, quando ne avrà la necessità, Jeanine Cummins si concentra sull’essenzialità che l’imminente pericolo impone. Unici sopravvissuti al massacro, la fuga rappresenta una vera e propria iniziazione per il figlio Luca e un’ordalia per Lydia che deve affrontare una lunga serie di prove bibliche per immaginare un futuro. Il punto di vista è costante e lineare, perché Lydia e Luca non hanno altra opzione se non lasciarsi alle spalle Acapulco e il Messico dilaniato da una violenza assurda e feroce. Con Gabriel García Márquez come guida, perché nei suoi Scritti costieri diceva che “anche se si sarà dimenticato tutto, si ricorderà il paese”, soprattutto i suoi fantasmi. Il viaggio è fatto di incontri, a volte fortunati, a volte no, con la consapevolezza che vivere è il minimo. Nella folla grigia che cammina del deserto, si arrampica sui treni, vaga in cerca di una via d’uscita e si nasconde nelle ombre, vige perlopiù il silenzio, ma “altri migranti sono come granate esplose, manifestano complessivamente la loro angoscia a tutti quelli che incontrano, spargono sofferenze quasi fossero schegge di una bomba, con la speranza di svegliarsi un giorno e scoprire che il fardello è diventato più leggero”. La dimensione letteraria le permette così di affrontare la dimensione disintegrata delle migrazioni moderne e, quasi cogliendo una delle scintille che La strada di Cormac McCarthy continua a produttre, ci ricorda che solo l’amore filiale può salvarci, o redimerci. Il sale della terra porta tutte le cicatrici della realtà, ma lascia intravedere un barlume di luce, non tanto nella destinazione finale, che poi sono sempre gli Stati Uniti, quanto nella diffusa solidarietà disseminata lungo le rotte dei migranti. Senza quei piccoli e spesso insperati aiuti, cibo, acqua, riparo, ogni minimo gesto quotidiano diventano una sfida impossibile, se non proprio l’ennesima una tortura, anche quando la salvezza è a un passo, ed è facile identificarsi in Lydia che, giunta ala limite delle possibilità, “come uno di quei serpenti a sonagli del deserto, sperava cambiare pelle, di abbandonare l’angoscia sul suolo messicano. E invece il momento è già passato, e lei non se n’è nemmeno accorta. Non si è guardata indietro, non ha compiuto una piccola cerimonia per iniziare la sua nuova vita dall’altra parte. Quel che è fatto è fatto”. Nessuno ha un’alternativa, se non quella di imbarcarsi in un’odissea che prevede di pagare un pedaggio insopportabile, soprattutto per le donne. È a loro, in particolare che è rivolto Il sale della terra, come specifica Jeanine Cummins nell’utilissima nota conclusiva: “Ho intravisto uno spiraglio per un romanzo che indagasse un po’ di più il lato intimo di quelle storie, che immaginasse le persone sull’altra faccia della medaglia della narrazione prevalente. Persone normali, come me. Che avrei fatto, se il mio mondo avesse cominciato a crollare? Se le mie figlie fossero state in pericolo, fin dove mi sarei spinta per salvarle? Volevo scrivere delle donne e delle loro storie, che spesso vengono trascurate”. Una generosità rara, che merita davvero di essere ascoltata.
lunedì 26 ottobre 2020
Stephen Markley
Non è un caso che lo sport di rilievo in Ohio sia il football, dove il contatto è indispensabile, per quanto rude e non risolutivo. Nel paesaggio suburbano di New Canaan, una cittadina nell’Ohio attraversata dalle ombre delle industrie abbandonate, quattro personaggi, che poi sono i principali protagonisti dei relativi capitoli, si incontrano in una notte. Bill Ashcraft, Stacey Moore, Dan Eaton e Tina Ross sono stati compagni di liceo, che resta una specie di bolla fantastica (e orribile) destinata a svanire al primo impatto con la realtà. Siamo nei primi dieci anni del ventunesimo secolo, l’Ohio è un caso patologico, e l’America sullo sfondo è un relitto aggrappato alla fede e alle buone intenzioni, ma che non ha speranze. Le guerre in Iraq, in Afghanistan e in tutto il mondo hanno generato una nazione di reduci che espandono le loro sofferenze all’infinito. Dan Eaton, che ha perso un occhio in missione, è uno di loro e, in effetti è il funerale di un altro compagno di scuola, Rick Brinklan, caduto a sua volta, ad aprire le danze di Ohio. C’è tutta la città a rendergli omaggio in un tripudio di stars and stripes e stridente dolore, ma New Canaan, “sclerotica in ogni sua manifestazione”, resta una smalltown di provincia dove tutti sanno tutto, ma c’è sempre un segreto ben nascosto. Bill, Dan, Stacey e Tina (e bisogna aggiungere anche Kaylynn e 56, alias Todd Beaufort) si incrociano nella notte americana di New Canaan e “qualunque sia il modo in cui affrontano la tempesta” sono pedine che scorrono sulla scacchiera di una disarmante desolazione. Dietro ogni angolo c’è un fantasma che li aspetta: non soltanto quello di Rick Brinklan, ma anche quelli di Curtis Moretti, morto di overdose, e quello di Ben Harrington, diventato songwriter, con un solo album Slow River. Le sue influenze principali sono Josh Ritter e Amos Lee, le cui canzoni hanno più di una connessione con le atmosfere di Ohio e nel suo suicidio si porta dietro altre due vite, un disastro. L’intreccio tra i personaggi è ambivalente: i loro legami del passato (sia quelli alla luce del sole che quelli sotterranei) mettono in risalto anche le figure dei genitori e dei professori Clifton e Bingham. Il mondo degli adulti resta a distanza di sicurezza e la meritevole caratterizzazione dei protagonisti li vede in un limbo, dove la dimensione notturna e le distorsioni dell’alcol e delle droghe (onnipresenti) spiegano che “la storia era già stata scritta. Cos’è la storia, se non una scelta della memoria. E cos’è la memoria, se non una resa infedele di sesso, morte, giustizia, assassinio, preghiera, avidità, speranza e amore. La memoria è duttile come l’anima”. Nelle diverse prospettive dei personaggi, che sono la creazione migliore di Ohio, Stephen Markley riesce a districarsi con agilità tra l’impressione che le loro vite fossero “tutte parte di un grande gioco di prestigio, un sapiente illusionismo” e la constatazione che non è rimasto “più niente a cui tornare”. Alcuni passaggi sono toccanti, altri transitori: se Stacey Moore “aveva lasciato che New Canaan occupasse uno spazio psicologico così immane da dimenticare che era un posto come tanti, e che la vinta lì andava avanti come ovunque”, Bill Ashcraft ammette che “a volte non mi capacito di quante cose abbiamo perso. Magari è solo l’assaggio di quello che ci resta ancora da perdere”. Ci siamo tutti noi, nell’alternarsi del passato e del presente nel corso del racconto e delle rievocazioni: tutta la storia di Ohio è costruita benissimo ed è “come osservare un bellissimo, spaventoso pianeta alieno dall’interno di una scatolina di vetro”. Però Stephen Markley resta sempre in superficie e sembra chiedersi in continuazione come spiegare al lettore “la tristezza, le tragedie di quel posto”. Insomma, c’è molto lavoro, fin troppo ma nei suoi eccessi, manca qualcosa: Ohio è ben articolato, anche se il meccanismo dei flashback con lo scorrere dei capitoli diventa prevedibile, rende le coincidenze nottambule un po’ forzate, compreso il finale che resta ingarbugliato. Per essere un esordio (notevole), basta e avanza, ma i limiti sono piuttosto palesi: forse sarebbe bastato un po’ meno per ricordarci che “ci presentiamo tutti a questa festa senza invito e senza un apparente padrone di casa e che possiamo andarcene da un momento all’altro senza motivo”. Su questo, tutto sommato, non c’è dubbio, in Ohio come altrove.
giovedì 22 ottobre 2020
Dennis Cooper
Nelle cupe ossessioni di Dennis Cooper, Ziggy rappresenta una piccola crepa, per quanto instabile e sfuocata nel contesto di “un luogo da qualche parte, bizzarro in modo realistico”. I confini sono sempre quelli di un’indefinita terra di nessuno tra i sogni, gli incubi, le deviazioni oppiacee e la desolazione della realtà. En passant, anche se tra le righe è molto chiaro, viene riproposto il concetto burroughsiano per cui “gli essere umani sono un virus”, e il corpo è visto come un territorio da conquistare, da violare, da razziare, una fortezza da espugnare e da spolpare, una forma da ridisegnare dall’inizio. Pare che non ci sia nulla in grado di fermare questa primitiva bramosia, che il più delle volte si traduce in privazioni, limitazioni e assurdità di una ferocia indicibile. Dentro questa coltre di angoscia, le parole paiono l’unica possibilità di uscirne, magari non indenni, ma almeno con una vaga prospettiva di poter affrontare ancora il “mondo convenzionale”. In questo senso, Ziggy è un protagonista assoluto: è stato vittima di molestie ed è diventato a sua volta carnefice, come se fosse solo un piccolo ingranaggio di una macchina molto più grande che non si ferma mai. Qualcosa, dentro di lui, lo avverte e infatti si dedica a una fanzine, I Apologize, dedicata agli abusi sessuali, che prende il titolo da una canzone degli Hüsker Dü, “una simpatica dichiarazione, rauca, feroce, un po’ confusa, contro il modo in cui va il mondo”. In più, sente che, a sprazzi, a fatica e scontrandosi con i limiti della dipendenza, il legame dell’amicizia con Calhoun rappresenta una svolta e una possibilità imprevista. Ma intanto è coinvolto in un viavai di approcci sessuali, consumi, depravazioni, visioni distorte e dialoghi schizofrenici. Il racconto di Ziggy procede a ondate eterogenee e vede apparire in pose crudeli adolescenti che si chiamano di volta in volta Robin, Nicole, Osamu, Annie, Cricket, Josie e si confondono una nebbia senza appigli, tribale, cruda e acida. I particolari anatomici ed erotici non devono trarre in inganno, nemmeno quando sono portati alle estreme conseguenze: la disperazione che racconta Dennis Cooper è palpabile e si riflette in una scrittura scarna, a partire dall’idea che “la vita è sempre fuori garanzia” per arrivare a decifrare un sottobosco incastrato in un vicolo cieco e giunto al termine della notte. La sensazione è malsana e claustrofobica. Anche la relazione tra Ziggy e Calhoun che potrebbe rappresentare uno sprazzo edificante in tanta miseria resta indefinita e traballante. È ostacolata dalla ferite del primo e dall’abuso di stupefacenti del secondo, dato che “uno dei doni che l’eroina fa a chi la usa è come rende astratto e quasi sparpaglia tutto quello che non è completamente a fuoco, e rapidamente lo allontana. Allo stesso tempo, purtroppo o per fortuna, più le cose seducono più fanno paura”. Per questo, Calhoun “ritiene che l’amore umano sia un concetto antiquato” ed “è quasi imperscrutabile, anche per quei pochi eletti che scoprono, dietro un’iniziale freddezza, quanto sia gentile e dotato. Comunque, gente, vuole soltanto essere felice con l’eroina. E se i suoi amici si sentono trascurati, pazienza”. Quando Ziggy gli scrive una canzone dedicata al suo amico, Calhoun’s Song, con “l’idea di piazzarci dentro una marea di chitarre” (chissà, forse come gli Hüsker Dü o gli Slayer, che sono l’altro estremo della colonna sonora) lasciando filtrare un dubbio, nella coda finale, dicendo che “questa storia non è vera, è un messaggio per qualcuno che conoscono che non vuol ascoltare i suoi amici, la verità, e neppure se stesso”. E se Ziggy è brutale, scomodo, maleodorante e urticante, è perché Dennis Cooper tocca con mano il dolore e ci affonda dentro.
giovedì 15 ottobre 2020
Stuart Dybek
Per spiegare il senso per le minuzie nel suo lavoro, una volta Edward Hopper ha citato queste parole di Ralph Waldo Emerson: “In ogni opera di genio riconosciamo i nostri pensieri rimossi, che ci ritornano in mente con una certa straniata maestosità. I capolavori dell’arte non potrebbero darci una lezione più emozionante. Ci insegnano a dar retta alle nostre impressioni spontanee con tranquilla fermezza, soprattutto quando dall’esterno ci giunge il frastuono di tante voci diverse. Altrimenti domani uno straniero ci dirà lui, con smaliziato buon senso, quello che abbiamo sempre pensato e sentito, e noi saremo costretti per nostra vergogna ad adottare le opinioni di un altro”. È un passaggio che si adatta alla perfezione a Stuart Dybek, uno scrittore immaginifico capace di rendere l’atmosfera fluttuante dei sogni (a occhi chiusi e aperti), del cinema, della vita notturna, delle sottili distanze tra gli amanti e dell’inafferrabile essenza della musica. La costa di Chicago colleziona racconti brevissimi, come Luci, una pagina perfetta, Tappi di bottiglia, una piccola storia con una delicatezza che riporta allo sguardo dell’infanzia, o Scene tagliate con tutta la magia di un film condensata in una short story. Sa infilare le parole nel posto giusto e, in Chopin d’inverno, spiega che “quando la musica alla fine è sparita, quei canali sono rimasti, distribuendo il silenzio. Non il solito silenzio di assenza e di vuoto, ma un silenzio puro oltre l’immaginazione e la memoria, intenso come la musica che aveva sostituito, e che, come la musica, aveva il potere di cambiare chi lo ascoltava”. Succede anche “in quegli anni tra la Corea e il Vietnam, quando si è perfezionato il rock’n’roll” e allora la gang di Degrado si divide tra Little Richard, Fats Domino, Screamin’ Jay Hawkins, Howlin’ Wolf, Jerry Lee Lewis, Ray Charles, Buddy Holly e gente che “passava un sacco di tempo ad ascoltare i vecchi 78 giri di cantanti neri i cui nomi sembravano cominciare tutti per Blind o Sonny”, e del resto siamo a Chicago, dove il blues ha trovato una casa con la corrente elettrica. I racconti sono inanellati l’uno all’altro e così lungo La costa di Chicago si incontrano i personaggi di Bijou, Randagi, Persa, La donna che sveniva, Latte condensato, ma sono Degrado, Ghiaccio caldo e I nottambuli a comporre un trittico fondamentale. In Ghiaccio caldo tutto si snoda attorno a La Bamba, un riff che ha fornito il DNA all’intero universo del pop, da Twist And Shout a Like A Rolling Stone, e tanto dovrebbe bastare. Con I nottambuli, è come se nell’omonimo quadro di Edward Hopper prendesse posto una piccola folla, e così “il locale illuminava quell’angolo buio di città con una luce spoglia che non sembrava nemmeno capace di illuminare se stessa. Tre clienti stavano seduti al bancone come se attendessero, non che qualcosa cominciasse, ma che finisse, e io sapevo con quanto poco sforzo avrei potuto aprire gli occhi e trovarmi lì con loro ad aspettare”. Tra di loro si distingue un suonatore di conga che fa un po’ da anfitrione, una figura che si dispone in evidenza, in modi diversi e a più riprese, quasi a richiamare l’attenzione. Mentre “un bacio attraversa la città” e April In Paris di Count Basie risuona ancora una volta, lui e lei a sono a letto e lei “capisce cosa vuole dire. Vuole dire che stanno vedendo questo insospettabile cielo solo perché sono insieme; che è qualcosa in più da ricordare tra loro”. Una visione impressionista, luminosa con gli sguardi che si rimbalzano da una prospettiva all’altra, una sfumatura impercettibile colta da una scrittura elegantissima e sorniona, capace di ricordare che “nonostante tutta la gente ancora sveglia, incapace di lasciar andare la sera, si affacci dalle finestre, fumi sugli scalini dei portoni d’ingresso o sulle verande anteriori, c’è silenzio, nessun convenevole, o pettegolezzo, nessuna storia o ninnananna, solo il ronzio degli insetti o le grida lancinanti degli uccelli, come se tutti sapessimo che adesso dovremmo essere addormentati, lasciando che siano i falchi della notte a descrivere la notte”. Nessun altro può farlo.
martedì 13 ottobre 2020
Liz Moore
Kacey e Michaela Fitzpatrick vivono a Philadelphia, o meglio nel quartiere di Kensington Avenue, un buco nero, dove tutto è concentrato sull’uso e l’abuso degli stupefacenti, con l’eroina in cima alla lista della spesa. Crescono senza genitori (la madre morta per la droga, il padre scomparso), nella casa fredda e inospitale della nonna, e devono inventarsi una complessa serie di rituali per sopravvivere, e una mutua protezione, anche se poi la separazione diventa inevitabile. È una frattura che determina tutto quello che succede sotto I cieli di Philadelphia ed è giusto che a a spiegarlo sia Mickey alias Michaela in prima persona: “In quel momento mi resi conto che eravamo a un bivio. La mappa delle nostre vite si stendeva davanti a noi e io vedevo con molta chiarezza i diversi sentieri che avrei potuto imboccare, e in quale maniera queste scelte avrebbero influito su mia sorella. Con il senno di poi, naturalmente, la strada che scelsi fu quella sbagliata”. Forse era solo obbligata: mentre Kacey scivola nei gironi danteschi dell’Avenue, Mickey entra nella polizia. Un classico, se non proprio un cliché, soltanto che nel caso delle sorelle Fitzpatrick la distinzione dei ruoli non corrisponde a una corretta interpretazione dei valori, più o meno ragionevoli. Per Kacey, come per tutti, “il tempo trascorso in preda alla tossicodipendenza è come un loop. Ogni mattina porta con sé la possibilità di un cambiamento, e ogni sera la vergogna del fallimento. L’unico obiettivo è trovare la dose. Ogni dose è una parabola, sali, scendi, sali, e ogni giornata è una serie di queste onde, e poi, a seconda di quanto piacere o dolore provi, diventa possibile descrivere i giorni e i mesi come un grafico”. In effetti, non resta molto da raccontare: questo continuo entrare e uscire, un ciclo che annulla la dimensione temporale, è ribaltato da Liz Moore nello schema a corrente alternata, tra allora e adesso con cui ha composto I cieli di Philadelphia. Il tema del doppio, una delle ombre fisiologiche della tossicodipendenza, si moltiplica: sono due le sorelle, sono ambigui i poliziotti, sono sempre distinte le scelte. Quando una catena di omicidi tra le giovani donne, mette in allarme le strade di Philadelphia, Mickey si ritrova coinvolta in prima persona, ma in ogni suo passo è evidente che “il caos prende sempre il sopravvento, anche quando gli viene sottratto lo spazio”. È circondata da poliziotti che alimentano i suoi dubbi, è maldestra e finisce a sua volta sotto inchiesta, ha un figlio da accudire, Thomas, e la sorella da trovare, prima che sia troppo tardi, ma sa che tra i tossicodipendenti “nessuno di loro vuole essere salvato. Vogliono tutti sprofondare nella terra, essere inghiottiti, continuare a dormire”. Lo stato di abbandono delle persone si sovrappone a quello degli edifici e dei quartieri che Liz Moore delinea con scrupolo realistico, con una scrittura essenziale e precisa tesa a sottolineare a più riprese come il degrado urbano sia contiguo e parallelo alla decadenza umana. La desolazione è palpabile, ma è difficile trovare un romanzo che parli della tossicodipendenza come I cieli di Philadelphia: Liz Moore ha l’infinito pregio di risparmiarci le implicazioni morali, non obbligatorie, e di introdurci, con tutte le titubanze, gli errori e la fragilità di Mickey, in un territorio dove una gravità malata (la definizione nasce dalla lunga esperienza sul campo di Jim Carroll) rallenta non soltanto i movimenti, ma la percezione stessa della realtà. Se resta un residuo di speranza, va trovato nel legame tra Mickey e Kacey, ma l’atmosfera che riempie I cieli di Philadelphia è roba pesante, e ci vuole un bel coraggio per raccontarla come ha fatto Liz Moore: con partecipazione, senza nascondere nulla e aggiungendoci quel po’ di accortezza necessaria ad affrontare la vita nelle strade, nella fiction così come in Kensington Avenue, quella vera.
martedì 6 ottobre 2020
Henry Roth
C’era una volta l’America, che non c’è mai stata. In questo capolavoro dalla tormentata gestazione, ma destinato a diventare un classico, Henry Roth mette in rilievo un microcosmo sommerso, povero e limitato dai confini di quartieri che sono vere e proprie enclavi. I contrasti sono netti, la religione è una barriera invisibile più forte delle lingue che compongono Chiamalo sonno (inglese, yiddish, ebraico, e tedesco e italiano in misura minore) che poi è frutto di una versione dell’America non edulcorata, cruda e realistica. È un’esperienza unica, un tuffo in una porzione di NYC all’inizio del ventesimo secolo e il volto di una promessa mancata è già evidente nel prologo, quando i componenti della famiglia Schearl (padre, madre e figlio), ebrei immigrati dalla Galizia, si incontrano sul molo di Ellis Island. Raccontata con precisione matematica, è una scena durissima, che detta il tono a tutto il romanzo. Le continue triangolazioni tra i principali protagonisti si stagliano contro le geometrie rettangolari della città e David, unico figlio degli Schearl, cresce dentro questo universo frammentario. Tra i sette e gli otto anni, David ha uno sguardo che non è innocente, ma è curioso e attratto dal magnetismo della rapida metamorfosi di un’intera metropoli. Gli altri vertici principali sono il padre, Albert, duro, nevrotico, ossessivo (e vagamente paranoico) e la madre, Genya, protettiva e remissiva, consapevole che “si fa quel che si può. Ma la cosa amara è lottare”. Non c’è molto altro da fare e Henry Roth rende alla perfezione i risvolti psicologici, le sfumature caratteriali, i contrasti, le piccole variazioni sul tema della vita quotidiana. La tensione non cede mai un attimo ed è costante grazie ai cambi di registro, alle dinamiche dei rapporti descritte con precisione maniacale in tutte le sfumature possibili, nei dialoghi e nel sovrapporsi degli idiomi. Chiamalo sonno è, ancora oggi, un romanzo dal potere ipnotico e avvolgente. Più di tutto, è la collocazione delle caratteristiche del Lower East Side, una ricostruzione fedele, minuziosa e particolareggiata, con un nugolo di personaggi di contorno che compongono una parte altrettanto determinante dell’ambiente, e contribuiscono non poco alla creazione dell’atmosfera generale. Poi la natura verticale di New York è tale che per David “in quello splendore fuso, ricordi e oggetti si sovrapponevano”. È un’annotazione importante per inoltrarsi in Chiamalo sonno: per le scoperte di David sono fondamentali i “gingilli messi nella impastatrice del desiderio, l’immaginazione la cazzuola, il capriccio il costruttore. Un muro, una torre, forti, sicuri, favolosi, che immunizzano lo spirito di un nugolo di frecce; la mente, l’esperienza, che taglia il flusso del tempo come una roccia taglia l’acqua. I minuti sgusciavano via, inavvertiti”. Il trasferimento da Brownsville al Lower East Side, con il padre che passa da tipografo a lattaio, implica infatti anche un cambio di direzione: il primo libro è raccontato da David in prima persona, il secondo (Il quadro) è raccontato da una voce narrante (ma nel finale si confonderanno di nuovo). Nell’instabile mosaico del Lower East Side all’inizio del ventesimo secolo, dove il tessuto multietnico è in continua fibrillazione, le esplorazioni di David procedono con sorpresa, come quando scopre la corrente elettrica nei binari del tram: “Che cos’era che aveva visto? Ora non lo sapeva più. Era come se lo avesse visto in un altro mondo, un mondo che, una volta lasciato, non poteva più essere richiamato. Tutto quel che sapeva, era stato completo e abbagliante”. Perdersi nelle vie oltre l’Avenue D vuol dire trovare l’amicizia, il sesso, la violenza e accorgersi che “dovevi sapere tutto, e d’un tratto quello che sapevi diventava qualcos’altro. Ti dimenticavi perché, ma era pur sempre qualcos’altro. Che ti faceva paura”. David torna ogni volta dalla mamma che resta un rifugio sicuro, “ma lei non sapeva, come invece sapeva lui, che l’intero mondo poteva frantumarsi in mille piccoli pezzi, tutti ronzanti, tutti mugolanti, e nessuno che li sentiva e nessuno che li vedeva eccetto lui”. Ma a casa trova anche il padre che è la vera incognita di Chiamalo sonno, essendo sempre pronto a esplodere. Con il passato che li insegue dall’Europa, prende vita un affresco ricchissimo, un continuo intrecciarsi di linguaggi e di prospettive. L’incrocio dei singoli episodi implica altrettante svolte, come il rosario snocciolato sul pavimento che ricorda inevitabilmente la croce sul tetto in Città di Dio di Doctorow, molti anni dopo Chiamalo sonno. Per David “il semplice passare del tempo era una gioia”, ma l’intrico del desiderio di conoscenza, nelle strade, nelle cantine e sui tetti del Lower East Side non lascia scampo. Nel ventre di una New York, che è un brulicare di famiglie che soffrono e lavorano, l’America non è poi così ospitale, ma vista da un bambino che brancola nel buio è pur sempre un’illusione non distante dal sogno o dalla magia.
giovedì 1 ottobre 2020
Vladimir Nabokov
Secondo John Updike, Vladimir Nabokov era un insegnante “ispirato, magnetico, galvanizzante” e le tre definizioni trovano abbondanti conferme nelle Lezioni di letteratura che raccolgono gli appunti e le analisi per i suoi corsi a Wellesley e e alla Cornell University tra il 1941 e il 1958. Il programma di studi compredeva Jane Austen (Mansfield Park), Charles Dickens (Casa desolata), Proust (La strada di Swann), Flaubert, (Madame Bowary) nonché Il Dottor Jekyll e Mister Hyde (Stevenson) La metamorfosi di Kafka e l’Ulisse di Joyce. Trattava anche Čechov, di cui però non è rimasta traccia negli archivi, ma la linea comune nei confronti degli allievi è che “possiamo smontare il racconto, possiamo scoprire come combaciano le sue tessere, come una parte della struttura corrisponde a un’altra; ma dovete avere in voi qualche cellula, qualche gene, qualche germe che vibri in risposta a sensazioni che non potete né definire né rifiutare”. Per quanto scrupoloso e inflessibile, Nabokov sa che le nozioni, anche ricche e insolite come si evince dalle sue Lezioni di letteratura, non sono mai sufficienti e va inseguita “la pura soddisfazione che offre un’opera d’arte ispirata e precisa; e questo senso di soddisfazione contribuisce a sua volta a formare il senso di un benessere mentale più genuino, quel tipo di benessere che sentiamo quando ci rendiamo conto che, nonostante tutti i suoi sbagli e i suoi propositi, anche il tessuto interiore della vita è questione di ispirazione e di precisione”. Le istruzioni partono da una cernita ben precisa che distingue gli effetti della narrativa dalla realtà (“La letteratura è invenzione. La finzione è finzione. Definire una storia una storia vera è un insulto all’arte e alla verità”), concentra l’attenzione sulla passione e sull’istinto (“Lo studio dell’impatto sociologico o politico della letteratura dev’essere stato escogitato soprattutto per quelli che, per temperamento o educazione, sono immuni dalla vibrazione estetica della vera letteratura, per quelli che non sentono il brivido rivelatore tra le scapole) e invita a un approccio creativo alla lettura (“Il buon lettore è chi ha immaginazione, memoria, un dizionario e un certo senso artistico, quel senso che mi propongo di sviluppare in me e negli altri ogni volta che mi si presenta l’occasione”). Anche sullo scranno accademico, Nabokov promuoveva con insistenza l’idea di “accarezzare” quei dettagli, “quei particolari e combinazioni di particolari, che fanno scoccare la scintilla sensuale senza la quale un libro è inerte”. Nelle sue digressioni, cercando di penetrare nei mondi creati dagli scrittori, non distingueva tra forma e contenuto e ribadiva ogni volta che, alla fine, “per godere di quella magia un lettore accorto legge il libro di un genio non con il cuore, neanche tanto con il cervello, ma con la spina dorsale. È lì che si manifesta quel formicolio rivelatore, anche se leggendo dobbiamo rimanere un po’ distanti, un po’ distaccati. Allora, con un piacere insieme sensuale e intellettuale, guarderemo l’artista costruire il suo castello di carte e il castello di carte diventare un bel castello d’acciaio e di vetro”. L’anatomia dei romanzi, le riflessioni sulla vita e sul lavoro degli autori, le meticolose ricostruzioni dei personaggi, delle ambientazioni e degli sviluppi delle trame son funzionali a comprendere “la creazione di un mondo nuovo” e ad affrontarlo con la giusta predisposizione. Come scrive ancora John Updike, Nabokov “chiedeva quindi alla propria arte, e all’arte altrui, qualcosa di più: un tocco di magia mimetica o di ingannevole duplicità, che fosse soprannaturale e surreale nell’accezione originaria di questi due termini”. Ecco cosa spiegano, ancora oggi, le Lezioni di letteratura di Nabokov: l’arte è un inganno, ma non possiamo farne a meno.