Non è un caso che lo sport di rilievo in Ohio sia il football, dove il contatto è indispensabile, per quanto rude e non risolutivo. Nel paesaggio suburbano di New Canaan, una cittadina nell’Ohio attraversata dalle ombre delle industrie abbandonate, quattro personaggi, che poi sono i principali protagonisti dei relativi capitoli, si incontrano in una notte. Bill Ashcraft, Stacey Moore, Dan Eaton e Tina Ross sono stati compagni di liceo, che resta una specie di bolla fantastica (e orribile) destinata a svanire al primo impatto con la realtà. Siamo nei primi dieci anni del ventunesimo secolo, l’Ohio è un caso patologico, e l’America sullo sfondo è un relitto aggrappato alla fede e alle buone intenzioni, ma che non ha speranze. Le guerre in Iraq, in Afghanistan e in tutto il mondo hanno generato una nazione di reduci che espandono le loro sofferenze all’infinito. Dan Eaton, che ha perso un occhio in missione, è uno di loro e, in effetti è il funerale di un altro compagno di scuola, Rick Brinklan, caduto a sua volta, ad aprire le danze di Ohio. C’è tutta la città a rendergli omaggio in un tripudio di stars and stripes e stridente dolore, ma New Canaan, “sclerotica in ogni sua manifestazione”, resta una smalltown di provincia dove tutti sanno tutto, ma c’è sempre un segreto ben nascosto. Bill, Dan, Stacey e Tina (e bisogna aggiungere anche Kaylynn e 56, alias Todd Beaufort) si incrociano nella notte americana di New Canaan e “qualunque sia il modo in cui affrontano la tempesta” sono pedine che scorrono sulla scacchiera di una disarmante desolazione. Dietro ogni angolo c’è un fantasma che li aspetta: non soltanto quello di Rick Brinklan, ma anche quelli di Curtis Moretti, morto di overdose, e quello di Ben Harrington, diventato songwriter, con un solo album Slow River. Le sue influenze principali sono Josh Ritter e Amos Lee, le cui canzoni hanno più di una connessione con le atmosfere di Ohio e nel suo suicidio si porta dietro altre due vite, un disastro. L’intreccio tra i personaggi è ambivalente: i loro legami del passato (sia quelli alla luce del sole che quelli sotterranei) mettono in risalto anche le figure dei genitori e dei professori Clifton e Bingham. Il mondo degli adulti resta a distanza di sicurezza e la meritevole caratterizzazione dei protagonisti li vede in un limbo, dove la dimensione notturna e le distorsioni dell’alcol e delle droghe (onnipresenti) spiegano che “la storia era già stata scritta. Cos’è la storia, se non una scelta della memoria. E cos’è la memoria, se non una resa infedele di sesso, morte, giustizia, assassinio, preghiera, avidità, speranza e amore. La memoria è duttile come l’anima”. Nelle diverse prospettive dei personaggi, che sono la creazione migliore di Ohio, Stephen Markley riesce a districarsi con agilità tra l’impressione che le loro vite fossero “tutte parte di un grande gioco di prestigio, un sapiente illusionismo” e la constatazione che non è rimasto “più niente a cui tornare”. Alcuni passaggi sono toccanti, altri transitori: se Stacey Moore “aveva lasciato che New Canaan occupasse uno spazio psicologico così immane da dimenticare che era un posto come tanti, e che la vinta lì andava avanti come ovunque”, Bill Ashcraft ammette che “a volte non mi capacito di quante cose abbiamo perso. Magari è solo l’assaggio di quello che ci resta ancora da perdere”. Ci siamo tutti noi, nell’alternarsi del passato e del presente nel corso del racconto e delle rievocazioni: tutta la storia di Ohio è costruita benissimo ed è “come osservare un bellissimo, spaventoso pianeta alieno dall’interno di una scatolina di vetro”. Però Stephen Markley resta sempre in superficie e sembra chiedersi in continuazione come spiegare al lettore “la tristezza, le tragedie di quel posto”. Insomma, c’è molto lavoro, fin troppo ma nei suoi eccessi, manca qualcosa: Ohio è ben articolato, anche se il meccanismo dei flashback con lo scorrere dei capitoli diventa prevedibile, rende le coincidenze nottambule un po’ forzate, compreso il finale che resta ingarbugliato. Per essere un esordio (notevole), basta e avanza, ma i limiti sono piuttosto palesi: forse sarebbe bastato un po’ meno per ricordarci che “ci presentiamo tutti a questa festa senza invito e senza un apparente padrone di casa e che possiamo andarcene da un momento all’altro senza motivo”. Su questo, tutto sommato, non c’è dubbio, in Ohio come altrove.
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