Il generale William T. Sherman scriveva al fratello il 30 giugno 1964: “C’è da far rabbrividire il mondo intero, nel vedere l’impressionante spettacolo di morte e distruzione. Nei due ultimi mesi l’azione ha progredito giorno per giorno, e non vedo nessun segno di possibile tregua finché uno o entrambi gli eserciti non saranno distrutti... Comincio a considerare la morte e il macello di un paio di migliaia d’uomini come una cosa da niente, una specie di piovasco mattutino; e può darsi che sia una bene esser divenuti così insensibili”. È la guerra di secessione che ha generato gli Stati Uniti d’America e, come un brutale peccato originale, la sua ombra si tramanda nei secoli, nella voce di chi ha “vinto e perso troppe volte”. L’urlo del generale Sherman arriva dagli stessi campi di Wilderness, Virginia, teatro di una delle più sanguinose battaglie, da cui si diramano le trame di Lance Weller. Seguendo l’odissea di un sopravvissuto, Abel Truman, il romanzo gioca con il tempo e la storia: è un lungo flashback che raggruppa segmenti di ricordi in ordine sparso, cercando di restituirgli una dignità, perché “non si può togliere un uomo dal suo tempo e aspettarsi di capirlo”. Abel Truman è un vecchio soldato, un relitto della guerra, è una figura sofferente, non del tutto vivo, non del tutto morto, che “non poteva impedire a se stesso di vedere ancora una volta le immagini della guerra, di sentire i suoni della guerra e di riconoscere ancora una volta le crudeltà lasciate in dote dalla guerra, con cui è così difficile convivere dopo”. Il suo è un viaggio in una catastrofe immane: attraversa la guerra, è ferito e abbandonato, poi si inoltra nella wilderness puntando verso la costa occidentale, l’oceano e le foreste, in cerca di “un odore buono, di un altro mondo, più pulito”. Viene aggredito, gli portano via il cane, ma in qualche modo viene anche soccorso, aiutato, difeso e ospitato. Il percorso è tortuoso e accidentato, ma Lance Weller riesce nell’impresa di renderlo fruibile, nonostante assecondi l’inevitabile confusione che prorompe dalla battaglia e le atrocità che si moltiplicano sugli uomini, sulle donne e sugli animali. La trama comincia a intravedersi con maggiore chiarezza a metà strada, dove poi s’invola in un finale devastante, non privo di un sua giustizia poetica. L’eredità di Cormac McCarthy è palese nella scrittura di Lance Weller che, nelle sue descrizioni (che non risparmiano alcun dettaglio), sceglie un tono molto più drammatico che epico, sapendo che le circostanze storiche hanno travolto ogni prospettiva. Lo dice Abel Truman: “A essere sincero non so più che cosa siamo. Eravamo una cosa, adesso siamo qualcos’altro. La guerra ha mischiato tutto. Ecco che cosa ha fatto la guerra”. È così che nel caos seguito all’apocalisse delle battaglie i fuggiaschi vengono curati dai nemici, i predatori restano in agguato e la lotta per la sopravvivenza prevede carne di cervo e di scoiattolo, mentre la terra è disseminata di resti umani. Un carro, un’abitazione, una strada sono nello stesso tempo una possibilità e un pericolo: nessuno è al sicuro e la compassione è un rischio come succede prima a Sherman Grant e Hypatia, e poi a Glenn ed Ellen Makers. Nel suo peregrinare verso ovest, Abel Truman ha la fortuna di incontrare entrambe le coppie, che hanno sperimentato la brutalità razzista e ignorante, ma nonostante tutto riescono ancora a provare pietà per il prossimo che gli appare in un essere disperato, affamato e mutilato. Questo barlume di umanità spicca nella generale ferocia che domina Wilderness, e spinge Abel Truman ad andare incontro al suo destino, salendo lungo un impervio sentiero, camminando nella neve, sapendo che in cima alla montagna lo aspetta un altro combattimento, senza paura perché ormai non teme più nulla. Il titolo, a quel punto, diventa ambivalente: là fuori l’America è selvaggia e crudele e la guerra civile è l’inizio, non la fine, di una storia scritta con il sangue.
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