Ci vogliono sempre troppe parole per raccontare un outsider e Holly George-Warren le ha usate tutte per dispiegare la parabola impazzita di Alex Chilton. Giovanissimo, prima ancora che riesca a rendersene conto, viene trascinato nel gorgo dell’industria discografica che allora si reggeva (e si è retta a lungo) sulla connivenza tra studi di registrazione ed etichette. È proprio lungo quel sottile crinale che Alex Chilton si è mosso, non sempre a suo agio, come ammette con un certo candore: “Credo che la mia vita sia stata solo una serie di coincidenze nell’industria discografica. La prima cosa che ho fatto è stato il disco più grande che avrei fatto”. A partire dai Box Tops, soprattutto con The Letter, uno dei grandi hit del 1967, poi con i Big Star e infine con una lunga e tortuosa carriera solista (“La più strana carriera mai vista” ha scritto qualcuno), anche in veste di produttore, Alex Chilton ha lasciato un marchio indelebile nella storia del rock’n’roll più oscuro e marginale, che è poi l’unico che conta. È stato l’ultimo dei grandi artisti incapaci di scegliere tra genio e follia, convinto che “il buon rock’n’roll è partito dai cantanti rockabilly dei Cinquanta. È sempre stato selvaggio e fuori controllo, e ha sempre avuto un senso per il caos, e il punk ha riportato in vita quell’approccio in maniera molto forte. Per me, è buono quanto il rock’n’roll. Il rock’n’roll deve essere fuori controllo, è una cosa folle e deve farti andare fuori di testa”. Da lì in poi è un viaggio nei bassifondi, anche perché è laggiù che il rock’n’roll evita l’estinzione. Alex Chilton si ritrova in un groviglio di alcol e indecisioni, relazioni e separazioni, miscugli chimici e naturali, come se fosse incapace di venire a patti con la realtà. Le canzoni, una più bella dell’altra, sono le ultime spiagge di salvezza, ma il più delle volte non bastano e Alex Chilton si ritrova a fare il lavapiatti, il tassista, persino il taglialegna. Una vita selvaggia, riflesso di quella propensione verso una musica grezza, selvaggia, non decorativa, il vero rock’n’roll disadorno, ribelle a ogni costo, con o senza causa. La ricostruzione di Holly George-Warren è documentata, ricchissima, quasi una storia orale, vista la quantità di testimonianze riportate. Tra le tante, Paul Westerberg diceva di Alex Chilton che “è un geniale camaleonte o solo uno che si è fottuto il cervello troppo presto”. Il suo stile di produzione (“Mi piace il sound che ottieni quando entri spontaneamente in uno studio e ti concedi una serata travolgente e selvaggia. Sto provando a tenermi alla larga dai meccanismi del sistema”) già sperimentato con i Cramps e le comuni affinità alcoliche avevano convinto i Replacements ad assumerlo per la produzione di Tim ma, per quanto gradito al gruppo, non era proprio quello che cercava l’etichetta discografica, a riprova che, come diceva Alex Chilton “i funzionari discografici tendono ad andare nel panico in mia presenza”. Scoprite con Holly George-Warren come è andata a finire (anche se non è difficile da immaginare). Comunque, i Replacements gli dedicarono una canzone (Alex Chilton, appunto) nel disco successivo Pleased To Meet Me (prodotto da Jim Dickinson, uno dei complici più assidui di Alex Chilton) e suonò con ogni genere di perdente, da Tav Falco a quello strambo (e geniale) trio con Alan Vega e Ben Vaughn con cui incise Cubist Blues, un disco di qualche anno fa che rendeva bene l’idea deviante e fuorilegge che aveva della musica. Forse anche della vita, visto che tra i demoni che coltivava e quelli che si ritrovava attorno senza volerlo (compreso l’uragano Katrina che lo costrinse a lasciare la sua casa di New Orleans), Alex Chilton ha passato gran parte dei suoi anni in una zona oscura e pericolosa. Per fortuna Holly George-Warren è abbastanza temprata da evitare inutili reticenze e da considerare i contrasti, le ombre e nello stesso tempo identificando con estrema precisione l’uomo, le tragedie, le ossessioni. Alex Chilton diceva che attraverso il rock’n’roll voleva raggiungere una sorta di “incosciente trascendenza”. Facile intuire che la sua carriera sia sempre stata un punto interrogativo o, parafrasando quello che diceva Ben Vaughn a proposito Like Flies On Sherbert fosse composta, da “un sacco di domande ma nessuna risposta”. Ironia della sorte, l’unico vero successo internazionale sarà la versione di September Gurls delle Bangles, un gruppo femminile agli antipodi della sua percezione. La storia di Alex Chilton è fatta così, fino alla fine: un appuntamento mancato, un disastro annunciato. Da perfetto loser, proprio quando l’ennesima e trionfale riscoperta dei Big Star gli stava offrendo un qualche concreto riconoscimento, ha tolto il disturbo. Ma qui dentro c’è solo il vero rock’n’roll, e il prezzo che Alex Chilton ha pagato per inseguirlo.
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