Nel background di Un altro tamburo c’è un movimento tellurico che Isabelle Wilkerson in Al calore di soli lontani descriveva così: “Durante la prima guerra mondiale un pellegrinaggio silenzioso mosse i primi passi entro i confini della nazione. La febbre scoppiò senza preavviso né segni premonitori e, esclusi i diretti interessati, se ne accorsero in pochi. Si placò soltanto negli anni settanta, con trasformazioni inimmaginabili sia al Nord che al Sud; nessuno, nemmeno chi si metteva in viaggio, ne sospettava la portata, e che ci sarebbe voluta quasi una vita per portare a termine tutti i cambiamenti”. Le migrazioni che hanno cambiato il volto dell’America nella rappresentazione di William Melvin Kelley partono da uno stato immaginario che “confina a nord con il Tennessee; a est con l’Alabama; a sud col golfo del Messico; a ovest col Mississippi”. Un bel giorno, gli abitanti neri lasciano le loro case e laggiù non rimane nessuno. Tutto comincia quando Tucker Caliban, che da sempre è stato al servizio dei Willson, discendenti di un generale confederato e dominus dello stato (tanto è vero che la capitale, Willson City, porta il loro nome), incendia e distrugge le sue proprietà. Per la comunità nera il suo gesto ha un effetto dirompente: Tucker è uno dei pochi che ha potuto comprarsi, grazie alla sua fedeltà, una porzione di terra, intesa come un’ideale garanzia per l’emancipazione. La rottura è quindi avvelenata dalla delusione e diventa il detonatore per una fuga di massa, e senza rimpianti. La reazione raccolta sulla strada, anzi, sulla veranda, da chi resta è rozza e fuorviante: “Guardate cosa sta succedendo in Mississippi o giù in Alabama. Di quella roba là non dobbiamo più preoccuparci. Abbiamo davanti un nuovo inizio, come dice quello là. Adesso possiamo vivere come abbiamo sempre vissuto senza preoccuparci che qualche negro ci venga a bussare alla porta e si voglia mettere a tavola con noi per cena”. La provocazione è implicita, ma le fondamenta storiche sono solidissime: con Un altro tamburo, William Melvin Kelley immagina e riporta l’atmosfera che ha generato la diaspora afroamericana e nella sua scrittura le prospettive si moltiplicano, si dividono e portano il lettore a vedere da distanza ravvicinata la drammaticità di una frattura epocale. Il tono è aspro e asciutto, la costruzione laboriosa e meticolosa nel sottolineare la rivendicazione dell’esistenza, l’istinto per la sopravvivenza, l’orgoglio di una partenza: da lì, William Melvin Kelley dipana una storia che ha nel legame tra l’ultimo discendente dei Willson e Bennett Bradshaw lo snodo centrale di Un altro tamburo. Attraverso il diario di David Willson, si intravedono i filamenti di amicizia con Bennett Bradshaw: al college (del Nord) bianco e nero riescono persino a condividere una camera, non senza imbarazzi ed equivoci, ma se non altro trovando un punto d’incontro. Annota David Willson: “A volte penso che io e Bennett non siamo davvero amici; cioè, non parliamo quasi mai di faccende personali: vestiti, ragazze, materie di studio (tranne quando hanno a che fare coi nostri progetti futuri), o gli argomenti di cui parlano in genere gli amici. Parliamo sempre di politica, modelli di governo, comunismo contro capitalismo, questione razziale. Ma del resto, sono queste le cose che ci interessano davvero, e perché non dovrebbe essere così?”. Nel rapporto tra i due, David Willson matura la consapevolezza che la svolta è dietro l’angolo (“Chiunque, chiunque si può liberare dalle catene. Quel coraggio, per quanto sia nascosto in profondità, aspetta sempre di essere chiamato fuori. Basta solo usare le parole giuste, e la voce giusta per pronunciarle, e uscirà ruggendo come una tigre”), ma lascia intendere William Melvin Kelley, già nel 1962, è soltanto un miraggio, molto pericoloso. La realtà, anche quella storica, è quella raccontata da Un altro tamburo, soprattutto nel tragico finale, durissimo, ma non così insolito nell’America dove prosperavano razzismo e schiavitù.
lunedì 30 dicembre 2019
sabato 28 dicembre 2019
Salvatore Scibona
I nomi si trasformano, assecondando le metamorfosi delle personalità e dei tempi: dal Vietnam all’Afghanistan, guerre trasmesse da padre in figlio, lungo un albero genealogico insanguinato, che non prevede radici e resta in balia di logiche imperscrutabili. Così, se “una persona è un mondo che cammina per il mondo”, le storie individuali restano appese a dossier indecifrabili e lacunosi e perdersi per sempre è un attimo. Il frutto acido che resta è una solitudine che si trasforma in violenza mentre la ricerca dell’identità perduta porta nei solchi di un’America desolata, tra ghetti e motel sgangherati, industrie fallimentari e inquinanti dentro quel paesaggio in the middle of nowhere che porta a chiedersi “Quante cose non siamo riusciti a vedere perché dovevamo stare lì a guardare? Quante più cose abbiamo visto quando eravamo con altri?”, e l’amarezza è compresa nel prezzo. Il principale protagonista, figlio di agricoltori dello Iowa, Vollie Frade che diventa Tilly e/o Dwight, “era stato un assassino. Era stato sedotto dal potere dell’America, dagli strumenti con cui l’America moltiplicava il suo potere omicida. In realtà lui era stato solo uno strumento, il moltiplicatore che l’America aveva impiegato per soddisfare la propria furia omicida”. È proprio Il volontario che determina le onde sismiche che smuovono e connettono i personaggi del romanzo di Salvatore Scibona. Tornato dal Vietnam, dove ha trascorso più turni (e una lunga prigionia), si ritrova a New York nel buio, tra il 1973 e il 1974, con una missione segreta che si risolve in un disastro. Rimasto solo, senza alcun appiglio, con un bagaglio sterminato di fantasmi, Il volontario ha soltanto un indirizzo a cui rivolgersi, quello di una comune dove vive il suo commilitone Bobby Heflin, dall’altra parte dell’America, nel New Mexico. Lo lega solo una sparuta corrispondenza ritirata da una casella postale, ma si mette in viaggio coast to coast. Arrivato a destinazione non trova Bobby Heflin, ma il piccolo Elroy che vive con Louisa. Lei è la madre, ma la figura paterna resta imprecisata, visto che la libertà dei costumi della comune lasciava ampi margini di discrezione nella diffusione di gesti d’amore. Il volontario decide di occuparsi di Louisa ed Elroy, ma non ha molto da offrire essendo giusto un nome in un dossier: viaggiano nel deserto, dormono in macchina, mangiano quello che capita passando da una stazione di servizio all’altra. Quando si separano ed Elroy si ritrova abbandonato, solo con il suo secondo nome, Peace, perché la pace “significa che siamo liberi dalla guerra”, ma vivono in un paese affollato di reduci. Anni dopo, lo stesso Elroy è stato a più riprese in Afghanistan e all’ultimo rientro dichiara di essere fuori, e del resto non è stato in grado di accudire il figlio, Janis che diventerà Willy, avuto da una fugace relazione. Il suo abbandono, all’aeroporto di Amburgo, è l’incipit del romanzo che prende forma a strati, spiazzando a ripetizione il lettore: nel nucleo c’è una profonda tristezza come prodotto derivato dall’impotenza di fronte alle ingerenze del potere in ogni forma. La disgregazione è completa, e non pare esserci possibilità di rimedio. La sopravvivenza di un nome a discapito di un altro segue un’andamento elicoidale, come se un pensiero subliminale avesse contagiato il DNA della scrittura esagerata di Salvatore Scibona. Nel suo intercalare trovano posto il linguaggio della pubblicità in tutte le sue forme, un’ampia e puntuale digressione sugli sviluppi delle crisi finanziarie, residui degli esperimenti atomici a Los Alamos, e molto altro ancora, come se Il volontario fosse un prisma dentro cui filtra l’incompiuto passaggio dal ventesimo secolo a oggi, con una singolare coda che guarda al domani. La dimensione della storia, che si sviluppa lungo quattro generazioni e tre diversi continenti, ammette sensibili divagazioni di percorso, di ritmo e di tono, compreso il bizzarro finale, che non sempre paiono immediate nel complesso contesto che Il volontario offre. L’architettura del romanzo prevede una cortina fumogena molto spessa nel mascherare legami e fratture, che sono cause ed effetti di un disorientamento più acuto, un distacco più netto che va cercato restando incollati alle tracce, nome dopo nome, incontro dopo incontro, fuga dopo fuga. Un romanzo ingombrante e coraggioso, con cui è necessario fare i conti.
venerdì 13 dicembre 2019
Robbie Robertson
Forse restando fedele al titolo (che era anche quello della canzone che concludeva il suo primo album solista, arrangiata da Gil Evans), Robbie Robertson non nasconde nulla, si concede con generosità, esplorando con dovizia particolari e senza reticenze ombre ed eccessi, ed è sincero anche nel far coincidere la storia raccontata da Testimony con quella della Band. Non è un’opzione così ovvia o banale: Robbie Robertson delimita un periodo nel tempo, gli anni che vanno dal 1965 al 1976, e un solco nei territori americani che ricalcano le intersezioni sulla mappa dall’Acadia alla Louisiana. La definizione delle coordinate è essenziale per seguire la ricostruzione dell’identità di Robbie Robertson che è un frutto cosmopolita del melting pot: Testimony è prodigo di sfumature nel scandagliare la sua formazione, che ben presto viene travolta dalla scoperta del rock’n’roll. Comincia battendo a tappeto bettole, bar e postriboli con Ronnie Hawkins, un’esperienza che gli permette di affinare le abilità strumentali, di praticare i fondamentali del blues e del rhythm and blues nonché di apprendere i pericoli e le difese immunitarie della vita on the road. È con Ronnie Hawkins che conosce i musicisti che diventeranno partner e complici delle sue avventure musicali, a partire da Levon Helm per arrivare alla line-up degli Hawks con Richard Manuel, Garth Hudson e Rick Danko. In Testimony c’è un’ampia ricostruzione del passaggio naturale dagli Hawks alla Band, una volta svolta giunta seguendo spontaneamente i progressi musicali, e non solo, così come la racconta Robbie Robertson: “Avevamo ripulito la macchina dei sogni, e per noi era importante viaggiare senza bagagli superflui”. L’incontro, determinante, con Dylan fu propiziato dallo stesso milieu, da una curiosità instancabile e dall’accortezza di essere di fronte a un talento unico e inimitabile. Ecco come Robbie Robertson descrive il momento in cui Dylan gli fece sentire in anteprima Highway 61 Revisited: “Non riuscii a capirci molto, con la musica altissima e Bob che ci parlava sopra, ma davanti a tutto c’era la sua voce, da cui sgorgavano le più strabilianti acrobazie liriche che erano mai state impresse su vinile. La sua incredibile immaginazione e il suo originalissimo fraseggio vocale mi stesero completamente. Da dove spuntava fuori quella roba? Il rock’n’roll non era nato con una sofisticata attitudine per i giochi di parole, ma non l’avresti detto ascoltando quelle canzoni”. Era una frontiera che si stava spalancando e la Band si ritrovò nella tempesta con il suo capitano e, come ammette Robbie Robertson, all’epoca “fu pesante. Eravamo nel mezzo di una rivoluzione rock’n’roll; o aveva ragione il pubblico, o avevamo ragione noi”. Gli strali e le contestazioni per la svolta elettrica non lasceranno però danni permanenti e il processo di osmosi tra Dylan e la Band gioverà a entrambi, realizzando nella singolare vita comunitaria nei boschi di Woodstock, quella “repubblica invisibile” che ruota attorno a Music From The Big Pink e ai Basement Tapes. La forma scelta da Robbie Robertson si avvale di uno stile dal tono colloquiale, uno storytelling senza particolari velleità letterarie che però ha il pregio indiscutibile di condurre il lettore per mano proprio lì, dove stava succedendo tutto: dalle peripezie al seguito di Dylan attorno all’emisfero agli incontri con Jimi Hendrix e Allen Ginsberg, con i Beatles e i Rolling Stones, con Dr. John e Gregory Corso, con Marshall McLuhan e Martin Scorsese. I ritratti sono sempre benevoli e accurati, l’aneddotica è ricchissima e costante nel suo fluire e il collante ideale resta la musica, intesa come strumento per esplorare il mondo in nuove avventure. È un libro che brulica e vive di musica con Muddy Waters, i Velvet, Neil Young e Joni Mitchell e una lunga teoria di colleghi chitarristi, tra cui Roy Buchanan, Eric Clapton e Ron Wood. Una “festa mobile” che segue l’inimitabile groove della Band: Testimony è una versione intensa e colorita di quegli anni turbolenti che Robbie Robertson racconta da dentro, da protagonista. È il testimone, più che la testimonianza, con la sua voce a rendere plausibile l’interpretazione dei fatti, visti e vissuti da vicino, ma ricollocati nella giusta prospettiva e con quel diplomatico savoir faire, come se fosse una guida sui Catskill, per le vie di New York o di New Orleans. Lì si capisce il legame con le immagini e l’assidua frequentazione di Robbie Robertson con il cinema che si traducono nella ricostruzione della vita al Chelsea Hotel fino al commiato finale di The Last Waltz con cui Robbie Robertson conclude Testimony. Una scelta appropriata che racchiude un sottile cerchio di genio e follia. La fine, tra il 1970 e il 1971, di Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison segna un punto di non ritorno che Robbie Robertson riporta ammettendo che “questi eventi gettarono una luce spietata sulle condizioni della Band. La vita può volare via, specialmente se giochi con il fuoco”. Il romantico e maestoso crepuscolo di The Last Waltz arriva calando il sipario nel momento giusto, perché come dice Robbie Robertson, “eravamo sopravvissuti alla follia del mondo, ma non alla nostra”. Anche in questa lucida onestà, Testimony è puro rock’n’roll, dall’inizio alla fine, per tutte le sue seicento pagine. Obbligatorio.
giovedì 12 dicembre 2019
Stephen King
L’assemblaggio dei cliché predisposto da Stephen King in La zona morta ha perfezionato il suo standard che da lì in poi è proliferato immutato. La cittadina di provincia, l’imprevisto che travolge le apparenze della normalità, una certa avversione al potere costituito, un serial killer (qui basato su una storia vera), la paura dell’apocalisse nucleare e la tradizione americana dell’assassinio dei presidenti, il rapporto tra generazioni di padri e figli, una sottile malinconia di fondo e, naturalmente, l’elemento del mistero, nello specifico la chiaroveggenza, come ulteriore scarto rispetto alla realtà, sono gli elementi distintivi del collage su cui è basato La zona morta. Anche il nome del protagonista, Johnny Smith, sembra consolidare l’idea di una rivisitazione dei luoghi comuni americani, come se Stephen King avesse voluto distribuire le carte della vita quotidiana e tradizionale un po’ a caso per poi far leva sull’imprevedibilità. Per Johnny Smith, si tratta della capacità di vedere avanti e indietro nel tempo, che è un dono e insieme una maledizione. A ben guardare le sue visioni sono sempre parziali e il suo intervento nel modificare l’evolversi della storia non va mai nella direzione voluta. C’è un margine di deviazione, come se la chiaroveggenza fosse una porta aperta, ma non una destinazione certa. La zona morta è proprio in quella specifica area e Johnny Smith pare essere cosciente di questa condizione che lo lascia impotente, fragile e nudo davanti all’incalzare degli eventi. Lo snodo cruciale è l’incontro con la figura di Greg Stillson, un politico arrembante e particolarmente infido. Non è difficile immaginare che Stephen King abbia ricalcato il personaggio di Greg Stillson su quella progenie di candidati spregiudicati e pronti a tutto che ebbero poi in Ronald Reagan (La zona morta risale al 1979) l’apice indiscutibile e intramontabile, nonché il capostipite (insieme alla Thatcher) di tutte le imitazioni (alcune particolarmente deleterie) che seguirono. Il conflitto tra le ambizioni del candidato e le percezioni di Johnny Smith, il cui nome in questo caso appartiene proprio al common man, l’uomo della strada, rivela l’appariscenza tra due diverse solitudini. Anche qui il contrasto con Greg Stillson è palese visto che cerca con insistenza il contatto con tutti, ma nel modo più banale e frettoloso, e con l’ovvio obiettivo di guadagnare un consenso, mentre il tocco umano di Johnny è sinonimo di relazione. Nel suo caso, a un livello troppo immediato e profondo, e quindi doloroso. L’arte della persuasione si scontra con l’indefinita facoltà di Johnny di proiettarsi lungo frazioni di tempo e l’attrito tra protagonista e antagonista è il motore della storia, come ha confermato lo stesso Stephen King in On Writing: “La zona morta scaturì da due domande: può un assassino politico essere nel giusto? E in questo caso, se ne può fare il protagonista di un romanzo? Il buono? Queste ipotesi di lavoro richiedevano secondo me un politico pericolosamente instabile, un individuo che potesse dare la scalata all’Olimpo elettorale mostrando al mondo il volto gioviale dell’ottimista e accattivandosi l’elettorato rifiutando di giocare secondo le vecchie regole”. È il nucleo nascosto da Stephen King in un romanzo che scatta un capitolo dopo l’altro, come se fossero episodi di Twilight Zone, in modo molto lineare, anche elementare volendo, ma efficace, dove l’equilibrio tra l’elemento eccezionale e la realtà filtrata attraverso la fiction definisce quella forma leggera, pop, e senza particolari pretese, ma che resta magnetica e a prova di riduzione cinematografica, peraltro resa in modo altrettanto accurato dal pregevole lavoro di David Cronenberg.
mercoledì 11 dicembre 2019
Kurt Vonnegut
Quando inizia a scrivere racconti, nel 1950, Kurt Vonnegut è spinto da necessità tanto prosaiche quanto impellenti, come raccontava nell’intervista con Wendy Smith in L’arte dello scrivere: “Avevo bisogno di soldi. L’unica mia possibilità era la narrativa, perché le riviste pagavano molto bene i racconti. Probabilmente ora pagano meno, be’, di sicuro non molto di più di quando cominciai quarant’anni fa. Dopo breve tempo, guadagnavo di più con i racconti che alla General Electric, così diedi le dimissioni”. Era tutta un’altra epoca: la short story aveva una valore particolare, non era soltanto intrattenimento, aveva l’onere compito di rappresentare, attraverso la fiction, l’evoluzione di una società, con le sue idiosincrasie e i suoi mutamenti. È vero come dice Dan Wakefield tra le righe del voluminoso apparato critico che “i racconti erano stati il nostro passatempo nazionale, ma ora venivano sostituiti dalla televisione” e quel passaggio pare alimentare l’idea di Dave Eggers secondo il quale “è passato molto tempo da quando un racconto ci ha detto, o ci ha ricordato, cos’era nobile e cosa malvagio, come dovremmo agire e come possiamo vivere dignitosamente”. Questa distinzione illustra senza possibilità di equivoco, la sottile, ma evidente linea che unisce quelle “storie moraleggianti incastonate nella germogliante prosperità”, come le definisce ancora Dave Eggers. È la coerenza di Vonnegut nel perseverare a tenersi a distanza da forme di omologazione e nel mettere in evidenza le distorsioni di un mondo sempre più complicato. La gamma dei soggetti e la vastità dei racconti hanno suggerito una suddivisione tematica piuttosto spartana, ma funzionale in Guerra, Donne, Scienza, Amore, Etica del lavoro contro fama e fortuna, Comportamento umano, Il direttore della banda e Il futuro, un argomento a doppio taglio. Secondo Jerome Klinkowitz: “Vonnegut usava ambienti futuristici per contrastare sperate utopie con le distopie che nelle imprese umane le seguono così spesso”. La definizione non è così contorta come appare in prima istanza: con l’ironia e l’arguzia che lo distinguono, Vonnegut aveva un tocco profetico. In Tutti i racconti confluiscono le storie di Guarda l’uccellino, Benvenuta nella gabbia delle scimmie e Baci da cento dollari e Ricordando l’apocalisse, più una ventina di inediti sparsi e formano una galassia narrativa imponente che mette in luce, una volta di più, la singolare identità di Vonnegut. Lo stile si propaga senza soluzione di continuità secondo il principio di Vonnegut per cui come narratore sceglie di non nascondere nulla al lettore”, anche quando le conseguenze delle scelte e delle azioni di un’umanità un po’ distratta sono catastrofiche, se non proprio irreparabili. È un latente senso per l’apocalisse che lo distingue, e che lo portava a precisare che “di certo, noi distruggiamo l’armonia del pianeta. Ora come ora siamo sul punto di uccidere tutto, e non ne saremmo capaci, se non fosse per i nostri grandi cervelli. Gli elefanti hanno in qualche misura lo stesso problema: dato che i loro pascoli si riducono, questi bestioni distruggono un intero villaggio ogni giorno; radono tutto al suolo per mangiare. Essere grandi e forti come loro una volta sembrava un’idea brillante, ma non è più un buon sistema per sopravvivere. E gli umani... Ogni mattina, solo qui a New York, otto milioni di persone di alzano e vanno in giro come pazzi per otto ore”. Era soltanto una risposta dentro un’intervista, ma suona già come l’incipit dell’ennesimo racconto, perché per Vonnegut la nobile arte del seguire un personaggio dentro una storia, partiva dall’istinto, dall’osservazione, dal saper leggere attraverso e oltre le confuse coordinate della realtà. Con uno spiccato senso di complicità verso i suoi lettori che, in cima alla mole di Tutti i racconti, si premura di allertare così: “State attenti perché partendo da qui potremmo approdare chissà dove”. Non è l’unica incognita, ma il viaggio resta formidabile.
lunedì 9 dicembre 2019
Greil Marcus
Indagando vita, gesta, morte e miracoli di Robert Johnson, Harmonica Frank, Sly Stone (e la versione definitiva del mito di Stagger Lee) Randy Newman, The Band ed Elvis (più di tutti), Greil Marcus traccia una dettagliata e appassionata ricostruzione dell’indissolubile rapporto tra America e rock’n’roll. Un lavoro analitico svolto con un gusto singolare, perché è “mettendo insieme i pezzi, cercando di capire cosa è novità e avventura, cosa è debole e compiacente, può darci un’idea di quanto spazio esiste in questa cultura musicale, e nella cultura americana, un’idea di quanto un cantante e un gruppo possono fare con una serie di canzoni mischiate nell’incertezza che è il pubblico pop. Guardando indietro negli angoli, possiamo scoprire di chi è l’America in cui stiamo vivendo in ogni momento, e da dove proviene. Con fortuna, potremo anche toccare lo spirito del luogo che gli americani hanno sempre cercato, e nel cercare hanno saputo creare”. Questa vocazione si propaga lungo Mystery Train cercando di individuare una possibile definizione di due entità mutevoli e sfuggenti che Greil Marcus insegue senza alcuna volontà di collocarle in un recinto preciso, per non dire accademico. Sapendo che “il rock’n’roll è una combinazione di belle idee assorbite dalle mode, terribile ciarpame, fallimenti spaventosi nel gusto e nel giudizio, dabbenaggine e manipolazione, momenti di incredibile chiarezza e invenzione, piacere, divertimento, volgarità, eccesso, novità e assoluto indebolimento, tutto mischiato in modo perfetto nelle radio Top 40, la versione rock’n’roll definitiva dell’America”, Mystery Train si inoltra in cerca di un’identità o, volendo, di una coerenza su un territorio instabile. Prima di tutto perché, come scrive Leslie Fiedler: “essere americano (a differenza dell’essere inglese, francese o di qualunque altra nazionalità) è esattamente saper immaginare un destino invece che ereditarlo; poiché siamo sempre stati, da quando siamo americani, co-abitanti del mito piuttosto che della storia”. La formazione di un sentire comune è un tema che tende a sfuggire e Greil Marcus sa che “la più interessante battaglia americana potrebbe essere la battaglia per liberare se stessi dalle limitazioni con cui una persona nasce, per poi imparare qualcosa circa il valore di quelle limitazioni”. Quello è il solco dove i semi del rock’n’roll hanno attecchito e, non a caso, dato che Greil Marcus si premura di ricordare che “la nostra cultura trova la sua tensione e la sua vita dentro i confini del luccichio e del suo scomparire, nel tentativo di venire a termini con il tradimento senza abbandonare la promessa”. A quel punto, le digressioni lungo le storie dei singoli musicisti servono a scoprire che in tutte le sue contraddizioni “l’America è un posto pericoloso, e trovare comunità richiede il massimo che possiamo dare. Ma se l’America è pericolosa, le sue piccole utopie, non chiedendo nulla, promettendo sicurezza, sono normalmente pericolose”. Tra queste ultime, è inevitabile pensare al rock’n’roll, e non solo perché “la buona arte è sempre pericolosa, ha sempre un finale aperto. Una volta che l’hai mandata fuori nel mondo ne perdi il controllo; la gente la inserirà nelle proprie vite in ogni modo possibile”. Nelle pieghe del suo spirito, che va un po’ oltre gli aspetti musicali e culturali, Greil Marcus individua un mito “all american”, capace, nei suoi principali epigoni e a distanza nel tempo, di reggere “la tensione tra la comunità e la fiducia in se stesso; tra la distanza dal proprio pubblico e l’affetto per esso; tra l’esperienza condivisa della cultura popolare e il talento speciale di artisti che traggono energia dall’esperienza condivisa e contemporaneamente la cambiano. Questo è ciò che rende il rock’n’roll al suo meglio un’arte democratica, quantomeno nel significato americano della parola democrazia. Penso che ciò sia vero perché la nostra democrazia non è nient’altro che una contraddizione: la fede di ogni uomo e di ogni donna in se stesso e se stessa, e così la solitudine della separazione, e così il desiderio di armonia e di comunità”. A saldo delle esternazioni apodittiche e del tono, che è spesso tranchant, Mystery Train resta un avvicente spiegazione del mistero gaudente del rock’n’roll e un valido ripasso di un’idea di America, ormai molto lontana.
venerdì 6 dicembre 2019
Wendell Berry
Wendell Berry in questi saggi è più lucido che mai nel contrapporre le logiche industriali all’intimità del legame dell’uomo e della donna con la natura visto che “veniamo dalla terra e ci torneremo, e così siamo affondati nell’agricoltura quanto siamo affondati nella carne”. La traccia che unisce Il corpo e la terra è in rilievo e non è difficile seguirla: nell’articolare la complessità delle sue analisi, Wendell Berry usa un linguaggio diretto, per quanto forbito, anche quando si ricollega ad ampie sezioni delle opere di Shakespeare, Omero e William Butler Yeats. Gli snodi principali sono palpabili, come se Wendell Berry avesse sperimentato in prove pratiche le sue asserzioni: le definizioni sono puntuali e scomode perché fuggono i luoghi comuni e si riappropriano dell’essenza del rapporto tra uomo, donna e vita. Il suo punto di vista è un classico che rimette al centro, costantemente, il rapporto con la terra, come inizio e fine. Le deformazioni agricole e alimentari, e il nesso immediato con le aberrazioni della sessualità e del matrimonio, sono segmenti che scorrono lungo la stessa linea, che Wendell Berry non fatica a evidenziare e a ribadire. Tutto parte dal fatto che “abbiamo dimenticato indubbiamente che il civile e il domestico continuano a dipendere dalla natura selvaggia, cioè da forze naturali nel clima e nel suolo che non sono mai state controllate o conquistate in alcun modo che sia degno di rilievo. La civiltà moderna è stata costruita in gran parte su questa dimenticanza”. Non che si possa sfuggire più del tanto: la validità della sua visione, a distanza nel tempo, è lì a confermare che “la degenerazione dell’economia domestica è indivisibile dalla degenerazione dell’economia agricola. Non c’è scampo. Questa è la giustizia che stiamo imparando dagli ecologi: non si può danneggiare ciò da cui si dipende senza danneggiare se stessi”. Le circostanze sono ineluttabili e “la malattia fatale è la disperazione, una ferita che non può essere guarita perché incapsulata nella solitudine, circondata dalla mancanza di parole. Superata la scala dell’umano le nostre opere non ci liberano più, ci rinchiudono”. Nell’inquadrare Il corpo e la terra, Wendell Berry ristabilisce alcuni valori essenziali, riaffermando la necessità di dare “un giusto valore alla vita del corpo in questo mondo, di credere che sia buono per quanto piccolo e imperfetto. Finché non siamo capaci di affermare questa realtà e sapere quel che intendiamo, non saremo capaci di vivere le nostre vite nella umana condizione di dolore e gioia, ma saremo ripetutamente sbattuti fuori in violente altalene fra orgoglio e disperazione. Desideri che non possono essere soddisfatti in modo sano, continueranno a farci essere irrimediabilmente angosciati e scontenti”. La vera questione è che “la tragedia, più spesso sentita che riconosciuta, è che ciò che viene sfruttato diventa indesiderabile”, e vale in contemporanea per Il corpo e la terra. Questo perché per Wendell Berry “il mondo è certamente considerato un luogo di prova spirituale, ma è anche la confluenza di anima e corpo, parola e carne, dove i pensieri devono diventare fatti, dove il bene deve essere vissuto. È questo il grande luogo d’incontro, la porta stretta per cui lo spirito e la carne, la parola e il mondo, passano l’una nell’altro”. Un equilibrio instabile su cui Il corpo e la terra devono reggere le rispettive esistenze, fronteggiando la decadenza e la dissoluzione. Wendell Berry è plateale quando avvisa che “la minaccia non è soltanto del desiderio totalitario di un controllo assoluto. Sta nella disponibilità ad ignorare un paradosso essenziale: le forze naturali che ci minacciano sono le stesse forze che ci fanno vivere e ci rinnovano”. Una posizione spiazzante che parte dalla consapevolezza che “siamo diventati spettatori di panorami” e, di conseguenza, “per quanto si ami il mondo intero, ci si può vivere pienamente solo vivendo responsabilmente in qualche piccola parte di esso. Il luogo dove viviamo e coloro con cui viviamo definiscono i termini del nostro rapporto col mondo e con l’umanità”. Quel particolare momento è il luogo in cui Wendell Berry stabilisce che “il collegamento con la terra è salute. E ciò che la nostra società fa del suo meglio per nasconderci è come la salute sia semplice e raggiungibile da tutti. Ci rimettiamo la salute, e creiamo malattie e dipendenze che sono fonte di profitti, perché non riusciamo a vedere i diretti collegamenti che esistono fra vivere e mangiare, fra mangiare e lavorare, fra lavorare e amare”. Il sillogismo tra lavoro (“Il lavoro è la salute dell’amore. L’amore, per durare, deve incarnarsi nella materialità del mondo, produrre cibo, riparo, calore o ombra, circondarsi di atti di dedizione, cose fatte bene”) e prossimo (“Lavoriamo bene quando usiamo noi stessi come compagni delle piante, degli animali, delle materie prime, e come le altre persone con cui stiamo lavorando”) è inevitabile, ma Wendell Berry non lascia nulla al caso e ricorda che, anche nella discussione tra Il corpo e la terra, “le soluzioni culturali sono organismi, non macchine, e non possono essere inventate deliberatamente o imposte con una ricetta. Forse tutto quel che si può fare è chiarire nel miglior modo possibile quali sono i bisogni e le pressioni che gravano sul processo dell’evoluzione culturale”. Una piccola, grande lezione.
martedì 3 dicembre 2019
Jack Kerouac
L’intrinseca natura dell’opera di Jack Kerouac è un tale flusso continuo che si potrebbe montare e smontare, tagliare e ricomporre che comunque manterrà una sua ben precisa fisionomia. Questa recente ricollocazione dei suoi poemi comprende Mexico City Blues, La scrittura dell’eternità dorata, Il libro dei blues e altro ancora già edito & inedito, assemblato in un volume che è parte consistente dell’esperienza poetica di Jack Kerouac. È anche un’ulteriore ricognizione di quel mondo battuto dal vento e dalla follia abitato dagli amici e complici della della Beat Generation. In un modo o nell’altro Kerouac li richiama uno per uno, Snyder, Lamantia, Whalen, Kaufman, Cassady, Ginsberg più di tutti, protagonista di un dialogo costante e ininterrotto, ricordandogli che “cerchiamo di farci strada confidando in noi, l’aiuto non sempre giunge rapido da ovunque & qualunque cielo benevolo può aver insinuato di prometterci”. La loro collocazione, dentro “la mappa delle forme brevi”, celebra l’idea secondo cui “i poeti sono fatti per contenere, non per trasportare” e nel magma supremo di Kerouac si possono forgiare mille declinazioni diverse e tutte mantengono comunque un senso. Lo spiega molto bene Regina Weinreich nell’introduzione quando dice che “come per tutta l’opera di Kerouac, sia essa in versi o in prosa, il processo creativo è la chiave della ricerca di un linguaggio sempre più raffinato”. I blues di Jack Kerouac sono in realtà strofe libere, haiku, improvvisazioni jazzistiche, corrispondenze e pagine di diari, proclami & propositi (“Ho chiuso con la commedia dell’americano. D’ora in poi vivrò una buona vita tranquilla. Il mondo dovrebbe essere fatto per i camminatori”) in un crogiolo di lingue che vanno dall’inglese al francese fino al sanscrito, seguendo un’unica meta, quella per cui secondo lo stesso Kerouac, “illuminazione è: fa’ quello che desideri, mangia dove ce n’è”. Il processo della creazione, ricomposto in un ambito che ha qualche velleità di apparire definitivo, se non altro per le dimensioni, resta affascinante. Il 19 agosto 1955 Jack Kerouac scrive ad Allen Ginsberg: “Quanto a me, ho appena buttato giù 150 maledetti capolavori poetici in Mexico City Blues, tutti di lunghezza uniforme e ugualmente cazzuti”. Il ritmo è incessante, come se non ci fosse un perimetro, un limite perché Kerouac è convinto che “la realtà è nullità. Noi pensiamo, lottiamo”. L’osmosi tra la prospettiva singolare e personale con quella plurale è inevitabile: la reciprocità nelle sollecitazioni lascia intravedere, anche nello scorrere anarcoide che sottolinea I blues di Jack Kerouac, una rete sotterranea di associazioni, scambi, comunioni, fughe e diversioni. Anche a distanza di più di mezzo secolo, il quadro, è talmente vivido da rendere concreta l’idea che “l’America è un sogno ammissibile”. È una delle tante iperboli che I blues di Jack Kerouac sparano nell’aria come fuochi d’artificio, brillanti e fugaci, ma che Kerouac ha avuto l’accortezza di buttare giù e di conservare, mentre lui si dissolveva, con un ultimo avviso ai naviganti, quando diceva, ad alta voce: “Per cui poeti, calmatevi un po’ & chiudete il becco: nulla mai viene fuori dal nulla”. È una legge chimica, ed è la formula (inafferrabile) del blues.