Nel background di Un altro tamburo c’è un movimento tellurico che Isabelle Wilkerson in Al calore di soli lontani descriveva così: “Durante la prima guerra mondiale un pellegrinaggio silenzioso mosse i primi passi entro i confini della nazione. La febbre scoppiò senza preavviso né segni premonitori e, esclusi i diretti interessati, se ne accorsero in pochi. Si placò soltanto negli anni settanta, con trasformazioni inimmaginabili sia al Nord che al Sud; nessuno, nemmeno chi si metteva in viaggio, ne sospettava la portata, e che ci sarebbe voluta quasi una vita per portare a termine tutti i cambiamenti”. Le migrazioni che hanno cambiato il volto dell’America nella rappresentazione di William Melvin Kelley partono da uno stato immaginario che “confina a nord con il Tennessee; a est con l’Alabama; a sud col golfo del Messico; a ovest col Mississippi”. Un bel giorno, gli abitanti neri lasciano le loro case e laggiù non rimane nessuno. Tutto comincia quando Tucker Caliban, che da sempre è stato al servizio dei Willson, discendenti di un generale confederato e dominus dello stato (tanto è vero che la capitale, Willson City, porta il loro nome), incendia e distrugge le sue proprietà. Per la comunità nera il suo gesto ha un effetto dirompente: Tucker è uno dei pochi che ha potuto comprarsi, grazie alla sua fedeltà, una porzione di terra, intesa come un’ideale garanzia per l’emancipazione. La rottura è quindi avvelenata dalla delusione e diventa il detonatore per una fuga di massa, e senza rimpianti. La reazione raccolta sulla strada, anzi, sulla veranda, da chi resta è rozza e fuorviante: “Guardate cosa sta succedendo in Mississippi o giù in Alabama. Di quella roba là non dobbiamo più preoccuparci. Abbiamo davanti un nuovo inizio, come dice quello là. Adesso possiamo vivere come abbiamo sempre vissuto senza preoccuparci che qualche negro ci venga a bussare alla porta e si voglia mettere a tavola con noi per cena”. La provocazione è implicita, ma le fondamenta storiche sono solidissime: con Un altro tamburo, William Melvin Kelley immagina e riporta l’atmosfera che ha generato la diaspora afroamericana e nella sua scrittura le prospettive si moltiplicano, si dividono e portano il lettore a vedere da distanza ravvicinata la drammaticità di una frattura epocale. Il tono è aspro e asciutto, la costruzione laboriosa e meticolosa nel sottolineare la rivendicazione dell’esistenza, l’istinto per la sopravvivenza, l’orgoglio di una partenza: da lì, William Melvin Kelley dipana una storia che ha nel legame tra l’ultimo discendente dei Willson e Bennett Bradshaw lo snodo centrale di Un altro tamburo. Attraverso il diario di David Willson, si intravedono i filamenti di amicizia con Bennett Bradshaw: al college (del Nord) bianco e nero riescono persino a condividere una camera, non senza imbarazzi ed equivoci, ma se non altro trovando un punto d’incontro. Annota David Willson: “A volte penso che io e Bennett non siamo davvero amici; cioè, non parliamo quasi mai di faccende personali: vestiti, ragazze, materie di studio (tranne quando hanno a che fare coi nostri progetti futuri), o gli argomenti di cui parlano in genere gli amici. Parliamo sempre di politica, modelli di governo, comunismo contro capitalismo, questione razziale. Ma del resto, sono queste le cose che ci interessano davvero, e perché non dovrebbe essere così?”. Nel rapporto tra i due, David Willson matura la consapevolezza che la svolta è dietro l’angolo (“Chiunque, chiunque si può liberare dalle catene. Quel coraggio, per quanto sia nascosto in profondità, aspetta sempre di essere chiamato fuori. Basta solo usare le parole giuste, e la voce giusta per pronunciarle, e uscirà ruggendo come una tigre”), ma lascia intendere William Melvin Kelley, già nel 1962, è soltanto un miraggio, molto pericoloso. La realtà, anche quella storica, è quella raccontata da Un altro tamburo, soprattutto nel tragico finale, durissimo, ma non così insolito nell’America dove prosperavano razzismo e schiavitù.
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