L’intrinseca natura dell’opera di Jack Kerouac è un tale flusso continuo che si potrebbe montare e smontare, tagliare e ricomporre che comunque manterrà una sua ben precisa fisionomia. Questa recente ricollocazione dei suoi poemi comprende Mexico City Blues, La scrittura dell’eternità dorata, Il libro dei blues e altro ancora già edito & inedito, assemblato in un volume che è parte consistente dell’esperienza poetica di Jack Kerouac. È anche un’ulteriore ricognizione di quel mondo battuto dal vento e dalla follia abitato dagli amici e complici della della Beat Generation. In un modo o nell’altro Kerouac li richiama uno per uno, Snyder, Lamantia, Whalen, Kaufman, Cassady, Ginsberg più di tutti, protagonista di un dialogo costante e ininterrotto, ricordandogli che “cerchiamo di farci strada confidando in noi, l’aiuto non sempre giunge rapido da ovunque & qualunque cielo benevolo può aver insinuato di prometterci”. La loro collocazione, dentro “la mappa delle forme brevi”, celebra l’idea secondo cui “i poeti sono fatti per contenere, non per trasportare” e nel magma supremo di Kerouac si possono forgiare mille declinazioni diverse e tutte mantengono comunque un senso. Lo spiega molto bene Regina Weinreich nell’introduzione quando dice che “come per tutta l’opera di Kerouac, sia essa in versi o in prosa, il processo creativo è la chiave della ricerca di un linguaggio sempre più raffinato”. I blues di Jack Kerouac sono in realtà strofe libere, haiku, improvvisazioni jazzistiche, corrispondenze e pagine di diari, proclami & propositi (“Ho chiuso con la commedia dell’americano. D’ora in poi vivrò una buona vita tranquilla. Il mondo dovrebbe essere fatto per i camminatori”) in un crogiolo di lingue che vanno dall’inglese al francese fino al sanscrito, seguendo un’unica meta, quella per cui secondo lo stesso Kerouac, “illuminazione è: fa’ quello che desideri, mangia dove ce n’è”. Il processo della creazione, ricomposto in un ambito che ha qualche velleità di apparire definitivo, se non altro per le dimensioni, resta affascinante. Il 19 agosto 1955 Jack Kerouac scrive ad Allen Ginsberg: “Quanto a me, ho appena buttato giù 150 maledetti capolavori poetici in Mexico City Blues, tutti di lunghezza uniforme e ugualmente cazzuti”. Il ritmo è incessante, come se non ci fosse un perimetro, un limite perché Kerouac è convinto che “la realtà è nullità. Noi pensiamo, lottiamo”. L’osmosi tra la prospettiva singolare e personale con quella plurale è inevitabile: la reciprocità nelle sollecitazioni lascia intravedere, anche nello scorrere anarcoide che sottolinea I blues di Jack Kerouac, una rete sotterranea di associazioni, scambi, comunioni, fughe e diversioni. Anche a distanza di più di mezzo secolo, il quadro, è talmente vivido da rendere concreta l’idea che “l’America è un sogno ammissibile”. È una delle tante iperboli che I blues di Jack Kerouac sparano nell’aria come fuochi d’artificio, brillanti e fugaci, ma che Kerouac ha avuto l’accortezza di buttare giù e di conservare, mentre lui si dissolveva, con un ultimo avviso ai naviganti, quando diceva, ad alta voce: “Per cui poeti, calmatevi un po’ & chiudete il becco: nulla mai viene fuori dal nulla”. È una legge chimica, ed è la formula (inafferrabile) del blues.
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