Nell’enorme lascito di Philip Roth, Perché scrivere? è una porzione non trascurabile a partire dall’istanza che riassume e amplifica una moltitudine di interrogativi e, di riflesso, altrettanti tentativi di risposta. Se nella sezione centrale (già nota come Chiacchiere di bottega) Philip Roth si confronta, tra gli altri, con Primo Levi, Milan Kundera ed Edna O’Brien e rilegge Saul Bellow e Bernard Malamud, altrove si concede con generosità, svelando molto delle passioni, delle trasformazioni e delle idiosincrasie degli alter ego, dei personaggi e sue personali. Uno slalom piuttosto articolato, per quanto non insolito, trattandosi di Philip Roth: l’assunzione di responsabilità nasce dall’accettare il quesito in sé, Perché scrivere?, a cui dedica una ristretta selezione di convinzioni, che ritornano puntuali, quale che sia la forma e l’occasione. A partire da una prima, eloquente confessione: “Per me scrivere non è una cosa naturale che faccio e basta, come un pesce nuota o un uccello vola. È qualcosa che mi viene da fare per reagire a un certo tipo di impulso, a un particolare senso di urgenza. È la metamorfosi, attraverso una complessa personificazione, di un’emergenza personale in una pubblica messinscena. Accogliere dentro di te caratteristiche lontane dalle tue propensioni morali può essere un esercizio spirituale molto logorante, tanto per lo scrittore quanto per il lettore. Puoi finire per sentirti più un mangiaspade che un ventriloquo o un imitatore. A volte tratti te stesso molto male allo scopo di raggiungere quello che, dal punto di vista letterario, non sarebbe altrimenti alla tua portata. L’imitatore non può permettersi di assecondare i normali istinti umani che guidano le persone nel decidere quel che vogliono mostrare e quel che vogliono nascondere”. Philip Roth offre un’impressione laboriosa e ponderosa della letteratura, ma che conserva uno spirito entusiasta nel ribadire la consapevolezza che “il mondo della finzione ci libera dalle gabbie in cui la società rinchiude i sentimenti; una delle facoltà dell’arte è permettere tanto allo scrittore quanto al lettore di reagire all’esperienza in modi non sempre contemplabili nella quotidianità; o, se pure contemplabili, non sempre possibili, o gestibili, o legali, o consigliabili, o anche solo utili alla sopravvivenza. Possiamo anche non sapere di avere uno spettro di sentimenti e reazioni più ampio, finché non vi entriamo in contatto grazie all’operato della narrativa”. Tutto quello che viene dopo il punto di domanda di Perché scrivere? è un assiduo confronto con la materia, considerando alla pari il ruolo della lettura, sia in termini privati (“Io leggo narrativa per liberarmi della mia prospettiva angusta e terribilmente noiosa sulla vita e per lasciarmi tentare dall’identificarmi con un punto di vista narrativo a tutto tondo che non è il mio. E scrivo per lo stesso motivo”) che pubblici (“I lettori migliori si rivolgono alla narrativa per trovare scampo da tutto quel rumore, per lasciar vagare a briglia sciolta la loro coscienza, che quanto al resto viene condizionata e assediata da tutto ciò che non è narrativa”). Un’elaborazione che porta Philip Roth a riconsiderare con ogni scrupolo i suoi romanzi (valgano, in questo senso, le lunghe dissertazioni dedicate al Lamento di Portnoy), offrendone di volta in volta una diversa prospettiva, proseguita anche dopo la sua decisione di non scrivere più. Questo perché “ogni libro è una carica esplosiva, che apre un varco verso quello successivo, e comunque tutto quello che scrivi fa parte di un unico libro. Una notte fai sei sogni diversi. Ma sono davvero sei sogni diversi? Un sogno prefigura o anticipa il successivo, o in qualche moto conclude quel che non era stato ancora interamente sognato. Poi arriva il sogno successivo, ovvero il correttivo del sogno precedente, il sogno alternativo, il sogno antidoto, che lo sviluppa, o lo deride, o lo contraddice, o cerca di aggiustarlo. Puoi continuare a provarci tutta la notte”. Se il filtro onirico è ricorrente (“L’idea è percepire la tua invenzione come una realtà che può essere come un sogno”), Philip Roth ammette i limiti e le fatiche del lavoro in sé: “Scriviamo di continuo versioni fittizie della nostra vita, storie contraddittorie ma intrecciate l’una all’altra, e queste storie, che siano falsificate in modo raffinato oppure grossolano, costituiscono la nostra presa sulla realtà e la cosa più vicina che abbiamo alla verità”. Questo vale, a maggior ragione, nella specifica declinazione americana, che Philip Roth si premura di ricordare sia nella sua intrinseca natura (“In una prospettiva storica, eravamo diventati, sospinti da un ancestrale istinto americano, nuovi esseri umani irriconoscibili, ricostruiti da zero praticamente da un giorno all’altro. È così che funziona, al livello più elementare, il dramma in rapido svolgimento della nostra storia, che trasforma ciò che è in ciò che non è, e chiarisce il mistero di come facciamo a diventare noi stessi”) sia nella parabola della sua evoluzione (“Lo scrittore americano a metà del ventesimo secolo incontra grandi difficoltà a comprendere, descrivere e poi rendere credibile la realtà americana. È una realtà che sconcerta, disgusta, manda in bestia, ed è anche motivo di imbarazzo per la nostra scarsa immaginazione. L’attualità si fa beffe del nostro talento, e ogni giorno saltano fuori figure che sarebbero l’invidia di qualunque romanziere”). Tutto ciò non risponde al dubbio insinuato dal titolo, né suggerisce alternative, ma la somma di Saggi, conversazioni e altri scritti 1960-2013 delinea l’architettura di un immaginario che, compresa la sua complessità, resta unico. I punti fermi somigliano da vicino ad avvertimenti prima di inoltrarsi in un territorio sconosciuto: prima Philip Roth sostiene che “uno scrittore ha bisogno dei suoi veleni, perché spesso l’antidoto al veleno è un libro”, che poi è l’elemento che, in qualche modo, in molti modi, attrae e contiene tutto, le crepe e le spaccature, le ferite e i nostri tentativi di nasconderle.
venerdì 26 aprile 2019
martedì 23 aprile 2019
James Anderson
Ruota ancora tutto intorno al diner del deserto, come se fosse il centro di un gorgo di polvere, dove le storie vengono inghiottite, non meno delle speranze. Nel corso di una sosta in una stazione di servizio, a Ben Jones viene affidato un bambino e, dato che il riassunto della sua filosofia è che “siamo i guai che ci andiamo a cercare”, la cabina del suo camion si trasforma in una specie di asilo nido viaggiante visto che si ritrova anche Annabelle, la figlia di Ginny, già protagonista della puntata precedente. La sua disponibilità dovrebbe garantire una soluzione provvisoria, questione di ore, ma gli spazi del deserto tendono a rendere il tempo più circolare che lineare. Intanto, il predicatore che si accolla la pesante croce di legno lunga la 117 viene investito e altri mezzi sfrecciano noncuranti, compreso un autoarticolato che ricorda da vicino la minaccia incombente di Duel. Le destinazioni restano in gran parte ignote: come dice uno dei protagonisti di Lullaby Road, “a volte la gente imbocca questa strada e arriva fin qua solo per trovare quello che cerca, anche se non c’è”. Primo fra tutti, Ben Jones, che coltiva ancora un senso per la giustizia, anche se la sua fedina penale e le cicatrici sulla pelle raccontano una storia incongruente con quella di un ipotetico eroe. Ma deve aver ascoltato Dylan cantare che devi essere onesto, se sei un fuorilegge, e in Lullaby Road s’imbatte in un feroce traffico di bambini che ha coinvolto “uomini e donne, ma soprattutto uomini, che invece di servire Dio avevano creduto di essere Dio, seguiti da gente che non vedeva o non voleva vedere la differenza”. Non sono gli unici colpevoli: la dissoluzione di valori elementari, per non dire primordiali o istintivi, parte da una frattura abissale con l’habitat naturale. Quando James Anderson, attraverso Ben Jones, dice che il deserto è “un’incognita familiare” forse non si accorge dell’ambivalenza della definizione. La dispersione dei legami combacia con l’ostilità del deserto e James Anderson approfondisce la figura di Ben Jones mettendolo al centro di un corollario di figure enigmatiche e tormentate. Ci sono personaggi come Dan Brew che è il ritratto di Harry Dean Stanton in Lucky, visto che lo accoglie “con un accappatoio sporco, senza cintura, senza maglietta o altri indumenti che non fossero un paio di slip aderenti bianchi, ormai neanche troppo aderenti e ben lontani dall’essere bianchi, e un paio di stivali da cowboy consumati che dovevano aver vissuto il loro momento di gloria una ventina d’anni prima”. Oppure si fanno notare (per più di un motivo) i ballerini Ginger e George e le signore di Los Ojos Negros che distribuiscono burrito, custodiscono segreti e (chissà) sono streghe del deserto, e, infine, i fantasmi del diner che continuano a fare capolino. Ci sono pazzi e disperati di ogni forma e genere perché “la follia è forse la malattia più contagiosa del mondo” e alimenta un senso di pericolo imminente: tutti hanno un’arma da fuoco e “se c’è una pistola, la ragione vola via dalla finestra o comunque si avvia verso l’uscita”. Per non dire dell’immensa solitudine, aumentata in Lullaby Road dalle condizioni invernali con colori drappeggiati come in un acquerello di Georgia O’Keefe. Per Ben Jones lo scenario circostante è la lavagna dove elencare quei pensieri che spesso sono l’unica compagnia che gli rimane. Il rocambolesco sommarsi degli eventi lo porta al limite (anche un po’ oltre): facendo avanti e indietro sulla 117 tra Price e Rockmuse si ritrova a scontrarsi con il suo passato, consapevole che “la merda prima o poi viene a galla, e se le nuoti incontro le possibilità che ti sommerga non possono che aumentare. Sfortunatamente, su quel tema, come sul farmi gli affari miei, avevo ancora molto da imparare”. Il deserto è implacabile: non è solo “uno spettacolo di resistenza”, è anche il capolinea a cui sono destinati i relitti della decomposizione di uno o due secoli e se già era facile notarlo con Il diner del deserto, è ancora più evidente in Lullaby Road. Ben Jones è un modernissimo Don Chisciotte a cui hanno tolto anche i mulini a vento, lasciandogli soltanto paure artificiali, nemici invisibili e frontiere che si restringono ogni giorno di più. Se in Lullaby Road si cammina parecchio è perché i mezzi meccanici nel deserto soffrono come e più degli esseri umani e nel bel mezzo del suo viaggio al termine della notte di Ben Jones confessa che “ci raccontiamo sempre qualche bugia”, ma in un mondo dove la verità è scomparsa, non solo sono peccati veniali, ma indispensabili strumenti nella lotta per la sopravvivenza.
martedì 16 aprile 2019
Amy Hempel
Una costellazione di personaggi in fuga o incastrati sulla soglia, gente che si concede al massimo tre minuti per decidere se restare o partire, per poi fermarsi a metà strada tra matrimoni e separazioni con il timore di rivedersi perché “questo è il problema con la maggior parte delle persone: ti tocca incontrarle”. Amy Hempel è un’osservatrice acuta, a tratti impietosa, di una precarietà dominante che uno dei protagonisti di Questa sera è un favore a Holly riassume con una frase esemplare: “Vivendo qui, ti dimentichi che se hai smesso di affondare non vuol dire che non sei più sott’acqua”. Una condizione provvisoria e limitata condivisa in tutti i racconti di Amy Hempel radunati in Ragioni per vivere e che non viene risolta nemmeno dalle fughe e dai viaggi: in Andare, la protagonista guida con il binocolo per vedere come “le cose appaiano al contempo in due modi, lontane e vicine, mentre tu rimani sempre nello stesso posto”, mentre in Gesù sta aspettando (proprio come canta Al Green nello stereo) l’itinerario è un’optional e ogni tappa è l’occasione per dialogare a distanza con l’altro, spedendo una cartolina o lasciando un messaggio sulla segreteria telefonica. L’ultimo appunto, prima di ricominciare a guidare recita: “Possiamo accoglierci a vicenda?”. L’interrogativo non è insolito per Amy Hempel, anzi, a volte è la sigla finale (Il centro si chiude proprio con un punto di domanda) e, più spesso, è lo snodo dei racconti dove “le cose succedono, oppure smettono di succedere, e chi sa dirti perché?”, come si chiedono in Il Gesù che respira. Via via che ci si inoltra nelle Ragioni per vivere, il quesito si fa più stringente e in una delle storie più rappresentative, Il limbo, Amy Hempel si e ci interroga così: “Chi sceglierebbe di vivere meno?”. La risposta non è del tutto ovvia: arrivati in fondo, si resta sorpresi perché non c’è mai una chiusura, non c’è mai un vero finale. I racconti di Amy Hempel non sono appaganti, non corrispondono a nessuno standard, lasciano in sospeso l’intera trama, ma per quanto siano spalancati su ogni possibilità e lascino ampio spazio al lettore, non concedono nulla. Il senso di insoddisfazione è latente e crescente, ma l’effetto non è comunque monco o limitato: Amy Hempel scrive senza trucchi, senza artificiosità e i racconti, spesso di un paio di pagine (a volte di una manciata di righe) sono istantanee che non lasciano scampo sia davanti a situazioni innocue e gioiose (anche se la felicità è il punto di domanda più grosso per Amy Hempel) sia in occasioni drammatiche (se non brutali, compresi gli stupri in La casa sulla scogliera). I cambi di registro sono insoliti e spiazzanti e l’insistente presenza degli animali (i cani, in particolare) è un contrappunto alle idiosincrasie degli esseri umani, alle fratture e alle divisioni, e in definitiva alla loro fragilità, che si manifesta nel continuo intersecarsi dei ricordi e del presente (determinante in Rientrata) dove la scrittura di Amy Hempel si fa densissima (fin troppo a volte). I dettagli affiorano in primo piano, quasi dissimulando (o mascherando) la trama con uno stile rarefatto, scorticato più che levigato, tutto votato a evidenziale “l’alone di una realtà inesprimibile... E tuttavia lirica” come dicono in Offertorio. L’ultimo racconto di Ragioni per vivere è l’apoteosi della narrativa di Amy Hempel. Se “una storia d’amore comincia con un’illusione” secondo uno dei personaggi di Il cane del matrimonio, in Offertorio quest’intuizione viene estrapolata celebrando un’ossessione che parte dal guardare corpi che si fondono per arrivare a raccontarli, interpretando, omettendo, deformando i particolari come se la realtà del ricordo così come quella del presente venissero ricostruite attraverso le parole. Un tentativo reiterato, insistito ed estremo, volendo anche disincantato, di fronte alla sua inefficienza perché, come si evince nell’unica ammissione (non a caso, ancora in La casa sulla scogliera) di Amy Hempel, “tutti noi dovremmo essere al sicuro dentro un sacchettino di velluto”, mentre fuori imperversa quell’incidente che è la vita.
martedì 9 aprile 2019
Stephen King
Scott Carey è un uomo semplice, ed è solo. La moglie l’ha lasciato e non ha né figli né parenti. Nella casa di Castle Rock, gli resta il gatto, Bill D. Cat, ed è tutto. Tra i pochi amici, resta Bob Ellis, un tempo suo medico curante, a cui, nell’incipit di Elevation, sta confessando la sua strana situazione. Secondo la bilancia, Scott sta dimagrendo lungo una progressione esponenziale che, stando a un rapido calcolo, lo vedrà svanire in fretta dalla faccia della terra. In apparenza, però, è tutto inalterato (a partire dalla pancia prominente) ed è lì che Stephen King gioca sull’equivoco (fisico) tra massa e peso, collocando Scott sulla soglia di un’inevitabile partenza. Più che un elemento fantastico, quello che succede a Scott è un derivato della vita animale e/o ancestrale, dove è preferibile sparire invece di morire. Da cosa dipende, o da dove arrivi, è relativo. In effetti è una nuova prospettiva che Scott non vuole sia trattata come una malattia (lui comunque sta molto bene) e desidera che rimanga “una questione privata”, piuttosto che diventare una cavia di laboratorio o un fenomeno da baraccone, e anche questa è una riflessione non banale. Scott, curiosamente, va avanti per inerzia, ed è difficile dire se la solitudine sia la zavorra che sta lasciando o la leggerezza che sta acquistando. Al cambio della stagione, dall’autunno alla primavera, avviene la svolta che Scott decide di assecondare e, come si vedrà, persino di accelerare, con il proposito di andarsene con un bel gesto, un buon ricordo, una piccola cosa importante che forse è tutto quello che possiamo lasciare alla forza di gravità. Le circostanze di fronte a un evento straordinario richiamano la necessità di una riconciliazione, non fosse altro che una buona parola con i vicini (le vicine) di casa. Un suggerimento nemmeno tanto nascosto che, di questi tempi, appare persino rivoluzionario. Nell’era provinciale e intollerante di Trump, la piccola città di Castle Rock è infettata dal rancore e dal sospetto ed è appesantita dall’astio (del tutto ingiustificato) nei confronti di Deirdre e Missy, lesbiche, (anzi, lesbeche, come dicono i bifolchi) sposate e proprietarie di un ristorante messicano (vegetariano) sulla Main Street di Castle Rock. Il pregiudizio e lo sfoggio dell’ignoranza che stanno diventando i tratti distintivi e corrosivi del ventunesimo secolo vengono visti dagli occhi di Scott, nella sua particolarissima condizione, in modo diverso, come se l’assenza di peso gli avesse spalancato, insieme agli occhi, un’opportunità, un inedito modo di vedere la realtà, a partire dalla valutazione dell’esperienza in sé che gli fa domandare: “Perché sentirsi triste per una cosa che era impossibile modificare? Perché non sfruttarla, invece?”. Da lì in poi la catena degli eventi è serrata e porta Stephen King, di solito prodigo nel divagare e diramare le sue storie, a concentrarsi su una mezza dozzina di personaggi, che ruotano attorno a Scott, e a Deirdre e Missy. Il rapporto con Scott è in salita: Deirdre è combattiva e risoluta, il clima di ostilità è irrespirabile e il confronto non è agevole (non lo è mai) perché Scott deve “imparare un bel po’ di cose” (come tutti) e Stephen King condensa l’esperienza in un paio di snodi essenziali come se Elevation fosse un fumetto, diretto, elementare e pop nella sua essenza. La definizione della storia avviene nel corso di una prova fisica, la temuta corsa del Tacchino, dove si riversa tutta la popolazione di Castle Rock. La maratona cittadina offre l’occasione dell’epifania, condivisa da Scott, Deidre e Missy, che rende Elevation quasi una favola che inquadra nel momento dell’addio, la consapevolezza che il posto e il ruolo sulla terra è relativo e che “quel che meriti non ha niente a che fare con la posizione in cui arrivi”. Brillante, anche nel ricordare Richard Matheson.
venerdì 5 aprile 2019
Jay Gummerman
Un’umanità esitante, che viaggia senza sosta, eppure è immobile. Uomini e donne che cercano di trarre il meglio dalla solitudine, eppure non sono mai davvero soli e non riescono a stare insieme. Si perdono e si trovano, incorniciati da frammenti di neon nei sobborghi americani, un tratto comune a tutti i personaggi di Ci troviamo a Moontown. I racconti dell’esordio di Jay Gummerman, anno di grazia 1989, hanno una bellezza acerba, ma esprimono bene l’atmosfera di disorientamento e fragilità che li pervade. Jay Gummerman ha il senso del dettaglio, indispensabile per cogliere i momenti sfuggenti di un incontro occasionale, in un party, durante un appuntamento, un arrivederci, un addio. Esemplare, in questo senso, il racconto da cui prende il titolo l’intera raccolta: Ci troviamo a Moontown descrive l’evolversi di un furtivo rendez-vous tra il protagonista, Keepnews e un marinaio, che da lì si ritrovano sulla strada, senza destinazione, contando sul fatto che “l’unico vantaggio del viaggiare era che nessuno sapeva chi eri”. La fuga non è casuale, anzi, è spesso una soluzione quando ti accorci che “per anni e anni nella tua vita non succede niente, e poi, di colpo, ti ritrovi in questa nuova merda che ti travolge, e non riesci neanche a ricordarti cosa era capitato prima nella tua vita. E non sei preparato ad affrontarla, questa nuova merda. Hai solo un sacco di tempo per pensarci, prima che arrivi”. È un tema comune a tutti i personaggi, a volte svolto attraverso il riflesso del paesaggio, come avviene con Il pittore (“Erano gli ultimi istanti del crepuscolo, quando si può veramente vedere il mondo cambiare colore, era il momento in cui la luce svanisce con tanta rapidità da far pensare che debba far rumore”), altrimenti archiviato con disincanto come ammette il protagonista in Il faro: “Cerco di non pensare al futuro, finché sarà troppo tardi, finché non sarà più il futuro”. Questa friabile natura dei personaggi si riflette via via nei racconti, che restano sospesi, indefiniti, sfocati. Può succedere che siano avviati da un incipit folgorante, quello di Il nascondiglio di Fred, in cui il protagonista debutta così: “Quel che vorrei fare veramente è incidere il mio album, e una volta finito, questa frase non la concludo mai perché non riesco assolutamente a pensare a quel che viene dopo. Della grammatica inglese ti dicono assolutamente tutto, dove va la virgola, dove la congiunzione coordinativa, o perché quella è una proposizione dipendente retta da un avverbio, eccetera eccetera, ma non ti dicono mai cosa dovresti fare quando hai esaurito gli argomenti. Coordinare, ti dicono. Giusto per farti star male, come se uno non stesse già male abbastanza”. Brillante, sincopato, preciso, ma poi il racconto scivola via malinconico, come l’adolescenza che sfuma senza colpo ferire e non diversamente succede a Richard e Claire, titubanti e chiusi in una stanza in Da Pinocchio, a Philip e Rebecca che imitano Lauren Bacall e Humphrey Bogart con La cinepresa, o al un detenuto di L’onore di Russell che, nel corso della sua evasione, torna dalla sorella che lo accoglie puntandogli contro una pistola. A quel punto è fin troppo evidente che i disperati di varia forma e sostanza di Ci troviamo a Moontown hanno perso la bussola e così il protagonista di La Lega del Carciofo commenta la distanza i luoghi e un’idea molto friabile di casa: “Viene da chiedersi quanti posti così ci siano al mondo, piccoli posti insignificanti dove la vita di alcune persone è cambiata per sempre, posti davanti ai quali si passa ogni giorno senza neanche accorgersi che esistono”. Neanche una Los Angeles brulicante di luci e di ombre, in Una foresta poco importante, riesce a conquistare un ritaglio di emozione. In un sottobosco di piccoli spacciatori, annoiati al punto di pensare che “la televisione però un vantaggio l’aveva, con la televisione poteva anche venire a patti, il bello della televisione era che aveva una spina”, un gruppo di sbandati si ritrova a vedere il mondo ribaltato, mentre l’incidente della realtà li circonda, inalterato e imperterrito: “Gli alberi e tutto il resto puntavano verso il cielo, che era indecifrabile così come lo ricordava: le nuvole, come la neve, erano una distesa senza contorni”. Ecco, leggendo Ci troviamo a Moontown, si prova proprio la stessa sensazione.
mercoledì 3 aprile 2019
Wendell Berry
C’è un’idea di famiglia e di sussistenza alla fonte dei luoghi e delle comunità di Wendell Berry che è determinante per la sostenibilità di un “paesaggio economico” dove “le persone devono sentire che la terra appartiene loro e che loro appartengono alla terra”, integrando e superando i limiti del concetto stesso di proprietà. La tesi fondamentale di Wendell Berry è che “in un’economia locale solida, dove produttori e consumatori sono contigui, la natura diventa il criterio del lavoro e della produzione. I consumatori che comprendono la propria economia non saranno più disposti a tollerare la distruzione del suolo, dell’ecosistema o del bacino idrografico, come se fossero semplici costi di produzione. Soltanto un’economia locale sana è in grado di tenere insieme natura e lavoro nella consapevolezza della comunità”. La fiducia in questa associazione è ribadita spesso da Wendell Berry che si premura di chiarire con precisione che “quando parliamo di comunità parliamo dunque di un legame complesso non soltanto tra esseri umani, o tra umani e terra cui appartengono, ma anche tra economia umana e natura, tra foresta o prateria e campo o frutteto, e tra creature dannose e creature utili. Un legame che comprende tutti i nostri vicini”. Senza nulla togliere all’identità di ogni singola individualità: l’ideale per Wendell Berry non è la struttura collettiva del kolchoz o del kibbutz, ma un sistema dove “la premura più costante e impegnativa dell’agricoltura quando presa con serietà, è rappresentata dalla chiara unicità di ogni fattoria, ogni campo, ogni famiglia e ogni creatura al suo interno. Quando il lavoro degli agricoltori conosce e rispetta l’individualità del luogo in cui abitano e l’insieme delle creature che ci vivono, l’agricoltura diventa un’arte raffinata”. Non c’è alcun dubbio, e Wendell Berry ricorda che “il nostro rapporto con la terra è governato da una serie di condizioni e limiti che non sono stabiliti dal capriccio di qualcuno, ma dalla natura stessa e dall’indole umana”. Difendere questo equilibrio, significa prendere atto che “tutti i luoghi sono diversi tra loro, e dunque è necessario agire con un’attenzione particolare per ciascuno di essi; che la capacità di mostrare rispetto e attenzione pratica per ogni luogo della sua differenza rappresenta una forma di libertà; e che l’incapacità di farlo costituisce una forma di tirannia”. L’avversione di Wendell Berry per le logiche industriali è fondata e si costituisce a partire dalla solida utopia delle limitate dimensioni delle fattorie a conduzione famigliare e di strumenti in grado di rispettare gli uomini e l’ambiente. La sua “immaginazione in atto” ha pure dei limiti e Wendell Berry ne è consapevole (“Ciò che conosco non fornisce una piena o adeguata descrizione di ciò che ho immaginato”) ma d’altra parte il pensiero industriale è inesorabile e “le pretese di produttività, redditività ed efficienza, di crescita, benessere economico, potere, meccanizzazione e automazione senza limiti, per un certo tempo possono arricchire e conferire autorità ai pochi, ma prima o poi ci distruggeranno tutti. Quando si tratta di misurare il livello di prosperità e di benessere di un paese, valori come quelli espressi dal PIL e dai bilanci delle aziende sono del tutto privi di significato”. Gli effetti sono ineluttabili tanto nella gestione delle risorse quanto nell’espressione finale dell’essenza in sé dato che “l’utilizzo ignorante della conoscenza consente al potere di trascurare le questioni di scala, perché non tiene alcun conto del rispetto per l’integrità degli ecosistemi locali, rispetto che, solo, può determinare la scala appropriata dell’intervento umano. Senza dimensioni appropriate, e senza l’accettazione dei limiti che comportano, non può esistere forma: e qui scienza e arte convengono. Viviamo e prosperiamo grazie alla forma, che rappresenta la capacità delle creature e degli oggetti di essere compiuti entro adeguati limiti. Senza limiti formali, il potere diventa necessariamente smodato e distruttivo”. Tra i limiti conclamati del pensiero industriale e i migliori auspici per una “vita consapevole di sé stessa”, Wendell Berry si rende conto che il punto di partenza è la convinzione che “dobbiamo imparare di nuovo a guardare il mondo così com’è”, e nel superare La strada dell’ignoranza attinge a Virgilio, Edmund Spenser, William Shakespeare, Alexander Pope, Thomas Jefferson, Russell Smith, Liberty Hyde Bailey, Albert Howard, Wes Jackson e John Todd, ben sapendo che “la scrittura, come prodotto dell’immaginazione, nasce da un impulso a trascendere i limiti dell’esperienza o della conoscenza empirica per dare origine a qualcosa di compiuto”. L’obiettivo pragmatico resta “una profonda cura nell’uso della terra e una democrazia politica basata sull’imprescindibile fondamento della democrazia economica”, ma la sua concretezza, che Wendell Berry non dimentica nemmeno per un istante, non toglie la certezza che “senza dubbio, in molti di noi, da qualche parte alberga ancora l’insopprimibile desiderio umano di morire in un mondo nel quale abbiamo vissuto con gioia. E a dispetto delle tante prove del contrario, disponiamo ancora di una certa dose di saggezza. Sappiamo ancora pensare, se ci prendiamo la pena di farlo. Se vediamo con chiarezza chi, che cosa e dove siamo, e sappiamo mantenere il nostro lavoro su una scala sufficientemente ridotta, siamo ancora in grado di pensare in modo responsabile”. È un anelito che si lascia La strada dell’ignoranza alle spalle e va un po’ oltre i confini della fattoria e della comunità. Un indirizzo che è ben presente a Wendell Berry: “Per noi umani esiste sempre un altro elemento, l’ignoto, le cose che forse avremmo bisogno di conoscere, e che non conosciamo e non conosceremo mai. Esiste il mistero. Per quanto ovvio, dimentichiamo facilmente che oltre tutte le scienze e le arti, oltre tutta la tecnologia e il linguaggio, esiste la realtà irriducibile del nostro prezioso mondo, che finora, in un modo o nell’altro, ha sostenuto le nostre esigenze e accolto la nostra vita, e di cui continueremo sempre a sapere pericolosamente poco”. Niente di utopico: un po’ di umiltà, un po’ di rispetto.
martedì 2 aprile 2019
H. P. Lovecraft
Dentro le urla di terrore di Lovecraft si svela un irrinunciabile bisogno di altri mondi perché, come scriveva in La chiave d’argento, “la vita non è nient’altro che una teoria di immagini nella mente, che non c’è differenza fra quelle nate dalle cose reali e quelle scaturite da sogni segreti, e che non c’è motivo di ritenere più vere le prime delle seconde”. È una concezione che ritorna spesso, ribadita nella sua essenza (“A volte penso che questa esistenza meno materiale sia quella autentica e che la nostra vana presenza sul globo terracqueo sia di per sé un fenomeno secondario o puramente virtuale”) e precisata nella dimensione onirica., Oltre il muro del sonno, “una sfera d’esistenza mentale non meno importante di quella fisica, e tuttavia separata da quest’ultima per mezzo di una barriera impenetrabile”. Spalancando le porte di sogni e incubi (soprattutto) Lovecraft si permette di superare il “puerile simbolismo” di Freud e ricorda, in conclusione, a L’oceano di notte, che “nei sogni e nelle visioni si nascondono le più grandi creazioni dell’uomo, perché le linee e i colori di cui sono fatte non rispettano alcun obbligo. Scene dimenticate e terre più misteriose dei mondi incantati dell’infanzia balzano nella mente addormentata, dove regnano finché il risveglio le distrugge. È in mezzo a esse che possiamo conquistare un po’ della gloria e della felicità cui aspiriamo”. Il Necronomicon prende forma proprio lì, in quella terra di nessuno, tracciando le distanze e i legami tra “uomo” e “cosa”, ovvero “mille forme orrende” come le chiama in La dichiarazione di Randolph Carter, Innominabile). Questo perché, come si scopre in La verità del defunto Arthur Jermyn e la sua famiglia, “la vita è una cosa orribile e dietro le nostre esigue conoscenze si affacciano sinistri barlumi di verità che la rendono ancora più mostruosa”. Il senso della scoperta e dell’avventura in Lovecraft è una vocazione per l’ignoto, per sporgersi, come dice in L’estraneo, “pericolosamente oltre”. Nonostante le indicazioni e le precisazioni, le dimensioni temporali tendono a farsi sfuggenti, non meno di quelle architettoniche. I labirinti di città arcaiche, interi universi “di sostanza impalpabile”, la corsa verso il West o, più spesso, le ombre del New England sono soltanto le stazioni del Necronomicon che portano verso “altrove”, in direzioni infinite. Il potere del libro mascherato nella sua formula magica del “grimorio” e dall’arcaica provenienza offre il contenitore ideale per la visione di Lovecraft ed è come una bussola per orientarsi nei meandri delle sue costruzioni oniriche e per giungere alla “meraviglia del riconoscimento”. Gli elementi che ritornano sono la profondità, l’oscurità, la natura informe o deforme delle “entità”, la repentina mutazione di antiche civiltà e dei loro rituali, la deformità e la diversità, ciò che è “innominabile” e quindi “un terrore vago e indefinibile, quello che va con il meraviglioso e il senso del mistero”, come spiega in La musica di Erich Zann. C’è sempre un canto, una melodia, un suono stridente a sottolineare l’arrivo di entità luminose e orrende, a evocare “un lontano universo dell’immaginazione”, a delimitare Gli spazi attigui al reale, dove “lo shock più tremendo è quello che combina l’effetto dell’imprevisto con quello dell’incredibile”. Eppure scrutandoli con attenzione, e con cautela, i racconti del Necronomicon sono molto meno esoterici di quanto vogliano apparire. Da una parte, come si legge in Un’illustrazione e una vecchia casa, esprimono “potere, solitudine, senso del grottesco e superstizione”, dall’altra Lovecraft dice che “i nostri canali sensoriali sono pochissimi e degli oggetti che ci stanno intorno abbiamo una percezione quanto mai ristretta. Vediamo le cose come ci è permesso di vederle e non possiamo farci nessuna idea della loro realtà assoluta”. È la curiosità la leva che spinge i personaggi di Lovecraft e il popolo dei suoi alter ego a convincerci che “Le cose viste con l’occhio interiore, come le scene che appaiono quanto stiamo per scivolare nel sonno, sono più vivide e dense di significato in quella forma di quando tentiamo di amalgamarle alla realtà. Descrivi un sogno con la penna, e il colore scomparirà. L’inchiostro di cui ci serviamo dev’essere diluito con una sostanza che contiene una percentuale troppo alta di realtà, e in definitiva, ci scopriamo incapaci di esprimere l’incredibile ricordo”. Senza dubbio la visione, la percezione di altri mondi e l’invenzione del libro dentro il libro, rendono il Necronomicon un’enciclopedia della morte, ma alla fine “il senso ultimo della tragedia resta ignoto”. Entrando nelle sue torbide pagine “sfideremo il tempo, lo spazio, le dimensioni, e senza muovere un dito guarderemo al fondo della creazione”. Quello creato da Lovecraft è un orrore che si può controllare, una cura omeopatica per la paura in tutte le sue declinazioni, con la promessa che, una volta arrivati alla fine di Necronomicon, “finalmente capiremo perché i cani abbaiano nel buio e cosa fa rizzare le orecchie ai gatti dopo mezzanotte”. L’ironia è compresa nel prezzo, un sano brivido è assicurato, non usatelo mai dopo il tramonto.