Le ore dure è composto da una selezione di mezzo secolo di versi di Anthony Hecht, definito nella ricca introduzione di Joseph Harrison “un grande poeta tragico, il più limpido cronista della disumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo, sia che il teatro di tale crudeltà fosse pubblico sia che fosse privato”. Una vocazione che filtra attraverso l’interpretazione del supplizio dell’imperatore Valeriano in Guardate i gigli del campo e, in modo molto più diretto, nella ricostruzione delle sue esperienze nell’esercito americano a Flossenbürg. Una dolorosa epifania che emerge con La stanza (tratta da Riti e cerimonie) e si ripropone più avanti in “Più luce! Più luce” (“Non una preghiera, niente incenso, s’alzò in quelle ore che divennero anni; e venivano ogni sera muti spettri dai forni, filtrando nell’aria frizzante, posandosi sui suoi occhi come fuliggine nera”). Incaricato di interrogare i superstiti del campo di concentramento nazista, testimoni di sofferenze “inimmaginabili”, Anthony Hecht rimase sconvolto e nella sua poesia quell’angoscioso background si traduce in una cura estrema e raffinata. Le parole sono scelte con scrupolo e la cernita predilige temi e termini coloriti, espressioni poliedriche, sfumature ambivalenti (su tutte quelle di Una lettera: “Comunque, voglio tu sappia che ho fatto del mio meglio, come son sicuro hai fatto anche tu. Qualcun altro è legato a noi, incolpevole e garbato, il cui nome sta nel garbuglio delle ciance incessanti. Carissima, il limpido, insepolto blu di quegli abissi è quasi accecante”). La costruzione è stratificata, verso su verso, un processo che è esemplare in Natura morta: “Tutto ciò è ancora a venire. Ogni cosa è assolutamente ferma, immota, in tutto l’universo, come un’antica tazza cinese, e la natura è sontuosamente senza sentire. Perché tutto ciò mi scuote tanto, come un codice segreto o un presagio attutito di intenti ed eventi preordinati? Mi conosce, e io conosco il suo amareggiamento di cauta esitazione, di molla pronta a scattare, i suoi silenzi così intensi e trincerati”. Come si può vedere, il senso compiuto delle liriche rimane chiarissimo pur avvalendosi di citazioni e rimandi che si infiltrano in un vocabolario già ricchissimo. Un florilegio intenso di letture, e scoperte, molti passaggi riconoscenti incastrati tra i versi: Shakespeare, prima di tutto e sopra tutti, poi un titolo preso da Emily Dickinson (Un certo taglio di luce) per una poesia ispirata a una frase di Anton Čechov, William Blake evocato in Divinazioni di innocenza, il Ritratto dell’artista da giovane di James Joyce saccheggiato in Apprensioni (“Le mie armi erano silenzio e astuzia, nel mio esilio involontario, mentre tentavo di fare due più due, senza successo”), Theodore Roethke ricordato in Verde: un’epistola e poi Yeats, Flaubert e un dipinto di Pierre-Auguste Renoir che ispira L’offerta espiatoria. L’immancabile Wallace Stevens viene omaggiato in Vedi Napoli e puoi muori (“Credo che su quell’altezza io fossi davvero felice. Anche se con il passare del tempo ne so sempre meno di cosa sia la felicità, a meno che non sia ciò che la saggezza popolare celebra come ignoranza”) che però esprime l’assiduità di Anthony Hecht con l’Italia, una felice predisposizione condivisa con Charles Wright. Ovunque, nel suo viaggio, la condizione del poeta è quella di un “buongustaio della solitudine” che, come illustra in Peripezia, “in ogni caso, con libertà unilateralmente acquisita, la mente, sola reggente di se stessa, prolunga l’oscurità e il silenzio, rispecchia se stessa, si delizia nella coscienza, sola, sufficiente, agile, toccata da una minuscola grazia”. L’attesa è il momento delle rivelazioni e in fondo a Le ore dure Anthony Hecht confessa di amare “il calcolato, protratto pregustare non tanto la rappresentazione in sé, quanto il crepuscolo e l’ugualmente falsa notte, quando le luci di sala obbediscono a chissà quale reostato planetario, e suscitano immobilità assoluta. Quell’immobilità io aspetto”. Ci vuole più di una lettura, ma alla fine, Anthony Hecht si rivela un poeta straordinario.
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