Cresciuto e sviluppato con l’attiva partecipazione, nella traduzione e nella cura, di Allen Ginsberg, almeno fino a quando è riuscito, Papà respiro addio è un compendio enorme, tumultuoso, istintivo della sua opera che viene annunciata in prima persona dallo stesso poeta, “soddisfatto della progressione dispiegata di temi politici, devozionali e sessuali, dei sentieri spirituali tracciati con freschezza, della volontà di forze poetiche esplorate”. Il nucleo del ricchissimo lavoro antologico è rappresentato idealmente da Urlo e Kaddish. Urlo è il poema che, per accezione comune, segnò l’inizio di tutta la Beat Generation allorché il 13 ottobre 1955 il suo autore lo lesse alla Six Gallery di San Francisco, e non ha bisogno di ulteriori presentazioni. Kaddish è composto dalle strofe toccanti che invece dedicò in occasione della morte della madre Naomi. Accostate nello stesso volume le due composizioni danno un’immagine speculare di Allen Ginsberg: da una parte il bardo, il profeta, il guru e dall’altra l’intimo oratore, il profondo conoscitore di sentimenti, il timido narratore. Per conoscere tutti i volti del poliedrico Allen Ginsberg oggi non c’è niente di meglio di Papà respiro addio: oltre a Urlo e Kaddish, si ritrovano ampi stralci tratti da La caduta dell’America, da Saluti Cosmopoliti (1986-1992) nonché numerosissimi inediti. Papà respiro addio ha perciò una funzione retrospettiva di primissimo piano nell’opera di Allen Ginsberg, sia per la dimensione della raccolta, sia per la scelta che è stata centellinata in maniera davvero eccellente. Ne emerge uno scrittore gigantesco, convinto che “il metodo dev’esser tutta carne non salsa simbolica visioni reali e reali prigioni viste allora e ora” e capace di interpretare le parole, ma anche di usarle in tutto il loro tagliente potere, lasciando nell’introduzione a Papà respiro addio (scritta poco più di un anno prima dalla sua morte) una nota che sembra una rivendicazione pura e semplice, dove afferma: “Io volevo poesia realistica, fondata nelle emozioni ideali comuni dei cittadini di una democrazia, volevo fare profezia bardica e contribuire a terminare la guerra, influenzando la coscienza della nazione e invocando un risveglio di una nuova età in America”. Propositi tutt’altro che utopici e che riletti attraverso Papà respiro addio mostrano l’incalcolabile dimensione della vocazione di Allen Ginsberg, così declamata: “Immaginavo un campo di forza di linguaggio contrario al campo ipnotico dell’apparato di controllo costituito da media governo polizia segreta e forze armate, coi loro miliardi di dollari di inerzia, disinformazione, lavaggio del cervello, allucinazione di massa”. Il legame con Dylan, anfitrione di universi sonori, canzoni, ballate & ritornelli, le dediche a Gregory Corso (“Maestro di saggezza, genio americano di antico e moderno idioma, padre poeta di concisione”), a Kerouac, Herbert Huncke & Burroughs (“Non nascondere la pazzia”) e a se stesso, tramite una lirica Scritta in un mio sogno da William Carlos Williams, (“Prenditi i rischi della tua accuratezza, ascolta te stesso, parla a te stesso, e gli altri lo faranno, contenti, sollevati dal fardello, il loro, pensiero e dolore. Ciò che è iniziato come desiderio, terminerà più saggio”) ribadiscono un sentire comune perché i protagonisti sono sempre radunati in quel “noi” che, come scrive in L’auto verde, “vediamo insieme la bellezza delle anime nascoste come diamanti nell’orologio del mondo”. D’altra parte, perso in una contraddizione fiorita dalle moltitudini di Walt Whitman (qui celebrato più che mai), Allen Ginsberg è concentrato su una percezione tutta personale, ribandendo che “cosa son le visioni se non visioni”, e alludendo a “una letteratura privata”, meglio specificata in America, quando dice: “Mi viene in mente che io sono l’America, sto sempre parlando a me stesso” e concludendo in Con chi essere buoni: “Sii buono con tuo sé, è il solo e peribile di molti sul pianeta”. Papà respiro addio non è soltanto una porzione significativa della poesia di Allen Ginsberg e un puro delirio americano del ventesimo secolo, è una sorta di testamento di una generazione visionaria e irripetibile che Allen Ginsberg riesce a riassumere, in Giardini di memoria, con straordinaria precisione: “Già che sono qui farò il lavoro, e qual è il lavoro? Alleviare la pena di vivere. Tutto il resto, ubriaca pantomima”. Monumentale.
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