Il ritorno di Tayo nella sua terra, dopo il trauma della guerra snel pacifico, è un rebus. Il reduce, ancora prigioniero dei ricordi e degli incubi, dei fantasmi e delle fatiche, perché laggiù, più che altrove, “ci voleva molta energia per essere un essere umano”, deve affrontare una ferita mai rimarginata. La sua intima natura è frammentata tra le origini native e l’assedio dei “distruttori” (bianchi) che hanno scardinato l’habitat, introducendo elementi artificiali, destinati a modificare in modo indelebile il territorio. Dalle masse di filo spinato, che hanno delimitato e chiuso spazi una volta liberi e aperti, alle riserve fino agli esperimenti nucleari nel deserto del New Mexico, l’elemento dei “distruttori” è il disturbo, la malattia e per certi versi la nemesi della Cerimonia. Tayo con gli amici, gli spettri e le ombre “dovevano guardare il paesaggio ogni giorno da un orizzonte all’altro e ogni giorno si rinnovava il senso della perdita; erano i morti insepolti e il lutto per le persone perdute che andava avanti all’infinito. Così cercarono di affogare la loro perdita nell’alcol e di mettere a tacere il loro dolore con le storie di guerra sul coraggio dimostrato difendendo la terra che avevano ormai perso”. L’unica cura possibile è la Cerimonia, in effetti un insieme di rituali, tradizioni, percezioni, visioni che, nella prospettiva di Tayo, “era un mondo vivo, sempre in cambiamento e in movimento: e se sapevi dove guardare potevi vederlo, quasi impercettibile talvolta, come il movimento delle stelle nel cielo”. La Cerimonia è frutto dell’osservazione, del rapporto con l’ambiente (che è tutto) e della vita nella natura: gli animali, i ritmi delle stagioni e le variazioni del clima, persino l’essenza delle rocce, contribuiscono a determinare la corrispondenza tra esseri viventi e non, animati e non. Uno dei gesti ricorrenti di Tayo, che riempie di polline le impronte, collega le sequenze più terrestri e prosaiche della Cerimonia, con le sue proiezioni trascendentale, dove si fa evidente il legame con il “quinto mondo”. La predisposizione all’invisibile e all’incorporeo introduce, attraverso le canzoni, le preghiere, le invocazioni il concetto che nella Cerimonia “nessuna parola esiste da sola, e la ragione della scelta di ciascuna parola doveva essere spiegata con una storia che indicava perché doveva essere detta in quel modo”. A quel punto il racconto assemblato da Leslie Marmon Silko si stratifica sia sulle coordinate linguistiche, dove le inflessioni native si mescolano con lo spagnolo, l’inglese, gli slang e i dialetti, sia nelle insolite evoluzioni delle storie e delle parole da cui sono formate e che si propagano in tutte le dimensioni: nella memoria, nei sogni, nell’introspezione, nelle incursioni di figure ancestrali, che il più delle volte hanno profili femminili. Proprio per il suo tessuto, Cerimonia è, a tratti, impenetrabile. Resta il vigore, denso e spontaneo, della voce di Leslie Marmon Silko che, nonostante l’incombenza dei “distruttori”, e il disorientamento impersonato da Tayo riesce a mantenere una scintilla di speranza, perché “Il danno che era stato fatto non aveva mai intaccato questo sentimento. Questo sentimento era la loro vita, vitalità conservata in profondità nella memoria del sangue, e la gente era forte e il quinto mondo resisteva e niente andava mai perduto finché rimaneva l’amore”. Nel groviglio della trama di Cerimonia, il senso rimane pur sempre quello, a cui va aggiunta inoltre pl’ammirevole convinzione di Leslie Marmon Silko: “Vi dirò una cosa delle storie, non sono solo un passatempo. Non lasciatevi ingannare. Sono tutto quello che abbiamo per combattere le malattie e la morte”. Sono l’ultima, vera Cerimonia che ci resta, prima che i “distruttori” riducano anche le storie alla banalità di gadget usa e getta.
martedì 30 gennaio 2018
lunedì 22 gennaio 2018
Lawrence Ferlinghetti
Scritte nell’arco della golden age del rock’n’roll, le annate 1966, 1967 e 1968, le poesie radunate in Il senso segreto delle cose, cominciano con un presagio. In Assassinio Raga, Lawrence Ferlinghetti racconta il funerale di JFK e quell’ultimo volo “nel suo cielo pieno di merda & morte”. La durezza delle parole è frutto di una visione condivisa, a partire dalla “televisione morte” di William Burroughs (“Ogni giorno i telegiornali si fanno più irreali”), che ricorre in un verso centrale di Assassinio Raga, ai temi comuni a La caduta dell’America di Allen Ginsberg. Solo che, espletato il compito della denuncia e dell’allarme, perché “la profezia è l’unica grande arte perduta dei poeti moderni”, Il senso comune delle cose esalta l’arte della psichedelia, attraverso i trip dell’LSD, non meno di quelli garantiti dai tormenti e dalle gioie dell’osservazione che “non si ferma mai, continua & continua & continua”. Ferlinghetti canta Segovia che insegna a Mosca “l’accordatura aperta con cui possono suonare qualsiasi cosa in modo libero e semplice”, ci ricorda & ci avvisa che “le nostre cellule odiano il metallo”, e che “nessuno di noi è veramente parte di nessuna nazione”, prende appunti come respirare perché “è questo che dobbiamo aspettare per cavar fuori un nuovo modello di universo con comunicazione istantanea, un villaggio globale, in cui ogni essere umano è parte di noi, anche se noi saremmo ancora degli usa-e-getta in una sequenza evolutiva”. Lo scriveva proprio mezzo secolo fa, eppure appare come una lucidissima istantanea di ieri, di oggi. Quella di essere sbalzati in un tuffo carpiato temporale è una sensazione frequente in Il senso segreto delle cose, dato che Ferlinghetti vede Fin troppo chiaro, passa Attraverso lo specchio sfruttando un doping che Alice nemmeno poteva immaginare e torna a Big Sur a convocare Mark Twain e Jack London, Virginia Woolf e Anaïs Nin e un’intera folla di sognatori destinati ad accertare che il futuro sarà “allora una poesia cominciata dall’uomo al di fuori, nell’alienazione, come devono essere tutte le poesie dure, una poesia di profezia alienata dalla nazione americana, perché chi vuole la nazione?, a che servono la nazione e il nazionalismo per se stessi, una residua forma medievale di barbarie da eliminare in tutte le sue forme in una nuova società pastorale dopo che lo stridio degli uccelli è cessato, dopo che le nuvole si diradano finalmente sopra la bomba finale, e piccole sacche sparse di civiltà sopravvivono solo in gruppetti di mistici capelloni e vagabondi che intonano mantra americani, la lettera maiuscola A è stata finalmente abolita da suolo americano, dalla Sierra Maestra americana che si estende dalle Aleutine alla Terra del Fuoco”. Come dice Lawrence Ferlinghetti, “comincia tutto al Fillmore Auditorium, autunno 1965”: proprio in quella stagione, due nuove rock’n’roll band stavano seguendo “l’impulso a perseguire ciò che sta oltre la mente, che sta appena oltre”. Erano i Jefferson Airplane e i Grateful Dead, e se quelle strane settimane strani di “elettricità statica estatica” sono state brutalizzate da un secolo con l’altro, resteranno all’infinito nell’universo parallelo in cui hanno sconfinato a furia di chitarre & poesie.
venerdì 19 gennaio 2018
Carson McCullers
Carson McCullers elenca subito, nel corso dell’incipit, i protagonisti di Riflessi in un occhio d’oro: “due ufficiali, due donne, un filippino e un cavallo”. Un cast limitato, se non si conoscono Alison e Morris Langdon, Leonore e Weldon Penderton, Anacleto e, last but not least, il soldato Elgee Williams. Incastrati in una base militare nel sud degli Stati Uniti, territorio di elezione e di conquista di Carson McCullers, soffrono la particolare atmosfera di quel microcosmo, dove tutti sono vicini senza esserlo davvero e dove “il tedio nasce soprattutto dall’isolamento e da un’esagerata preoccupazione di comodità e di sicurezza, poiché appena un uomo si arruola nell’esercito è destinato a segnare il passo di chi gli sta davanti”. Composti, rigidi, disciplinati ed educati nella vita pubblica e alla luce del sole, sono perfidi, traballanti, inquieti, arrembanti una volta rintanati tra quattro mura o nelle ombre. Di volta in volta occupano il centro della trama e, ad ogni cambio di scena, la tensione aumenta in modo esponenziale. Anche Alison Langdon, emarginata nella sua camera, assistita da Anacleto, affaticata e distrutta diventa il perno della storia, nel momento cruciale in cui la corda tirata dai protagonisti si rivela un nodo scorsoio. L’intreccio elaborato da Carson McCullers seguendoli è nello stesso tempo un contorto labirinto emotivo e una bomba ad orologeria. Leonore Penderton e Morris Langdon hanno una relazione (nemmeno tanto segreta). I rispettivi conforti si odiano, non tanto per la relazione di cui sopra, ma per motivi epidermici, insondabili. Sono gli anelli deboli della catena di Riflessi in un occhio d’oro. Alison è malata, ipocondriaca, depressa e malinconica, succube di tutto ciò che le succede attorno. Weldon Penderton è frustrato dalla genuina esuberanza della moglie e da una sessualità incompresa e repressa. Nello svilupparsi di Riflessi in un occhio d’oro, il soldato Williams diventa un oscuro oggetto di un desiderio che non riesce a decifrare, che sente svilupparsi tanto da procurargli “una sensibilità così acuta da sfiorare il delirio”. È la stessa ossessione che divora Elgee Williams, soltanto che le sue morbose attenzioni sono rivolte alla moglie del capitano. Espressione ultima della sua solitudine, è incantato e turbato dalla signora Penderton, o meglio dal suo corpo. Un’attrazione (fatale) che lo spinge ad avvicinarsi sempre di più, per osservarla, per carpirne i dettagli del volto, dei fianchi, delle gambe. Lubrificati da un rivolo continuo di alcol che scorre senza soluzione di continuità, con il contorno di festicciole casalinghe in cui vengono serviti (come minimo) “due prosciutti della Virginia, un tacchino gigante, polli fritti, maiale freddo, costolette a montagne e una quantità di sciocchezzine, cipolle in salsa, olive, ravanelli. E panini caldi e biscotti al formaggio serviti continuamente” e innescati dall’umore variabile di un cavallo accudito con troppe premure, i contrasti esplodono, infine, nella tragedia. Carson McCullers ha un approccio acuto, clinico, tagliente nel delineare i Riflessi in un occhio d’oro: usa le parole con parsimonia, ma in ogni singola frase ci ricorda che “la formazione di un’idea esige l’accostamento di almeno due fatti conosciuti”. Ecco, Carson McCullers dimostra, nella pratica della scrittura, che è davvero intima ai suoi personaggi, non tanto da deciderne il destino, ma da comprenderli fino in fondo, nel buio delle loro notti, al capolinea dei loro desideri. Una rarità, e un piccolo capolavoro.
martedì 16 gennaio 2018
Cormac McCarthy
Come se fosse un rituale di passaggio, l’inizio e la fine del viaggio di John Grady Cole coincidono con l’attraversamento della frontiera. E’ parte della soluzione, perché quando la sua famiglia vende il ranch, non gli resta che andarsene visto che “la cosa che amava nei cavalli era la stessa che gli piaceva negli uomini, il sangue e il calore del sangue che li mandava avanti. Tutta la sua reverenza, tutto il suo affetto e tutte le inclinazioni della sua vita andavano verso chi aveva il cuore ardente e sarebbe stato sempre così e mai altrimenti”. La direzione della fuga è anche il dilemma centrale di Cavalli selvaggi perché il Messico è un ospite dai pensieri più articolati e antichi, con un modus vivendi più sottile e fatalista del ruvido pragmatismo americano. John Grady Cole, Lacey Rawlins, il suo migliore amico, e Jimmy Blevins, un impiastro incontrato nella prateria, se ne accorgeranno. Se all’inizio, “guardavano il territorio circostante come se rappresentasse per loro un problema, una cosa su cui non avevano ancora un’opinione definitiva”, ben presto devono accettare l’idea che hanno scelto una via e una vita in cui l’ultima parola è dettata dagli elementi naturali. A quel punto, John Grady Cole si è incamminato verso una strada impervia e “guardava il paesaggio con certi occhi incavati come se il mondo esterno fosse stato alterato o messo in dubbio da altri aspetti che aveva scorto altrove. Come se non riuscisse più a vederlo nel modo giusto. O peggio, come se lo vedesse finalmente nel modo giusto. Lo vedesse come era sempre stato e sempre sarà”. Cormac McCarthy sa usare le descrizioni delle montagne, del deserto, dei ruscelli, dell’alba e della notte per creare un fondale che si muove allo stesso ritmo dei giovani cowboy ed è protagonista allo stesso livello. Lo si vede quando è il clima (brutale nelle sue variazioni d’umore) a determinare la svolta centrale di Cavalli selvaggi. Succede quando un temporale spaventa e fa fuggire il cavallo di Blevins (lui ancora più terrorizzato perde la camicia e gli stivali). La ricerca del cavallo (e della pistola che era rimasta nelle sacche) determinerà tutto il seguito, e così il cavallo sarà l’artefice del destino di Blevins e poi di Rawlins e di John Grady Cole. Quando lo ritrovano in un villaggio, ormai diventato proprietà di qualcun altro, lo riprendono, ma vengono inseguiti. A quel punto si separano: Blevins sparisce, mentre John Grady Cole e Rawlins dopo un lungo e sfiancante peregrinare trovano lavoro alla Hacienda de Nuestra Señora de la Purísima Concepción. Il secondo fuoco su cui ruota tutta la struttura ellittica di Cavalli selvaggi. Lì, John Grady Cole si innamora di Alexandra, figlia del proprietario, Don Héctor Rocha y Villareal, una passione osteggiata dalla prozia (nonché madrina) Dueña Alfonsa, una donna machiavellica il cui problema “è sempre stato quello di sapere se la forma che ci sembra di scorgere nella nostra vita è lì dall’inizio oppure se una serie di avvenimenti casuali formano un disegno solo dopo che sono accaduti. Perché altrimenti noi non siamo nulla”. Una premessa che spiega perché il suo intervento sarà inevitabile e devastante: l’ostinazione di John Grady Cole per i cavalli e per Alexandra lo porterà a sperimentare il dolore della frontiera, da una parte come dall’altra. Verrà arrestato, incarcerato, aggredito e ferito, anche se potrà sempre contare su Rawlins, che non lo tradirà mai. Sentendosi ormai “un uomo arrivato alla fine di qualcosa”, John Grady Cole cercherà l’amore e la vendetta e si ritroverà ancora di fronte a Dueña Alfonso, il vero deus ex machina di Cavalli selvaggi, che lo lascerà andare impartendogli una lezione filosofica: “Se il destino è la legge, anche il destino è soggetto a quella legge? A un certo punto non possiamo evitare di assegnare qualche responsabilità: è la nostra natura. A volte penso che siamo tutti come quell’ometto miope addetto al conio, prendiamo i tondelli vuoti dal vassoio uno alla volta, siamo tutti lì intenti al lavoro, risoluti a far sì che nemmeno il caos sfugga al nostro controllo”. Nonostante tutto, John Grady Cole non si fermerà, tornerà sul confine, e oltre, cavalcando tra panorami e uomini che, come diceva Georgia O’Keefe conoscono la bellezza, ma non conoscono la pietà. Drammatico, romantico, bellissimo.
sabato 13 gennaio 2018
John Reed
Le testimonianze raccolte in Ottobre 1917 non soltanto outtakes di I dieci giorni che sconvolsero il mondo. John Reed E’ un stato un reporter partecipe, persino temerario se si pensa al tempo e alla situazione in sé. E’ chiaro che è stato parte in causa e le sue Cronache dal Palazzo d’Inverno trasudano partecipazione ed emozione, sono schierate (per fortuna) non tanto perché sia convinto di essere dalla parte giusta, quanto perché nega alla fonte il principio ipocrita dell’informazione senza opinioni, delle notizie spurgate dai sussulti emotivi, dei fatti così come sono (come se fosse possibile). In verità, John Reed gode di una posizione privilegiata (anche se non priva di rischi, compresa l’impossibilità di curare la malattia che lo porterà alla morte), di sicuro così vicina allo svolgersi degli eventi e da comprenderli in tutta la loro complessità, e di saperli raccontare meglio di chiunque altro. I reportage sono appassionati, urgenti, immediati eppure a John Reed non manca l’occasione per dimostrare una conoscenza approfondita e acuta della rivoluzione, sia nelle motivazioni primordiali e generali (“Che cos’è che fa le rivoluzioni? La propaganda? Gli agitatori? No, le condizioni. Condizioni simili producono simili risultati”) sia dello specifico contesto internazionale in cui si è sviluppata. In questi resoconti inediti viene sottolineato a più riprese il rapporto tra la rivoluzione russa e la prima guerra mondiale che, nella visione di John Reed, “era un guerra di industrie, e le trincee erano fabbriche che producevano distruzione, distruzione dello spirito oltre che del corpo, che è la vera e unica morte. Ogni cosa si era fermata tranne le macchine dell’odio e dello sterminio”. Non c’è altro da aggiungere, se non una postilla valida nei secoli dei secoli: “A che serve la guerra? Certo non alla libertà, perché il governo diventa sempre più tirannico”. Il compito del reporter in quei “giorni febbrili, in cui tutti intuivano che stava succedendo qualcosa, ma nessuno sapeva che cosa” è rendere intelligibile qualcosa di inedito perché, come sa bene John Reed, “per la prima volta nella storia, la classe operaia ha conquistato il potere statale per i propri interessi, e ha tutte le intenzioni di conservarlo”. Le Cronache dal Palazzo d’Inverno sono dettagliate nelle analisi politiche, ma, se trascinato dalla passione si concede qualche commento trionfante (“L’intera insurrezione è un emozionante spettacolo di organizzata azione di massa proletaria, di coraggio e generosità”), John Reed non nasconde mai che “la vera insurrezione si svolse abbastanza naturalmente alla luce”, con tutta l’ammirazione per “l’enorme semplicità con cui si è svolta”. Sulle motivazioni, al di là delle sacrosante richieste di “pace, terra, pane” e sugli sviluppi della rivoluzione russa occorre poi rivolgersi, inevitabilmente, a I dieci giorni che sconvolsero il modo, anche se John Reed in Ottobre 1917 ricorda almeno almeno una lezione importante quando dice: “La storia dimostra che i governi crudeli senza bisogno e spietati senza necessità prima o poi assaggeranno la rabbia del proprio popolo”. Su questo, è difficile da smentire.
martedì 9 gennaio 2018
Irwin Shaw
Partendo
dallo stesso ambiente suburbano di Richard Yates e John Cheever, dove
i personaggi che vivono “nelle loro comunità confortevoli e
ordinate, avevano in comune la paura e un senso di insicurezza e
fragilità”, Irwin Shaw è “un esploratore in cerca di un’oasi
nel centro del grande deserto chiamato America”, proprio come
Bowman, il voyeur protagonista di Cerchio
di luce, che
vaga di notte per scrutare “quelli felici”. Il più delle volte
si tratta di coppie che soffrono quel “persistente, disperato,
frantumato, incontrollabile amore”, come scrive in L’uomo
che sposò una ragazza francese
(con buona pace di chi non apprezza gli aggettivi). Il racconto, in
cui marito e moglie in trasferta nella Ville Lumière si
trovano a discutere la richiesta di un’esportazione di valuta, in virtù di un
possibile colpo di stato, definisce già alcuni temi ricorrenti e
continui nelle trame di L’amore
in una strada buia:
l’asse tra New York e Parigi, gli attriti nella vita matrimoniale e
più in genere nelle relazioni tra uomo e donna, e, più di tutto, la condizione
dell’esilio. Un tema nascosto, ma persistente che torna in Un
anno per imparare la lingua
(e siamo ancora a Parigi), dove Roberta, una giovane pittrice americana, lo
prova come una sensazione, un’emozione, più che una condizione
esistenziale. La short story ha il tono leggiadro della commedia
agrodolce, che Irwin Shaw farcisce con piccole fioriture stilistiche visibili in parallelo a L’amore
in una strada buia, il
racconto da cui prende il titolo la raccolta che assume le forme di una
battaglia epocale, le Termopili, Azincourt, osservata dalle finestre
dell’appartamento di un americano a Parigi, in attesa su una linea
intercontinentale. Quando il protagonista torna alla sua telefonata
con New York, tutta la scena notturna gli appare sotto un’altra
luce, per cui “non terminati e interminabili, non risolti e
irrisolvibili, i conflitti e gli inestricabili opponenti se ne erano
andati nelle tenebre, ed ora restavano soltanto flebili echi di
ammonimenti fantasmi con dita scosse in avvertimenti verso labbra che
sparivano”. En passant, attraverso piccole
coincidenze, Irwin Shaw ha il vezzo di annodare i racconti. Roberta, in Un
anno per imparare la lingua, porta
le calze verdi come la ragazza in in Accordate
ogni cuore e ogni voce (che
però alla fine le toglie). L’amante in motocicletta in L’amore
in una strada buia
si ritrova (più giovane) in Un
anno per imparare la lingua,
mentre i paesaggi montani di Ranuncolo
di fianco alla tomba
non sono lontani da quelli di Gli
abitanti di Venere,
per non dire dei banconi dei bar, in particolare in Accordate
ogni cuore e ogni voce
e in Rumori di
città. Se lo può permettere perché è un osservatore meticoloso e acuto, un cesellatore di frasi
non meno che di immagini che trova nell’arte della narrazione “la
privata e squisita ricompensa di sfuggire alla legge della coerenza”.
La sua strategia è quella di nascondere un dettaglio che spesso, a
sorpresa, comporta una svolta inaspettata. Succede con Gli abitanti di
Venere e in Una
volta ad Aleppo, un
racconto rocambolesco tra il tragico e il comico, acrobazia che a
Irwin Shaw riesce sempre benissimo. Capita anche in Rumori
in città, agghiacciante e perfetto perché Irwin Shaw eleva al massimo
esponente lascia in ombra i fatti salienti, per poi farli
raccontare ai suoi personaggi. In comune hanno tutti (o quasi) le
atmosfere notturne, un fiume ininterrotto di alcol, e storie che
potrebbero vivere nella cornice di Nighthawks
di Edward Hopper, nelle canzoni di Tom Waits fino alle
“small wee
hours” di Frank Sinatra. Quando giunge l’ora di chiusura, il mood
è ancora quello di Bowman, che se ne va come “una spia perduta in
un paese oscuro, le tasche piene di dati confusi, impossibili da
decifrare”. Dopo aver letto L’amore
in una strada buia ci si sente proprio così: sollecitati, pensierosi, un po’ fuori posto e con una gran voglia di un altro whiskey.
martedì 2 gennaio 2018
Paul Auster
La vera
ambizione del monumentale 4 3 2 1
è ricordare che “esiste sempre un’altra versione della storia”.
Se è vero che il futuro non è scritto, Paul Auster deve aver
pensato che si possono sfruttare delle alternate take per immaginare
quella “parabola del destino umano e degli infiniti bivi che una
persona deve affrontare durante il cammino della propria esistenza”.
Eccolo seguire le avventure, le famiglie (ingombranti), le scoperte
(prima il sesso, poi la cultura) di Archie Isaac Ferguson negli anni
della sua formazione che vanno dal 1954 al 1970 (nella migliore delle
ipotesi). Lo sfondo, molto mobile e in rilievo, è una forma
dell’America fluttuante, tra la guerra in Corea e quella del
Vietnam, i fratelli Rosenberg e i fratelli Marx, i Kennedy e Nixon,
la corsa allo spazio e i diritti civili, gli scontri alla Columbia e
le rivolte di Newark, il cinema e l’onnipresente baseball. Un
substrato narrativo che rende 4 3 2 1
una specie di romanzo in cui gli eventi politici, economici e storici
in generale costituiscono i moventi che spostano i destini dei
protagonisti, a partire proprio dalle identità di Archie Ferguson.
Sempre affamato di vita, di conoscenza, di indipendenza, di
movimento, si troverà circondato dalle vicende di parenti e amici,
sarà più o meno fortunato, e si dedicherà alla lettura e alla
scrittura con risultati alterni. Le quattro variabili hanno in comune
le figure femminili della madre (Rose, determinante) e
dell’innamoramento per Amy (a volte corrisposto, a volte no) e
Parigi come un giro di boa che conduce, in tutti i casi, verso i
relativi finali. Nel giocare con il destino di Archie Ferguson, Paul
Auster ha lasciato la porta aperta, accordandosi a un tono è cauto,
levigato, quasi sottovoce, come un racconto al bancone del bar o una
chiacchiera al barbecue, con un solido sfondo autobiografico. Uno
schema funzionale nel tentativo di dare un ordine e una coerenza alle
emozioni, alle notizie, ai volti di una folla di personaggi che ruota
intorno ad Archie Ferguson. Il meccanismo è produttivo, ma non privo
di una sorta di formalismo come se la struttura della trama di fosse
autosufficiente e si alimentasse da sola, oppure come se Paul Auster
si fosse crogiolato nella sua intuizione. Se questo è un difetto
fisiologico dell’impianto di 4 3 2 1,
con il progredire in parallelo delle quattro soluzioni, la formula
diventa automatica e prevedibile, in particolare se si ha un minimo
di dimestichezza con le cronache americana della seconda metà del
ventesimo secolo. Le uniche scosse dovrebbero venire da lì, ma nel
contesto di 4 3 2 1
incide di più il caso (almeno così pare) della storia nazionale.
Questo si può capire perché 4 3 2 1 è
un romanzo più costruito che ispirato e sembra scritto con un elenco
telefonico a portata di mano: un sacco di personaggi che vanno e
vengono, ma che non restano. Non bastano le sommarie descrizioni,
tanto è vero che Paul Auster deve ricorrere in continuazione a
riepiloghi, elenchi, raccordi, rimandi e ripetizioni per cercare di
mantenere un minimo di continuità. Avesse fatto come uno degli
Archie più rigororsi e tormentati, capace nelle sue revisioni di
eliminare tre pagine su quattro, 4 3 2 1
sarebbe stato meno ridondante, più focalizzato, meno esposto a
sviste imbarazzanti. Una, almeno, emblematica: nonostante l’effluvio
di citazioni di scrittori, registi, pittori, musicisti e artisti che
rendevano New York l’unica meta (“New York è New York. Non
esistono altri posti”), di Bob Dylan (Bob Dylan) non c’è
traccia. Eppure esordiva proprio a New York, e proprio al centro
dell’arco temporale sottinteso da 4 3 2 1,
ovvero nel 1962. All’aggiornato, colto e intraprendente Archie
Ferguson non poteva sfuggire, visto che tra l’altro, in uno dei
suoi sviluppi più polemici, si permette di dubitare dello sbarco
sulla Luna, un bel mito americano di quell’epoca. Una crepa non
indifferente perché se le variazioni sul tema di Archie Ferguson
sono indipendenti e volubili, per Paul Auster, l’universo sullo
sfondo rimane sempre lo stesso, ancorato alla realtà, e lì, giusto
in coincidenza con l’unico punto fermo, manca qualcosa.
lunedì 1 gennaio 2018
Wynton Marsalis
L’approccio
è piuttosto singolare e molto particolare: non si tratta di un
trattato di musicologia, e nemmeno di una biografia, anche se
naturalmente sono frequenti i passaggi autobiografici, ma piuttosto
di una dichiarazione d’amore per il jazz, per la musica e per la
cultura in generale. Con un atteggiamento molto divulgativo e
passionale che si può intravedere fin dall’introduzione dove
Wynton Marsalis spiega il senso del ritmo, dello swing e del jazz con
parole ed esempi semplicissimi (persino onomatopeici) che chiunque,
anche chi è a digiuno di tecnica musicale, può comprendere. Tutto
il libro si snoda attraverso la narrazione di cosa s’intende per
ispirazione, per improvvisazione, per feeling, cosa si prova suonando
e ascoltando il jazz, e quali sono gli elementi che distinguono un
suono da un altro. Il tono, pur denso di informazioni, riferimenti
alla storia del jazz, dei jazzisti e per esteso della cultura
afroamericana e dell’America è sempre molto leggero e alla portata
di tutti. Per esempio, quando Wynton Marsalis spiega che il tempo è
il dettaglio più importante nel jazz (“Il
jazz è l’arte del timing.
Ti insegna quando.
Quando cominciare, quando attendere, quando devi farti avanti, quando
devi prendere il tuo tempo, strumenti indispensabili per far felice
qualcuno”) lo fa rivelando che è una costante questione di
conflitto tra batteristi e bassisti, che vedono il chitarrista un po’
come un arbitro. Di metafore come questa è pieno il libro anche
perché è nell’intenzione (dichiarata) di Wynton Marsalis
dimostrare che il jazz è una musica viva, per niente élitaria e con
fondamentali radici nella lotta per l’identità e per i diritti
civili. Questo è un tema che, dall’inizio alla fine, scorre in
parallelo con la “spiegazione” del jazz secondo Wynton Marsalis,
che assume via via l’aspetto di un elaborato glossario che descrive
i linguaggi, i luoghi comuni, e i cliché del jazz (illustrando cos’è
una jam session piuttosto di una cutting session, cosa significa la
chitarra piuttosto che una sezione ritmica) ma sempre mantenendo un
livello (quasi) didattico. La parte centrale, che comincia con
un’ampia dissertazione sul blues (molto pertinente, visto che
“quando accetti il blues,
chiunque tu sia, accetti la tua condizione di essere umano”)
arriva poi a trattare il jazz all’interno della cultura
afroamericana e Wynton Marsalis ha il pregio di affrontare la
questione con un coraggio non relativo quando dice (e spiega in modo
molto articolato) che “jazz non è race music” e le conclusioni
a cui giunge (“Il jazz ci
chiama a impegnarci per la nostra identità nazionale. Dà
espressione alla bellezza della democrazia e della libertà
individuale e alla scelta consapevole di accogliere il carattere
umano di tutti.
E’ esattamente quello che la democrazia americana dovrebbe
essere”) oltre che molto interessanti sono più che
condivisibili. Il libro si chiude con una serie di ritratti dei più
importanti jazzisti secondo Wynton Marsalis (Louis Armstrong, Miles
Davis, John Coltrane, Dizzy Gillespie, tra gli altri) corredati da
brevi e sintetiche discografie, tutti testimoni del fatto che “il
jazz fa sì che ogni individuo plasmi un linguaggio con i propri
sentimenti e usi questo linguaggio, assolutamente personale, per
comunicare la propria visione del mondo. Le registrazioni
cristallizzano i suoni di questi musicisti, concedendoci il piacere
di entrare nel loro mondo ogni volta che lo desideriamo. Il mondo
secondo Lester Young, pensate? Ecco dove voglio essere. E ritornarci
un’infinità di volte”. Se si sfogliano con un minimo di
attenzione queste pagine, l’indirizzo per quei luoghi magici non è
difficile da trovare.