Il ritorno di Tayo nella sua terra, dopo il trauma della guerra snel pacifico, è un rebus. Il reduce, ancora prigioniero dei ricordi e degli incubi, dei fantasmi e delle fatiche, perché laggiù, più che altrove, “ci voleva molta energia per essere un essere umano”, deve affrontare una ferita mai rimarginata. La sua intima natura è frammentata tra le origini native e l’assedio dei “distruttori” (bianchi) che hanno scardinato l’habitat, introducendo elementi artificiali, destinati a modificare in modo indelebile il territorio. Dalle masse di filo spinato, che hanno delimitato e chiuso spazi una volta liberi e aperti, alle riserve fino agli esperimenti nucleari nel deserto del New Mexico, l’elemento dei “distruttori” è il disturbo, la malattia e per certi versi la nemesi della Cerimonia. Tayo con gli amici, gli spettri e le ombre “dovevano guardare il paesaggio ogni giorno da un orizzonte all’altro e ogni giorno si rinnovava il senso della perdita; erano i morti insepolti e il lutto per le persone perdute che andava avanti all’infinito. Così cercarono di affogare la loro perdita nell’alcol e di mettere a tacere il loro dolore con le storie di guerra sul coraggio dimostrato difendendo la terra che avevano ormai perso”. L’unica cura possibile è la Cerimonia, in effetti un insieme di rituali, tradizioni, percezioni, visioni che, nella prospettiva di Tayo, “era un mondo vivo, sempre in cambiamento e in movimento: e se sapevi dove guardare potevi vederlo, quasi impercettibile talvolta, come il movimento delle stelle nel cielo”. La Cerimonia è frutto dell’osservazione, del rapporto con l’ambiente (che è tutto) e della vita nella natura: gli animali, i ritmi delle stagioni e le variazioni del clima, persino l’essenza delle rocce, contribuiscono a determinare la corrispondenza tra esseri viventi e non, animati e non. Uno dei gesti ricorrenti di Tayo, che riempie di polline le impronte, collega le sequenze più terrestri e prosaiche della Cerimonia, con le sue proiezioni trascendentale, dove si fa evidente il legame con il “quinto mondo”. La predisposizione all’invisibile e all’incorporeo introduce, attraverso le canzoni, le preghiere, le invocazioni il concetto che nella Cerimonia “nessuna parola esiste da sola, e la ragione della scelta di ciascuna parola doveva essere spiegata con una storia che indicava perché doveva essere detta in quel modo”. A quel punto il racconto assemblato da Leslie Marmon Silko si stratifica sia sulle coordinate linguistiche, dove le inflessioni native si mescolano con lo spagnolo, l’inglese, gli slang e i dialetti, sia nelle insolite evoluzioni delle storie e delle parole da cui sono formate e che si propagano in tutte le dimensioni: nella memoria, nei sogni, nell’introspezione, nelle incursioni di figure ancestrali, che il più delle volte hanno profili femminili. Proprio per il suo tessuto, Cerimonia è, a tratti, impenetrabile. Resta il vigore, denso e spontaneo, della voce di Leslie Marmon Silko che, nonostante l’incombenza dei “distruttori”, e il disorientamento impersonato da Tayo riesce a mantenere una scintilla di speranza, perché “Il danno che era stato fatto non aveva mai intaccato questo sentimento. Questo sentimento era la loro vita, vitalità conservata in profondità nella memoria del sangue, e la gente era forte e il quinto mondo resisteva e niente andava mai perduto finché rimaneva l’amore”. Nel groviglio della trama di Cerimonia, il senso rimane pur sempre quello, a cui va aggiunta inoltre pl’ammirevole convinzione di Leslie Marmon Silko: “Vi dirò una cosa delle storie, non sono solo un passatempo. Non lasciatevi ingannare. Sono tutto quello che abbiamo per combattere le malattie e la morte”. Sono l’ultima, vera Cerimonia che ci resta, prima che i “distruttori” riducano anche le storie alla banalità di gadget usa e getta.
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