L’approccio
è piuttosto singolare e molto particolare: non si tratta di un
trattato di musicologia, e nemmeno di una biografia, anche se
naturalmente sono frequenti i passaggi autobiografici, ma piuttosto
di una dichiarazione d’amore per il jazz, per la musica e per la
cultura in generale. Con un atteggiamento molto divulgativo e
passionale che si può intravedere fin dall’introduzione dove
Wynton Marsalis spiega il senso del ritmo, dello swing e del jazz con
parole ed esempi semplicissimi (persino onomatopeici) che chiunque,
anche chi è a digiuno di tecnica musicale, può comprendere. Tutto
il libro si snoda attraverso la narrazione di cosa s’intende per
ispirazione, per improvvisazione, per feeling, cosa si prova suonando
e ascoltando il jazz, e quali sono gli elementi che distinguono un
suono da un altro. Il tono, pur denso di informazioni, riferimenti
alla storia del jazz, dei jazzisti e per esteso della cultura
afroamericana e dell’America è sempre molto leggero e alla portata
di tutti. Per esempio, quando Wynton Marsalis spiega che il tempo è
il dettaglio più importante nel jazz (“Il
jazz è l’arte del timing.
Ti insegna quando.
Quando cominciare, quando attendere, quando devi farti avanti, quando
devi prendere il tuo tempo, strumenti indispensabili per far felice
qualcuno”) lo fa rivelando che è una costante questione di
conflitto tra batteristi e bassisti, che vedono il chitarrista un po’
come un arbitro. Di metafore come questa è pieno il libro anche
perché è nell’intenzione (dichiarata) di Wynton Marsalis
dimostrare che il jazz è una musica viva, per niente élitaria e con
fondamentali radici nella lotta per l’identità e per i diritti
civili. Questo è un tema che, dall’inizio alla fine, scorre in
parallelo con la “spiegazione” del jazz secondo Wynton Marsalis,
che assume via via l’aspetto di un elaborato glossario che descrive
i linguaggi, i luoghi comuni, e i cliché del jazz (illustrando cos’è
una jam session piuttosto di una cutting session, cosa significa la
chitarra piuttosto che una sezione ritmica) ma sempre mantenendo un
livello (quasi) didattico. La parte centrale, che comincia con
un’ampia dissertazione sul blues (molto pertinente, visto che
“quando accetti il blues,
chiunque tu sia, accetti la tua condizione di essere umano”)
arriva poi a trattare il jazz all’interno della cultura
afroamericana e Wynton Marsalis ha il pregio di affrontare la
questione con un coraggio non relativo quando dice (e spiega in modo
molto articolato) che “jazz non è race music” e le conclusioni
a cui giunge (“Il jazz ci
chiama a impegnarci per la nostra identità nazionale. Dà
espressione alla bellezza della democrazia e della libertà
individuale e alla scelta consapevole di accogliere il carattere
umano di tutti.
E’ esattamente quello che la democrazia americana dovrebbe
essere”) oltre che molto interessanti sono più che
condivisibili. Il libro si chiude con una serie di ritratti dei più
importanti jazzisti secondo Wynton Marsalis (Louis Armstrong, Miles
Davis, John Coltrane, Dizzy Gillespie, tra gli altri) corredati da
brevi e sintetiche discografie, tutti testimoni del fatto che “il
jazz fa sì che ogni individuo plasmi un linguaggio con i propri
sentimenti e usi questo linguaggio, assolutamente personale, per
comunicare la propria visione del mondo. Le registrazioni
cristallizzano i suoni di questi musicisti, concedendoci il piacere
di entrare nel loro mondo ogni volta che lo desideriamo. Il mondo
secondo Lester Young, pensate? Ecco dove voglio essere. E ritornarci
un’infinità di volte”. Se si sfogliano con un minimo di
attenzione queste pagine, l’indirizzo per quei luoghi magici non è
difficile da trovare.
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