Affrontando
con coraggio “il flusso della storia interrotto da catastrofi”
(va ricordato che Americus risale al 2004), Lawrence
Ferlinghetti celebra, una volta di più, la capacità della poesia di
promuovere “una mediazione fra noi e la realtà di ogni giorno”.
Ferlinghetti non sono percepisce quanto ne abbiamo bisogno
(parecchio), ma individua anche un ideale collocazione, dove la
poesia può funzionare da salutare raccordo perché “la nostra
memoria saccheggia il passato per fare il presente, sogna attraverso
i secoli, baratta il tempo con il tempo dei verbi, mentre la
cinepresa-occhio-segreto-della-mente rallegra e preoccupa il genere
umano (poiché la pallida agenda del pensiero ci rende tutti
codardi)”. La lucidità di questa premessa è più che sufficiente
a capire la volontà di Americus nel rendere omaggio a Charles
Olson (Maximus è una delle principali fonti d’ispirazione
per il titolo), William Carlos Williams (Paterson, in
particolare), Ezra Pound, Mark Twain, Gertrude Stein, Thomas Wolfe.
Sapendo che ciascuno è “un palinsesto del passato di tutti”, le
citazioni sanno essere implicite ed esplicite, persino allegre
quando Ferlinghetti dice che Omero è un rapper e Walt Whitman un
soulman. I continui richiami all’espressione artistica, in
generale, e a quella poetica nello specifico, riconducono comunque
alle origini, alla storia e alla colonizzazione di un continente,
l’America, vista come “il più grande esperimento terrestre con
la più grande chance di creare un essere umano più alto, un’anima
o animo incondizionati, gambe storte e sesso incerto, un tipo strambo
sulla punta avanzata della civiltà, viso pallido o mestizo a
suo agio sui due continenti d’America prodotto da molte culture e
calamità”. Dato che la poesia “serve molti padroni, non tutti
santi”, la riflessione tende a spostarsi, con un piglio maturo e
lirico, dal piano pubblico, verso un tono più personale e
crepuscolare visto che “la vita continua a rotolare” e la memoria
è “una spola fra passato e presente un treno dai finestrini
sbarrati con gli specchi spaccati”. Il refrain del tempo e della
storia ritorna come il tema in una suite jazzistica, eppure, anche
nel formato ridotto ed essenziale, Americus contiene molto
dell’idea di poesia di Lawrence Ferlinghetti, e nella sua parte
centrale elenca i tratti, le virtù, le necessità e la natura di una
scrittura la cui “funzione è smascherare con luce radiosa” e che
“appaga un bisogno e ricompone la vita”. L’incrollabile
esuberanza, nutrita da fame e passione, lo porta a decantare
quella poesia che “in quanto lingua originaria venne prima della
scrittura e ancora risuona in noi, musica muta, musica incompiuta”
e con ciò ammirando di nuovo & per sempre la primordiale unità
tra musica e poesia, Ferlinghetti si erge tra i “propagatori di
epopee velleitarie” e si fa accompagnare da Dante e Platone,
Virgilio e Socrate, Cervantes e Thoreau, Dario Fo e Jack Kerouac. Una
compagnia di ineguagliabili ciceroni che in Americus trova la
sua strada, dove la creatività è sempre in agguato, mentre la
poesia si snocciola in un flusso esotico, brillante e contagioso.
sabato 30 dicembre 2017
giovedì 28 dicembre 2017
Patti Smith
Un
ritratto dell’artista giovane con più cose da dire che strumenti
per dirle: Babel condensa il periodo più importante di Patti
Smith, quello che va dal 1974 al 1978, quando il suo grido di
battaglia era, come scriveva in Neo Boy: “Tutto è merda. La
parola arte deve essere ridefinita. Questa è l’età nella quale
ognuno crea”. Babel risolve l’incognita fecale con una
gamma impropria di soluzioni: gran parte delle canzoni confluite in
Radio Ethiopia ed Easter, frammenti di prosa, appunti,
poesie, stralci di un diario e di un epistolario che sono ancora un
work in progress. Sono tempi vorticosi e travolgenti e Babel
ne è l’immagine fedele, un riflesso naturale e spontaneo con tutto
il disordine e il caos di un’alluvione di parole in cerca di un
casa, ancora indisciplinate, non assoggettate, nemmeno uniformi. Un
canovaccio che raccoglie l’energia e l’entusiasmo da cui poi
Patti Smith ha attinto proiettando la sua scrittura su forme più
organiche, limate e adeguate alle riflessioni della maturità ma che
in Babel erompe nella certezza che “il potere della bellezza
viene sottovalutato”. Nell’irruenza dei vent’anni, Patti Smith
mette in mostra con forza sogni e visioni ricorrenti, lo slang delle
strade di New York e quell’anelito disperato per l’espressione
artistica in ogni sua variante che l’ha sempre distinta. “Il
montaggio di esperienze” richiama gli eroi e i punti di riferimento
che resteranno inamovibili: Rimbaud, Genet, Brancusi, Bresson, Caruso
(“L’opera è verità e Caruso la regina”), Pasolini (“Vittima
dei fascisti e di marchettari e della purezza della sua arte”), per
affermare con convinzione che “siamo tutti figli di Jackson
Pollock”. Sono colonne portanti dell’ambizioso impianto di Babel
che si ritroveranno spesso più in là negli omaggi di Patti Smith
perché “noi viviamo per un periodo di tempo lunghissimo nella
nostra immaginazione”, e quella è la materia di cui ci nutriamo.
Lo stile, la forma in sé, risente da una parte di un convitato di
pietra che aleggia su ogni pagina, dove tagli e cuciture riportano a
William Burroughs, e dall’altra dalla sanguigna urgenza di Patti
Smith che lancia segnali inequivocabili: “Ho voglia di muovermi
subito, di innamorarmi”. L’anima e l’adrenalina di Babel
sono quell’irruenza che poi è sfumata con il suo ritiro dalle
scene, la grande bandiera americana che adornava il palco ripiegata
un’ultima volta, le chitarre riposte, una famiglia a cui dedicare
il futuro. Nell’immediato di Babel c’è il rock’n’roll
che “come la scultura, è il corpo solido di un sogno. E’
un’equazione di volontà e visione”. All’appello rispondono
l’onnipresente Dylan (e i suoi animali), il Patti Smith Group, Tom
Verlaine, i Blue Öyster Cult che riprenderanno Fire Of Unknown
Origin, Little Richard e Mick Jagger, o meglio tutto l’universo
irraggiungibile dei Rolling Stones con la rilettura di Sister
Morphine e la dedica a Marianne Faithfull, figura eminente tra
le donne di cui Patti Smith ha celebrato drammi e tributi. I ritratti
delle sue eroine, Georgia O’Keeffe, Edie Sedgwick, Giovanna D’Arco,
e poi Jenny e Judith, sono parti di un processo di identificazione
perché se è vero che “l’arte ha bisogno di luce”, è
altrettanto necessaria una voce femminile che, per logica estensione,
rimanda a lei. Aveva già capito che “l’artista preserva se
stesso. Mantiene la sua spavalderia. E’ intossicato dal rituale
così come dal risultato”. Intuizione giusta, applicazione
famelica.
martedì 26 dicembre 2017
Joni Mitchell
Una
sorta di autobiografia si snoda in tre fitte conversazioni con Malka
Marom, a sua volta cantante trasformata in giornalista, e amica di
Joni Mitchell. L’occasione è propizia per attraversare mezzo
secolo e, da un punto di vista ideale, sono due le canzoni che
delimitano Both Sides, Now perché “se il passato e il
presente sono intrecciati, le tue azioni recenti mettono in moto ciò
che sta accadendo ora. E’ una concatenazione di eventi lunga e
misteriosa”. La prima è la celebre Woodstock il cui
ritornello (“Siamo polvere di stelle, siamo d’oro, e dobbiamo
fare in modo di tornare nel giardino”) è la dimostrazione concreta
che “si può sempre riavere la propria innocenza se si provano
sessanta secondi di stupore e incanto”. Curiose, paradossali e
rivelatrici le circostanze in cui è nato il simbolo di un’epoca
così, come le ricorda la stessa Joni Mitchell: “Non so perché
Woodstock mi commuovesse tanto. Le prime due o tre volte che
l’ho eseguita in pubblico mi sono dovuta fermare, tanto ero presa
dall’emozione. Credo fosse perché a Woodstock non c’ero andata
ma l’avevo vista in televisione, e mi era sembrata una cosa
incredibile, il fatto che in quelle circostanze la gente si fosse
aiutata a vicenda”. Un punto di non ritorno si intravede in un
verso di Come In From The Cold (l’album è Night Ride
Home e siamo già nel 1991) che dice: “Volevo soltanto entrare
a ripararmi dal freddo”. Tra questi due estremi, in Both Sides,
Now c’è tutto il senso per l’arte di una donna che ha rubato
alla vita, lottando con una sensibilità che “è guardata quasi con
disgusto dalla società, mentre è una ricchezza, dà tante
gratificazioni. Ti permette di sentire cose che gli altri non
sentono, come i cani che sentono certi suoni acuti”. Una sfida
costante, continua, laboriosa, spesso dolorosa, sempre faticosa,
contro “la nostra modernità ignorante” in una delle sue
accezioni più banali, ovvero l’industria dell’intrattenimento.
La lotta per l’originalità è uno dei temi su cui Joni Mitchell si
sofferma spesso e volentieri, sapendo che “le cose grandi arrivano
quasi sempre sul ciglio di un errore. Quello che arriva dopo l’errore
è spettacolare. Perciò se ti fissi sugli errori ti perdi la magia”.
Il confronto con una carrellata di musicisti geniali e molto poco
politically correct, che va da Jaco Pastorius a Charles Mingus, da
Bob Dylan a Leonard Cohen, le rivela che “in questa società di
specialisti, il mio destino è quello di essere considerata una
dilettante”, ma forte delle letture di Kipling e Nietzsche, delle
visioni di Picasso e Van Gogh, o degli ascolti di Duke Ellington,
Charlie Parker e Lester Young, Joni Mitchell è riuscita a capire che
“se non possiamo fare a meno di guardare l’illusione, questa si
spezza. Sai sempre di star creando un’illusione, non importa quanto
ti sforzi di essere sincero”. Saperlo le è servito per costruire
un intero vocabolario emotivo che, proprio nelle canzoni, ha trovato
la sua espressione: “Uno dei miei interessi principali nella vita è
quello dei rapporti umani, delle interazioni e dello scambio di
emozioni, da persona a persona, fra individui, oppure su scala più
ampia, con un pubblico”. In questo caso specifico, che poi ha
occupato gran parte dei risultati del suo songwriting, la voce in
diretta di Joni Mitchell (“L’amore è un sentimento molto
difficile da tener vivo. E’ una pianta molto fragile, ecco. E’ un
sentimento particolare, perché soggetto a tanti cambiamenti. Il modo
in cui lo si prova all’inizio di una storia e tutti i cambiamenti
che subisce”) e quella nelle canzoni si alimentano a vicenda
(“L’amore richiede tanto coraggio, l’amore si prende tanti di
quegli accidenti” canta Face Lift) in un flusso inarrestabile che trova nelle parole di Both Sides, Now la sua definizione:
“Ormai ho visto la vita da entrambi i lati, vincere o perdere,
eppure, chissà come quel che ricordo sono illusioni, cos’è
davvero la vita non lo so”. Fin troppo sincera.
domenica 24 dicembre 2017
Terry Southern
Inseguendo
il gusto della sorpresa, dello scherno, dello sberleffo, Il grande
Guy incarna uno spirito dispettoso e tormentato, che si diverte a
irretire, provocare, stuzzicare e spargere zizzania, tutto in nome
del denaro, che deve sborsare per rimediare ai danni dei suoi
scherzi. Mecenate facoltoso e visionario, con interessi diversificati
e risorse economiche a quanto pare illimitate, Guy Grand è annoiato
e turbato da quello che è diventato e guardando i suoi colleghi di
tante scorrerie finanziarie, si vede come “un riflesso della loro
stessa pochezza: membro di club, personaggio da invitare a pranzo,
una minaccia, un uomo la cui società rappresentava una promessa e
insieme un pericolo”. A quel punto cominciano tutti gli scherzi che
costituiscono la trama e la spina dorsale del breve romanzo di Terry
Southern e che mettono alla prova molti luoghi comuni: proietta film
rallentati e al contrario, paga dei pugili per interpretare la boxe
in una chiave davvero inedita e se ne a caccia con un obice da
settantacinque millimetri, un’arma impropria perché il rinculo lo
sbalza a dieci metri “dove arrivava come uno straccio, ovviamente
privo di sensi”. Un colpo è sufficiente a mettere in fuga tutta la
selvaggina, e così finiscono anche i safari del grande Guy. Ogni
volta le rappresentazioni di quello che, in effetti, è un mondo al
contrario, generano stupore, imbarazzo, disorientamento, soprattutto
perché non sono chiari i motivi che spingono Il grande Guy a
dilapidare una fortuna in quel modo. Finché, di fronte all’ennesima
provocazione, qualcuno si chiede: “E se si trattasse di una sana
satira dei mass-media?”, domanda si adatta alla perfezione
anche per il romanzo in sé. Comunque sia, Il grande Guy
continua imperterrito e ogni volta alza il tiro, fino alla creazione
di una crociera su una nave di follie, una specie di sontuosa parodia
del Titanic, e alla generazione, nel capitolo conclusivo, di una
caricatura degli sconti commerciali che scatena orde di famelici
consumatori in cerca del negozio più conveniente, che nel frattempo
è sparito o si è trasferito dall’altra parte della città. E’
quello che lascia credere il perfido meccanismo studiato da Guy
Grand, almeno le folle ipnotizzate dai pressi impensabili “così
potevano concludere che non si era trattato di un sogno, non solo, ma
che il miracolo era ancora in corso”. La feroce ricostruzione di
una società votata ai consumi e all’avidità è sempre mitigata
dall’ironia e dalla una leggerezza, anche naïf,
volendo, di Terry Southern, sempre disposto a un tono
accondiscendente, colloquiale, poco spigoloso, umoristico, come è
nella tradizione di Mark Twain o del contemporaneo Richard Brautigan.
Terry Southern, in realtà, ha però una percezione critica e
caustica che filtra nelle battute e negli aneddoti di Guy Grand che
induce a una seria riflessione sulla concezione stessa del libero mercato,
che, proprio nella sua natura, è “capriccioso”. Un modo di dire
la verità, ovvero che è molto pericoloso, con una congrua dose di
senso dell’umorismo, non a caso, la cifra finale che definisce Il
grande Guy.
giovedì 21 dicembre 2017
Andre Dubus
Quando
Blind Boy Grunt alias Bob Dylan cantava The Death Of Emmett Till,
rileggeva un drammatico episodio dell’agosto 1955, avvenuto nel
Mississippi: di fatto un linciaggio rimasto senza colpevoli, che, con
il suo grave senso di ingiustizia, ha segnato uno spartiacque nella
discriminazione razziale. Uno dei versi di The Death Of Emmett
Till riassumeva così l’amarezza e il disorientamento di fronte
a quello spietato omicidio, e alla sua ambigua e tragica coda: “Se
non dite niente davanti a una cosa come questa, contro un crimine
così ingiusto, allora i vostri occhi sono pieni della terra dei
cadaveri e la testa l’avete piena di polvere”. Sono parole che
tornano spontanee quando, nelle discussioni dei protagonisti di Le
morti in mare (il primo racconto di Un’ultima inutile
serata), riappare il fantasma di Emmett Till. Gerry viene dal
bayou, è cattolico, con ascendenze francesi, mentre Willie è
afroamericano e arriva da Philadelphia. Insieme si trovano a
condividere una cabina sulla portaerei Ranger in qualità di
ufficiali della marina degli Stati Uniti. La fragile armonia che si
sviluppa tra loro viene messa a dura prova da un flusso continuo di
alcol, incidenti verbali, scontri fortuiti, finché Gerry non ammette
il disagio: “Ho l’impressione che di notte il mondo ci abbandoni.
Smettiamo di vederlo. Scompare e rimaniamo con quel poco che resta di
visibile; e senza quelle distrazioni che il giorno ci rivela, la
nostra vista non è solo limitata, ma si affina e si concentra su ciò
che per la maggior parte di noi è il mondo, noi stessi”. Non è
solo per la condizione notturna che Le morti in mare determina
la natura dei racconti che seguono. E’ come se i racconti si
incastrassero uno nell’altro, per via di alcuni temi ricorrenti,
dalla guerra del Vietnam (la portaerei Ranger, infatti, è
stata una delle principali navi impiegate in quel conflitto) che è
il substrato, con un sentore di sconfitta bruciante, di Vestito
come foglie d’estate alle contraddizioni del melting pot
americano che emergono di nuovo in Dopo la partita e, in
parte, in La terra dove sono morti i miei padri. E’ un
racconto dove prendono forma persino dei contorni noir, a sua volta
collegato a Le morti in mare perché entrambi sono imperniati
attorno a un omicidio, per quanto in gran parte accidentale. Senza
alcun timore, Andre Dubus prosegue come se non avesse paura del
dolore, non temesse l’ignoto e con Molly e Rose, due
racconti tra i suoi più belli e dolenti in assoluto, mostra, una
volta di più, una spiccata sensibilità per i ritratti femminili. Il
quadro dell’adolescenza di Molly, alla spasmodica ricerca di
quella sensazione “che si prova quando ci si sente amati”, si
scontra con l’avviso della madre, Claire: “Quando non sei amata,
è peggio che fare parte di una folla. E’ come se non avessi più
corpo. Diventi astratta: c’è solo la tua voce dentro di te che ti
parla, e ti senti come se non occupassi neppure lo spazio su cui
poggi i piedi, come se fossi senza peso. Sei in un punto sulla terra,
ma i tuoi piedi sono in aria”. Questo, a tutti gli effetti, è
l’avvio al passaggio successivo: Rose è un racconto
straziante, dove, con l’intercalare degli aneddoti nel corpo dei
marines, si sprofonda nella cupa (e violenta) dissoluzione di una
famiglia in cui la protagonista, (la stessa Rose), arriva al punto in
cui non può tornare indietro. Una condizione tipica, tra l’altro,
dei racconti di Raymond Carver, la cui stima per Andre Dubus è nota.
Il lettore è avvisato perché “se diamo tutto ciò che si può
dare”, come cantava ancora Bob Dylan in The Death Of Emmett
Till, è facile varcare la soglia dell’imprevedibilità e
scoprire che, in effetti, anche la realtà “è tutto un mistero”.
Con Andre Dubus succede perché è uno scrittore generoso, che rimane
nell’ombra e lascia avanzare i suoi personaggi, ma non di meno ne
condivide i drammatici destini, come se fosse lì, con loro, cercando
di capire dove può spuntare la luce in fondo a Un’ultima
inutile serata.
venerdì 15 dicembre 2017
Larry McMurtry
C’è
tutto il West in Lonesome Dove:
la leggenda e la realtà della terra promessa, le durissime
condizioni della vita sulla frontiera, il fascino di orizzonti
straordinari, la moltitudine di cowboy, fuorilegge, soldati,
giocatori d’azzardo e cacciatori di bisonti, comanche e kiowa,
messicani e irlandesi, coloni, puttane, sceriffi e altri disperati
che sanno di aver passato gli anni migliori “a combattere dalla
parte sbagliata”. Questo vale soprattutto per Call e Gus alias
Augustus, due ranger del Texas, veterani delle guerre indiane e degli
scontri con i banditi, che hanno avviato un ranch, proprio a Lonesome
Dove che è dove tutto ha inizio e
fine pur essendo un buco nella terra del border. E’ la partenza e
l’arrivo, perché quando si ripresenta Jake Spoon, un vecchio
compagno d’armi di Call e Gus, l’idea di trovare un posto nuovo
(e di appropriarsene), che in sé è uno dei miti fondanti
dell’America, diventa il suggerimento di trasferirsi nei territori
in gran parte inesplorati del Montana. Il viaggio principale, lungo
tutto l’asse del West e attraverso Texas, Kansas, Wyoming e
Nebraska, ha affluenti e diramazioni lungo tutto il suo percorso,
proprio come i fiumi che attraversa. Un guado sicuro non c’è mai e
la prima perdita avviene per i morsi di un branco di micidiali
mocassini acquatici. Ci sono serpenti ovunque (crotali, in genere),
ma sono un pericolo relativo per i cavalieri (“Se rallenti per un
serpente, tanto vale che cammini”). Altre intemperie sono ben più
dolorose: la sete e la fame nella siccità, il freddo e i fulmini nei
temporali, le asperità delle piste e tutti gli ostacoli naturali,
flora e fauna comprese, di un paesaggio mutevole, bellissimo e
crudele, che si stringe attorno alle vicende umane, nonostante gli
spazi infiniti. Gus e Call sono i primi a restare incastrati dal
bagaglio che si portano dietro. Sono uno l’opposto dell’altro:
Gus, che visto il nome ha qualcosa di imperiale, è logorroico,
scansafatiche, sicuro di sé, con una vista (e una mira) infallibile,
mentre Call è ossessionato dal lavoro, lunatico e ombroso. Si
compensano, perché sono entrambi combattenti formidabili con un’idea
sommaria della giustizia che coincide con la vendetta perché “se
ti metti con un fuorilegge, muori con lui”. Le esplosioni di
violenza sono repentine e lancinanti e determinano anche i furiosi
cambi di registro di Larry McMurtry. Succede quando incontrano
indiani non pacificati, o la feroce dei dei Suggs, o prima ancora
quando l’inafferrabile Blue Duck rapisce Lorena. Lei è solo la
prima di una mezza dozzina di personaggi femminili che determinano i
destini di chi è partito da Lonesome
Dove, con un riguardo particolare
dovuto Elmira, che pare insopportabile e forse è soltanto un po’
troppo indipendente, e a Clara, che è una meta segreta nel cuore di
Gus. La loro presenza contribuisce in modo determinante
all’equilibrio che distingue il tono di Larry McMurtry: Lonesome
Dove si snoda come un’infinita
ballata e a più di trent’anni dalla sua comparsa (risale al 1985)
rispecchia alla perfezione l’epigrafe di T. K. Whipple che lo
introduce: “Tutta l’America si trova in fondo a una strada
selvaggia, e il nostro passato non è morto ma vive ancora in noi. I
nostri avi avevano la civiltà dentro; fuori, la natura selvaggia.
Noi viviamo nella civiltà che loro hanno creato, ma in cuor nostro
quel mondo selvaggio perdura. Viviamo ciò che sognarono e ciò che
loro vissero, noi lo sogniamo”. Larry McMurtry, alla fine di tutte
le peregrinazioni, degli scontri a fuoco, delle esecuzioni e dei
duelli, delle fatiche di amori trovati, perduti o dimenticati, giunge
alla stessa conclusione perché dall’argilla del Rio Grande
all’erba florida del Montana “la terra è un grande ossario. Però
è bella, alla luce del sole”. Epico.
mercoledì 13 dicembre 2017
Charles Simic
La
nutrita selezione di poemi che compone Hotel
Insonnia rappresenta l’antologia
ideale per compiere un primo passo verso la conoscenza di Charles
Simic. Ci sono versi che vanno da Macelleria
del 1971 (“Qualche volta cammino a
notte fonda e mi fermo davanti a una macelleria chiusa. C’è solo
una luce nel negozio, la luce del forzato che scava il suo tunnel”)
al 1999 con Il topo nella radio
(“Dopo gli ultimi notiziari, prendi coraggio, per grattare un paio
di volte alla parete del tuo nascondiglio. Ora che le luci sono
spente, avverti il freddo, la desolata solitudine, e così porgi il
tuo quesito, o forse un saluto sentito? E resta la notte, senza
stelle, interminabile e in ogni caso senza traccia di pietà”)
nonché un’appendice di tre poesie (Gli
scritti dei mistici, Madonne
ritoccate con il pizzo e Nel
mezzo) risalenti alle sue prime
esperienze letterarie. La poesia di Charles Simic è una “spiegazione
parziale” fatta soprattutto di immagini: un Sasso,
le Angurie,
un Mozzicone di matita rossa,
una Forchetta,
un Muro,
dove “un incredibile mondo multiforme che accerchia da ogni lato”
viene riletto attraverso liriche brevi, schegge perfezionate con un
lavoro di intaglio certosino, che punta a sottolineare e a
evidenziare le sporgenze e le asperità e nello stesso tempo ad
armonizzarle. La frammentarietà (come scrive in San
Tommaso d’Aquino: “Ho lasciato
pezzi di me ovunque”) non impedisce a Charles Simic di avere una
visione completa di un mondo dove gli oggetti prendono vita, dove
“specchi & miracoli” sono, in effetti, gli strumenti per
capire, come scriveva ancora in La
vita delle immagini, che “tutti
noi siamo una sintesi di realtà e irrealtà. E tutti noi indossiamo
una maschera. Perfino dentro la nostra mente tentiamo di continuo di
nasconderci a noi stessi, solo per essere ripetutamente smascherati”.
Nel corso di Hotel Insonnia,
che non nasconde la sua precisa collocazione temporale nelle
intemperie della seconda metà del Novecento, Charles Simic si
concede spesso a volto scoperto. Succede in Scena
di strada (“Questo secolo strano,
con la sua strage degli innocenti, e il volo sulla luna, ora mi sta
aspettando, in una città strana, nella via in cui mi sono perso”)
e ancora di più in Leggere la storia
dove confessa: “A volte, quando leggo in biblioteca, intravedo i
condannati a morte dei secoli passati, e i loro carnefici. Me le vedo
davanti quelle pallide facce, come succede a un giudice che legga la
sentenza, e provo meraviglia al pensiero che ancora non esisto”. E’
proprio lì che convivono una dimensione intima, introspettiva,
persino onirica e una più scrupolosa, attenta e “politica”. Non
a caso Leggere la storia è dedicata
a Hans Magnus Enzesenberger, che potrebbe spiegare così quel
delicato equilibrio: “Ora, non si può certo far parte di tutto
ovunque, mi dico, stringo i denti e continuo a leggere”. E’ un
destino condiviso con Charles Simic che, nell’appendice di Hotel
Insonnia, svela le fonti primarie
della sua poesia: “Non esagero quando dico che non posso nemmeno
pisciare senza un libro in mano. Leggo per addormentarmi e per
svegliarmi. Ho sempre letto al lavoro, in tutti i lavori che ho
fatto, nascondendo il libro tra le carte sulla scrivania o nel
cassetto mezzo aperto. Anche nella mia bara aperta, un giorno,
reggerò un libro. Il libro tibetano
dei morti sarebbe molto appropriato,
ma preferirei un manuale sul sesso o le poesie di Emily Dickinson”.
Un’abitudine che non ha controindicazioni o effetti collaterali, se
non la crescita spontanea di una rara sensibilità.
martedì 5 dicembre 2017
Paul Hoover
Saigon,
Illinois è compresso tra due eventi
che sono rimasti scolpiti della memoria, in virtù del ruolo via via
predominante della televisione. Il clamore dell’offensiva del Tet,
con il drammatico assalto all’ambasciata americana, offre il
background iniziale, e l’arrivo sulla luna dell’Apollo 11, nel
luglio del 1969, non delimitano soltanto l’arco temporale in cui si
svolge il romanzo di Paul Hoover, ma sottolineano anche la drastica
metamorfosi di un intero immaginario che il protagonista di Saigon,
Illinois, Jim Holder spiega in modo
molto semplice: “Eravamo abituati a vedere Sid Caesar fare delle
smorfie a Imogene Coca o Charley Weaver leggere una lettera del
pubblico a casa, e ora non si poteva nemmeno guardare un notiziario
senza rimanere pietrificati sul divano”. Jim Holder fa riferimento
alla scena di un’esecuzione sommaria nelle strade di Saigon e
riporta alla memoria la storica fotografia di Eddie Adams (vinse il
premio Pulitzer per quel reportage) che ritraeva il comandante della
polizia sudvietnamita, il generale Nguyen Van Ngoc Loan, sparare a
sangue freddo a un sospetto vietcong. Dopo la guerra, Nguyen Van Ngoc
Loan andò a gestire una pizzeria nei sobborghi di Washington. La
bizzarra parabola sembra scritta da Paul Hoover che ha una
sensibilità tutta sua nel raccontare la scelta di Jim Holder che,
nell’estate del 1968, decide di negarsi alla leva, scegliendo il
servizio alternativo in un ospedale. Va notato che il punto di vista
disincantato di Jim Holder non riguarda soltanto l’aspetto
pacifista, ma anche le posizioni anticonformiste che emersero nel
corso di quegli anni. Nella sua prospettiva,“i veri
angeli della desolazione non erano
motociclisti fuorilegge e beatnik suburbani; erano comuni impiegati
di drogheria, meccanici, presidenti di banche e casalinghe che
credevano nell’inevitabilità, quindi nella bellezza della prima
alba nucleare. Erano le fenici che si alzavano dalle ceneri
dell’America delle piccole città e lo sapevano: era questo a
conferire loro una tale spaventosa fiducia nei propri odi
quotidiani”. L’ospedale dove andrà a lavorare Jim Holder, il
Metropolitan di Chicago, ne è la perfetta metafora istituzionale: la
sua burocrazia riflette la società della cosiddetta maggioranza
silenziosa che è andata in guerra, convinta della sua necessità. Il
tran tran è farraginoso: c’è sempre un supervisore che dispone e
controlla, ci sono ruoli, mansioni e organigrammi da aspettare o
sotterfugi e regole non scritte da assecondare nonostante la costante
emergenza in corsia. L’ospedale diventa il centro della vita di Jim
Holder, e non solo per le mansioni che è chiamato a svolgere: è
anche una sorta di labirinto emotivo dove incontra amore, pietà,
perfidia e (va da sé) dolore e morte. L’esperienza è drammatica,
anche se Paul Hoover ha un modo del tutto singolare di sottolineare
con l’ironia (e il sarcasmo, quando è necessario) i momenti più
tragici e gli episodi salienti che incidono sulla trama e
sull’andamento della storia. Jim Holder rimane incastrato quando,
nel corso di una manifestazione pacifista, si prende la sua razione
di manganellate e si ritrova ospite dello stesso ospedale dove deve
finire il dovere patriottico. A quel punto le sue opinioni, già
tollerate a fatica dall’amministrazione sanitaria, diventano
ingombranti, e viene licenziato. L’ufficio di leva, e da lì il
Vietnam, lo aspettano. Ormai alla fine, Jim Holder esprime senza
censure la sua disillusione, anche nei confronti di un evento tutto
sommato innocuo e neutro come l’allunaggio, che a dispetto
dell’entusiasmo generale, vede così: “Armstrong probabilmente
aveva anche lui delle battute e cose da fare scritte da qualche
pubblicitario della NASA, anche se la sua avventura era reale. Un
passo avanti per l’umanità, un cazzo”. Paul Hoover rende bene il
clima confuso dell’America a cavallo tra il 1968 e il 1969, della
frattura verticale tra le generazioni e dell’ambigua conduzione dei
conflitti e offre un punto di vista inedito rispetto all’enorme
massa bibliografica legata alla guerra del Vietnam. A Jim Holder non
resta che l’alternativa on the road che, nello scorcio finale,
appare come una conseguenza logica, diretta e spontanea, quasi ovvia,
ma solo perché la costruzione di Paul Hoover è molto fedele e
puntuale. Nonostante tutto, anche la fuga verso la California è
ammantata dallo stesso velo di amarezza che pervade l’intero
Saigon, Illinois.
Inevitabile perché riporta su un piano emotivo il fallimento di una
nazione intera, quella che Allen Ginsberg chiamava “la caduta
dell’America”. A quel punto, lo status di Jim Holder passa da
parziale obiettore di coscienza (e furono 3250 gli obiettori finirono
in carcere) a renitente, insieme ad altri 570.000 giovani americani.
Di questi molti fuggirono in Canada o in Europa, 209.517 vennero
processati e solo nel 1974 il presidente Gerald Ford promulgò gli
atti per una prima clemenza, poi completata dall’amnistia varata da
Jimmy Carter nel 1977. Toccante e utile, perché era una storia che
ancora doveva essere raccontata.
venerdì 1 dicembre 2017
Robert Palmer
La
storia di Deep Blues coincide con quella di Robert Palmer.
Figlio di un’era in cui raccontare un disco aveva una sua logica,
Robert Palmer applicava alla critica musicale lo stesso spirito di
ricerca che lo alimentava nella vita. Ruotava tutto attorno alla
musica: suonata (al clarinetto e al sassofono), raccontata, filmata.
A sua volta, Deep Blues è stato l’elemento che ha
condensato tutte le passioni di Robert Palmer tanto è vero che il
libro si è rivelato una porta aperta verso l’omonimo film e la
relativa colonna sonora. Al centro di Deep Blues, c’è il
Delta, il cuore del blues, il punto di partenza e di arrivo, estremi
che sono stati ripercorsi proprio sul campo. Una lunga traversata a
ritroso, nel tempo e tra due continenti: la povertà (ancora oggi),
la schiavitù, l’Africa. Non è soltanto un viaggio metaforico: tra
l’altro avendo accompagnato, con Brian Jones alla scoperta dei
Master of Jajouka, Robert Palmer ha conosciuto a fondo le radici
africane del blues ed essendo cosciente che si tratta di “una
forma letteraria e musicale” proiettata da “una fusione di musica
e poesia ottenuta a una temperatura emozionale altissima” si è
avvicinato, se non altro, a circoscriverne il DNA culturale. L’ha
fatto attraverso il contatto diretto con i protagonisti che, a
partire da Muddy Waters, hanno messo a disposizione la loro
testimonianza vitale per guidare Robert Palmer in “un enorme campo
di sentimenti”. Il suo lavoro, in Deep
Blues,
si rivela un ibrido altrettanto denso: le storie orali raccolte on
the road sono corroborate da un’attentissima dissertazione sulle
condizioni sociali e politiche in cui il blues ha preso forma perché
la sua originalità “non è questione di sedersi a
creare dal nulla le canzoni. Anzi un blues singer con un pezzo fatto
interamente o quasi di frasi, versi e strofe rubati rivendicherà
ugualmente come sua la canzone, e avrebbe ragione. Da un punto di
vista lirico, l’arte di scrivere canzoni blues equivale al
combinare frasi, versi e strofe che hanno un’eco emozionale
compatibile formando un insieme che rifletta le esperienze, i
sentimenti e gli umori del cantante e quelli degli ascoltatori. E più
spesso che no il risultato è assolutamente originale”. La vera
scoperta di Robert Palmer è quella che non dichiara, almeno non in
modo esplicito, ed è stata nell’aver colto la contemporaneità
della dimensione collettiva e universale del blues con l’espressione
individuale, quest’ultima riassunta così: “Ogni artista blues
attinge a un coacervo di queste fonti e all’infuenza di altri
artisti blues, e tira fuori qualcosa che è tipicamente suo. L’unico
modo per definire il blues con una certa precisione sarebbe
considerare il repertorio di ogni artista blues”. Il suo è stato
qualcosa di più di un tentativo di descrivere qualcosa
di illimitato. Affascinato dalle atmosfere del Delta, trascinato nei
misteri lungo i crossroads (e la sua interpretazione sui presunti
patti mefistofelici merita di essere assunta a standard per tutte le
analisi prossime venture), coinvolto al punto di rendersi conto che
“il blues più deep chiede ai suoi ascoltatori di affrontare
le proprie gioie, dolori, brame e, soprattutto, la propria
mortalità”, Robert Palmer non tornò più a casa, lasciandoci Deep
Blues quasi come un testamento spirituale.