Una
sorta di autobiografia si snoda in tre fitte conversazioni con Malka
Marom, a sua volta cantante trasformata in giornalista, e amica di
Joni Mitchell. L’occasione è propizia per attraversare mezzo
secolo e, da un punto di vista ideale, sono due le canzoni che
delimitano Both Sides, Now perché “se il passato e il
presente sono intrecciati, le tue azioni recenti mettono in moto ciò
che sta accadendo ora. E’ una concatenazione di eventi lunga e
misteriosa”. La prima è la celebre Woodstock il cui
ritornello (“Siamo polvere di stelle, siamo d’oro, e dobbiamo
fare in modo di tornare nel giardino”) è la dimostrazione concreta
che “si può sempre riavere la propria innocenza se si provano
sessanta secondi di stupore e incanto”. Curiose, paradossali e
rivelatrici le circostanze in cui è nato il simbolo di un’epoca
così, come le ricorda la stessa Joni Mitchell: “Non so perché
Woodstock mi commuovesse tanto. Le prime due o tre volte che
l’ho eseguita in pubblico mi sono dovuta fermare, tanto ero presa
dall’emozione. Credo fosse perché a Woodstock non c’ero andata
ma l’avevo vista in televisione, e mi era sembrata una cosa
incredibile, il fatto che in quelle circostanze la gente si fosse
aiutata a vicenda”. Un punto di non ritorno si intravede in un
verso di Come In From The Cold (l’album è Night Ride
Home e siamo già nel 1991) che dice: “Volevo soltanto entrare
a ripararmi dal freddo”. Tra questi due estremi, in Both Sides,
Now c’è tutto il senso per l’arte di una donna che ha rubato
alla vita, lottando con una sensibilità che “è guardata quasi con
disgusto dalla società, mentre è una ricchezza, dà tante
gratificazioni. Ti permette di sentire cose che gli altri non
sentono, come i cani che sentono certi suoni acuti”. Una sfida
costante, continua, laboriosa, spesso dolorosa, sempre faticosa,
contro “la nostra modernità ignorante” in una delle sue
accezioni più banali, ovvero l’industria dell’intrattenimento.
La lotta per l’originalità è uno dei temi su cui Joni Mitchell si
sofferma spesso e volentieri, sapendo che “le cose grandi arrivano
quasi sempre sul ciglio di un errore. Quello che arriva dopo l’errore
è spettacolare. Perciò se ti fissi sugli errori ti perdi la magia”.
Il confronto con una carrellata di musicisti geniali e molto poco
politically correct, che va da Jaco Pastorius a Charles Mingus, da
Bob Dylan a Leonard Cohen, le rivela che “in questa società di
specialisti, il mio destino è quello di essere considerata una
dilettante”, ma forte delle letture di Kipling e Nietzsche, delle
visioni di Picasso e Van Gogh, o degli ascolti di Duke Ellington,
Charlie Parker e Lester Young, Joni Mitchell è riuscita a capire che
“se non possiamo fare a meno di guardare l’illusione, questa si
spezza. Sai sempre di star creando un’illusione, non importa quanto
ti sforzi di essere sincero”. Saperlo le è servito per costruire
un intero vocabolario emotivo che, proprio nelle canzoni, ha trovato
la sua espressione: “Uno dei miei interessi principali nella vita è
quello dei rapporti umani, delle interazioni e dello scambio di
emozioni, da persona a persona, fra individui, oppure su scala più
ampia, con un pubblico”. In questo caso specifico, che poi ha
occupato gran parte dei risultati del suo songwriting, la voce in
diretta di Joni Mitchell (“L’amore è un sentimento molto
difficile da tener vivo. E’ una pianta molto fragile, ecco. E’ un
sentimento particolare, perché soggetto a tanti cambiamenti. Il modo
in cui lo si prova all’inizio di una storia e tutti i cambiamenti
che subisce”) e quella nelle canzoni si alimentano a vicenda
(“L’amore richiede tanto coraggio, l’amore si prende tanti di
quegli accidenti” canta Face Lift) in un flusso inarrestabile che trova nelle parole di Both Sides, Now la sua definizione:
“Ormai ho visto la vita da entrambi i lati, vincere o perdere,
eppure, chissà come quel che ricordo sono illusioni, cos’è
davvero la vita non lo so”. Fin troppo sincera.
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