Harmonium
è uno snodo fondamentale della poesia di Wallace Stevens, una
raccolta che ripercorre e ricompone in un’unica, voluminosa
panoramica gran parte della sua poesia, e della sua idea di poesia
che, come scriveva in Trasporto della
vita, nasce dalla consapevolezza
“che viviamo in un luogo non nostro, e che non siamo noi”. Un
modo sfuggente per introdurre l’identificazione totale con la
poesia come mondo, non una variazione o una creazione
dell’immaginazione, ma proprio come un altro mondo, “come icona”,
che sta per immagine, visione, una dimensione che apre un varco dove
“l’assurdo della vita ci balena in strani vincoli”. Il dilemma
tra le porte spalancate dalla “finzione suprema” e “il senso
ordinario delle cose” è il cuore pulsante, che divide e unisce,
che intreccia e scioglie ciò che è sufficiente, e ciò che non lo
è. L’appello di Wallace Stevens è sempre mascherato dato che,
come scriveva in Uomo che porta un
oggetto, “la poesia deve resistere
all’intelligenza quasi con successo”, ma almeno in un caso
diventa esplicito. Succede con Sfumature
di un tema Williams: “Non
partecipare ad alcuna umanità che ti soffonda della propria luce.
Non essere chimera del mattino, mezzo uomo, mezza stella”. Sono le
“metafore di un magnifico”, come avverte il titolo di un altro
componimento, e diffondono i segnali verso l’ignoto, l’invisibile,
l’infinito. Una direzione che Wallace Stevens ribadisce in Dicendo
addio, addio, addio (“”In un
mondo senza un paradiso a seguire, le soste sarebbero conclusioni,
più commosse di addii, più profonde, e ciò sarebbe dire addio,
ripetere addio, solo essere lì e solo guardare), in Il
sublime americano (“Ci si abitua
al tempo, al passaggio e al resto; se il sublime si riduce allo
spirito stesso, spirito e spazio, lo spirito vuoto, nello spazio
vacuo. Che vino si beve? Che pane si mangia?”) e, a maggior
ragione, con Té al palazzo di Hoon
dove afferma: “Ero il mondo in cui camminavo, e quel che vedevo
udivo o sentivo veniva da me solo; qui mi ritrovavo più vero, più
strano”. La stranezza, l’eccentricità e l’originalità sono
avvinghiate in cerca di un senso e Harmonium
è la più solida dimostrazione di come “una poesia non è
necessario che abbia un significato, e come la maggior parte delle
cose in natura, spesso non ne ha”. E’ l’essenza in sé dei
fenomeni di Wallace Stevens che, come “l’ascoltatore” in L’uomo
di neve, “che ascolta nella neve e
nulla in sé, vede nulla che non sia lì, e il nulla che è”,
osserva sospeso tra prima e dopo, tra apparente e invisibile e tra
creazione e costruzione. Il contrasto, paradossale a prima vista,
riappare anche in Fosforo legge alla
sua stessa luce (“Guarda,
realista, senza sapere cosa ti aspetti”) e ancora in Veleggiando
dopo pranzo: (“Non è affatto quel
che si vede”). Nel celebrare e identificare la poesia di Wallace
Stevens, Harmonium
è fatto di vette e abissi che lo stesso poeta ha voluto spiegare
così: “Non solo i bambini vivono in un mondo d’immaginazione.
Tutti lo facciamo. ma dopo avervi vissuto nella misura che vi vive un
poeta, il desiderio di tornare al mondo quotidiano diviene tanto
acuto che ci strappa dal mondo immaginativo nel modo più deciso. Un
altro modo di dire questo è che dopo aver scritto una poesia è bene
fare un giro dell’isolato, dopo troppa mezzanotte è piacevole
udire il lattaio, ed è qui il senso della poesia, il mondo
immaginativo è dopo tutto il solo mondo reale”. Convincente.
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