A
ben guardare, la forma delle utopie è ricorrente nel richiamare
l’attenzione alle necessità collettive. Istruzione, lavoro,
bisogni primari di sussistenza e di convivenza civile, sono le
urgenze che ne delimitano la prospettiva ed è proprio quella
l’identificazione preliminare di Lewis Mumford: “Quasi tutte le
utopie criticano implicitamente la civiltà in cui nascono, e sono
allo stesso tempo un tentativo di scoprire le possibilità che le
istituzioni esistenti o ignorano o seppelliscono sotto la crosta
delle vecchie usanze e abitudini”. Nel ricostruire la Storia
dell’utopia, Lewis Mumford
premette di tenere conto “in ogni schema, delle ribellioni, delle
opposizioni, dei conflitti, del male e della corruzione, poiché sono
presenti nella storia di tutte le società”. E’ nell’etimologia
stessa della parola, che va cercata tra i vocaboli greci “eutopia
“(il buon posto) e “outopia” (nessun posto), dove l’utopia si
colloca in una terra di nessuno di trasformazioni e di cambiamenti.
Nell’introdurre uno studio altrettanto approfondito, Il
desiderio chiamato utopia, Fredric
Jameson scriveva: “La forma utopica è di per sé una significativa
riflessione sulla differenza, sull’alterità radicale e sulla
natura sistemica della totalità sociale. Nonè possibile immaginare
un qualsiasi cambiamento fondamentale della nostra società che non
sia dapprima annunciato liberando visioni utopiche come tante
scintille dalla coda di una cometa”. La percezione resta infinita e
indefinita e il paragone astronomico non è una coincidenza, visto
che ricorre anche con Lewis Mumford quando dice: “Noi dormiamo
sotto la luce di stelle che da molto tempo hanno smesso di esistere,
e prendiamo come modelli di comportamento delle idee che non sono più
reali nel momento stesso in cui smettiamo di credervi”. All’elenco
dei bagliori collezionati dalla Storia
dell’utopia non sfuggono le tesi
di Tommaso Moro, La città di Dio di
Sant’Agostino e La
città del sole di Tommaso
Campanella, Campi, fabbriche e
officine di Pëtr Kropotkin, e la
Nuova Atlantide di Francesco
Bacone, e tutte le ipotesi, dal villaggio alla nazione,
dall’economira rurale nelle vallate alla rivoluzione industriale
nelle città, da “erewhon” a “nowhere”, da Freeland a
Coketown, “il mondo delle idee”, diventa “un organico insieme
di parti suscettibile di migliore organizzazione, di cui è
importante mantenere l’equilibrio, come in ogni organismo vivente,
al fine di favorire la crescita e il progresso”. L’utopia non è
un paradiso minore, neanche quando riguarda la “fuga”o la
“ricostruzione” e l’inventario (e la cernita) di Lewis Mumford
non è un elenco di luoghi impossibili e fantastici, ma la
constatazione che “quando vi è una frattura tra il mondo reale e
il mondo superiore dell’utopia, noi ci rendiamo conto della parte
che la tendenza all’utopia
ha giocato nella nostra vita, e vediamo la nostra utopia come una
realtà diversa”. La panoramica compresa nella Storia
dell’utopia si conclude con un
proposito molto intonato perché se “appare chiaro che in un mondo
così pieno di frustrazioni come quello reale, siamo costretti a
svolgere una gran parte della nostra vita intellettuale nella sfera
dell’utopia”, il cui destino ultimo è comunque rendere più
“tollerabile” quel mondo, è altrettanto evidente che “il
compito più importante che ci aspetta in questo momento è di
costruire castelli in aria”. Sposta il baricentro dall’utopia
come necessità, come “mito sociale”, a momento ineluttabile del
pensiero, a riprova e a conferma che l’unica utopia possibile è
l’utopia delle idee.
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