L’Anatomia
dell’influenza è il compendio generale dell’attività
critica di Harold Bloom (un cognome che già evoca un enigma
letterario), un concentrato in cui non è difficile trovare le
connessioni primarie e le intersezioni con Il canone americano
e Il canone occidentale, ma anche con tutte le altre
speculazioni. Spesso autoreferente o eccessivo nell’interpretazione
della letteratura, altre volte Harold Bloom sa essere chiaro e
preciso, grazie alla lunga esperienza parallela di insegnante e
Anatomia dell’influenza è una sorgente inesauribile di
suggestioni e suggerimenti a partire dall’epigrafe cucita su misura
di Lev Tolstoj: “Per la critica d’arte sono necessari
uomini che dimostrino come è assurdo cercare le idee in un’opera
d’arte, uomini che guidino continuamente i lettori nell’infinito
labirinto di concatenazioni nel quale consiste l’essenza dell’arte,
e verso quelle leggi che servono di base a queste concatenazioni”.
In realtà l’influenza si propaga come se fosse un flusso di onde
gravitazionali in una galassia che vede al centro Shakespeare, l’alfa
e l’omega di tutti i pensieri di Harold Bloom: “Leggere
Shakespeare equivale a subire una dilatazione più marcata della
coscienza verso quella che all’inizio sembra una stranezza fatta di
dolore o stupore. Mentre ci apprestiamo a incontrare una coscienza
più grande, ci prepariamo a una sottomissione provvisoria che mette
da parte il giudizio morale, mentre lo stupore si tramuta in una
comprensione più immaginativa”. A maggior ragione, Shakespeare (e
l’autore, in generale, per estensione) è “il creatore di una
nuova realtà in cui, in maniera non del tutto consapevole, ci
ritroviamo più autentici e più strani”. Un’opinione confermata
più in là da Samuel Johnson (“Colui che legge Shakespeare si
guarda intorno allarmato e scopre di essere solo”), uno dei punti
di riferimento inamovibili perché Anatomia dell’influenza
non è soltanto un libro di Harold Bloom: coagula attorno a sé
critici e scrittori vicini e lontani, con cui è in accordo e in
disaccordo. Più di tutti proprio Samuel Johnson, poi, tra gli altri,
Walter Pater, Thomas Hobbes, Thomas Carlyle, Jonathan Swift, Favola
nella botte, William Morris, Sigurd Il Volsungo, Percy Bysshe
Shelley, James Merrill e W. B. Yeats. Quando eccede nelle definizioni
o nelle analisi, Harold Bloom sa essere complicato, se non proprio
astruso, altrimenti emana passione, competenza, conoscenza e sa
convincerci che “l’amore letterario è una strategia sociale, più
affermazione che affetto, ma i critici e i lettori competenti sanno
che non siamo in grado di comprendere la letteratura, la grande
letteratura, se neghiamo un autentico amore letterario agli scrittori
o ai lettori. La letteratura sublime richiede un investimento
emotivo, non economico”. Le letture suggerite ed esplorate da
Harold Bloom, oltre all’Amleto di Shakespeare,
(fondamentale, perché “la vita umana è più semplice del
pensiero, ma l’esistenza è anche pensiero quando adottiamo la
visione di Shakespeare”) sono Freud, Whitman, (“maestro della
metafora” ed espressione “poetica del sublime americano”),
Stevens, Crane, Borges, Leopardi, Joyce, Kafka, Aldous Huxley. I
rimandi e i consigli sono sterminati: dalla sintesi delle tematiche
della letteratura americana che si concentrano verso “il mare, la
madre, la notte, la morte” alla sua estensione verso tutta la
narrativa anglosassone (“Se si interiorizzano i maggiori poeti
britannici e americani, dopo qualche anno le loro complesse relazioni
reciproche iniziano a formare schemi enigmatici”) fino ad
“affrontare solo gli scrittori in grado di infondervi la sensazione
che ci sia qualcos’altro sul punto di accadere”, Harold Bloom è
prodigo di istruzioni per l’uso, che poi si condensano nella catena
di infiniti “leggere, rileggere, descrivere, valutare, apprezzare”.
A quel punto, e con la pratica letteraria ormai sovrapposta alla vita
quotidiana, diventerà comprensibile la frequente citazione di Pseudo
Longino: “Pieni di gioia e orgoglio crediamo di aver creato ciò
che abbiamo sentito”. Funziona proprio così.
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