Secondo Harold Bloom,
Wallace Stevens è, sì, “un poeta canonico, forse il maggior poeta
americano dopo Walt Whitman ed Emily Dickinson”, ma anche di fronte
a questa monumentale collezione, rimane il sospetto che la sua
collocazione rimanga sempre un po' indefinita. Dipenderà dal fatto
che, pur riconoscendo la sua severità formale, come diceva ancora
Harold Bloom, Wallace Stevens è stato “socialmente reazionario”,
considerazione priva di connotati politici e dovuta al carattere di
“eremita della poesia”. La condizione di solitudine, annodata al
libero esercizio della lettura e della scrittura, conduce in “parti
di un mondo” fatto di “parole precarie e suoni ostinati”.
Qualsiasi particolare può essere avviato alla trasformazione in
versi perché “la descrizione è un elemento come l’aria o
l’acqua” ed è soltanto lo stadio iniziale per cui la poesia,
almeno nelle mani di Wallace Stevens, diventa “una risposta alla
necessità quotidiana di capire il mondo”. Più che del poeta,
Wallace Stevens ha quel “senso del prestigiatore”, capace di far
apparire e poi evaporare tra i versi “montagne coperte di gatti”,
“le scogliere irlandesi a Moher” e “un vecchio filosofo a
Roma”, “pietre grigie e piccioni grigi”, “l'uomo con la
chitarra blu” e “una donna d'oro in uno specchio d'argento”, le
“campane d'inverno” e “le aurore d'autunno”. Da profondo
“conoscitore del caos”, Wallace Stevens sa attribuire a ogni
stagione la perfezione di cadenze e luci appropriate, ma è nel
“trasporto dell'estate” che trova il suo apogeo, non tanto per
ragioni climatiche, quanto perché “la mente depone il suo
disagio” ed è in quel momento che “la notte estiva è come una
perfezione del pensiero”. L'enormità della raccolta sfoggia una
volta di più la ricchezza della “materia poetica” di Wallace
Stevens in tutta la varietà delle osservazioni e delle meditazioni,
degli studi e degli inni, degli adagi e degli epigrammi. Un fiume che
scorre trionfale, trascinando nella corrente credenze, finzioni,
cronache e apparenze, ma che all'osservatore scrupoloso non riuscirà
a nascondere le sue proprietà naturali. Notava infatti Seamus
Heaney: “La combinazione in Stevens di esibizione sgargiante e una
consapevolezza di fondo del senso ordinario delle cose ha una
durezza intellettuale al suo centro, un atteggiamento che non viene a
patti con nessun tipo di illusione o collusione”. Una valutazione
importante perché Wallace Stevens ricorda con una certa frequenza,
con toni e metafore differenti che a determinare il corso e l'ordine
della vita sul pianeta della sua poesia non sono idee della cosa, “ma
la cosa in sé”. E' lo stesso motivo per cui Ronald Sukenick, uno
dei primi scrittori ad affrontare in modo sistematico la poesia di
Wallace Stevens, la consideri come il frutto di un'incessante ricerca
di “uno stato mentale”. La destinazione pare inevitabile poiché
“viviamo nella mente”, solo che rimane da attraversare la
distanza dalla realtà, che “è solo la base. Ma è la base”. Il
genio di Wallace Stevens è proprio nella libertà dell'astrazione,
che attinge a quell'unica, prosaica sorgente e si eleva “celeste e
terrestre” nello stesso tempo. L'alfa e l'omega, e tutto quello che
c'è nel mezzo. Indispensabile.
martedì 30 maggio 2017
lunedì 29 maggio 2017
Charles Simic
La selezione dei
materiali racconti in La vita delle immagini non segue un ordine
preciso, anche se l'acuta percezione di Charles Simic è un collante
più che sufficiente a permettergli di notare come “per un attimo,
tutto si riconcilia: la poesia, la filosofia, la storia. Vedo (nel
senso che riesco a immaginare e a sentire) il peso umano della
solitudine di un altro. Tanti esseri umani seduti con un libro. Si fa
giorno. Il pensiero diventa immagine. L’immagine diventa pensiero”.
In effetti, parte proprio da se stesso: lettore vorace e onnivoro,
ascoltatore appassionato, buongustaio curioso, colto e cosmopolita,
Charles Simic assembla La vita delle immagini partendo da una
prospettiva singolare, che poi è una sorta di autoritratto: “Il
mondo cerca sempre di premiare il conformismo. Ogni epoca ha la sua
linea ufficiale riguardo a ciò che è reale, ciò che è bene e ciò
che è male. L’ideale è un bel piatto di disonestà, ignoranza e
viltà servito tutte le sere dal telegiornale con modi compassati e
un’aria di superiore integrità. E ci si aspetta che anche la
letteratura si ispiri a quel modello. La tribù cerca sempre di
rieducarci e di insegnarci le buone maniere. Il poeta è il ragazzino
che, in piedi nell’angolo, dando le spalle al resto della classe,
si sente in paradiso”. Eccolo lì, dove si sceglie una bella
compagnia a cui dedicare le sue attenzioni: Buster Keaton, Marina
Cvetaeva, Emily Dickinson, William Carlos Williams, John Cage, Walt
Whitman, Witold Gombrowicz, Emil Cioran, Franz Kafka e Wallace
Stevens vengono citati, raccontati e spiegati in quel perimetro dove
“l’immaginazione di tutti gli artisti è uno specchio in cui
guardare la realtà, interna ed esterna, ma il modo in cui le due
realtà finiranno per mescolarsi nel riflesso, colui che regge lo
specchio potrebbe non sospettarlo neppure. Perché i demoni dentro di
noi sono tutti poeti, e tali, per fortuna, sono anche gli angeli”.
Se Charles Simic ha una visione unica della poesia dipende proprio da
quella constatazione: “Non fa assolutamente differenza se dèi e
demoni esistono oppure no. L’aspirazione segreta di ogni vera
poesia è quella di porre domande su di loro anche nel momento in cui
non se ne riconosce l’assenza”, o detto altrimenti, il suo scopo “è
trovare, mediante la lingua, dei modi per indicare ciò che non può
essere messo in parole”. Il tentativo è elogiato da Charles Simic
in tutte le sue declinazioni, dalla fotografia al cinema, visto che
“l’arte è lo strumento più profondo mai conseguito dall’uomo;
senza di essa non potremmo spere che cosa pensi o provi realmente una
persona. Contrariamente al filosofo, al moralista, al prete,
l’artista è impegnato in un gioco senza fine, che ha diritto di
esistere soltanto nella misura in cui sa aprirci gli occhi alla
realtà, una realtà nuova, a volte scandalosa, che l’arte rende
palpabile”. Straniero e (ormai) americano, il suo punto di vista e
la sua collocazione rimangono scomode e privilegiate nello stesso
tempo: la (magica) ricostruzione dell'infanzia a Belgrado e poi le
polemiche affrontate nel corso delle guerre dei Balcani sul finire
del ventesimo secolo portano il poeta a rivelarsi con ancora più
forza e non tanto perché “ci sono momenti della vita in cui
l’invettiva è sacrosanta, in cui sentiamo l’assoluta necessità,
motivata da un profondo senso della giustizia, di denunciare
pubblicamente, irridere, vituperare, inveire, recriminare con le
parole più forti possibili”. E' proprio per la scelta di
privilegiare La forza dell'ambiguità e Il potere dell'invenzione che Cibo e felicità possono convivere in un Paradiso spaventoso,
circondati dal blues e dall'architettura di New York, dalla poesia
come “arte della memoria” e dalla filosofia come “un tornare a
casa”. Lì si riparte dalla fotografia iniziale, che è anche
quella definitiva perché “ci sarà sempre qualche lettore
solitario per il quale un libro di un altro luogo e di un altro tempo
miracolosamente prende vita”, ed è questa, infine, la trionfale celebrazione di un mondo
notturno, silenzioso e meraviglioso.
giovedì 25 maggio 2017
Richard Ford
“Gli affetti familiari
si indossano solo in particolari occasioni” diceva Karl Kraus e
questa è una di quelle. Nell’indagare il legame con padre e madre
Richard Ford s’imbatte, inevitabilmente, nelle circostanze del
matrimonio dei genitori. Un’ambivalenza esplicita fin dal titolo: è
proprio Richard Ford che sta in mezzo, ma nello stesso tempo è
quello che unisce Tra loro Parker ed Edna a determinare la
prospettiva del racconto. Doppio anche nella sua intima costruzione,
visto che le due parti (Lontano. Ricordando mio padre e Mia madre, in
memoriam) sono state scritte a distanza di trenta’anni, Tra loro
premia lo sforzo autobiografico di Richard Ford che, figlio unico e
tardivo, si trova oggi a fronteggiare “la spietatezza del tempo che
passa”. L’adattamento dei ricordi, che non è nemmeno sfiorato
dalla nostalgia ed è molto accurato, as usual, parte da un periodo e
un luogo, nel sud degli Stati Uniti a cavallo tra la prima e la
seconda metà del ventesimo secolo, in cui “tutto era accettabile,
ma niente lo era del tutto”. Nel ritrarre il padre, Richard Ford
ricostruisce una parte essenziale del cosiddetto “sogno americano”:
Parker è un commesso viaggiatore, incallito fumatore, bevitore, gran
lavoratore, intraprendente e fiducioso, convinto che la buona
volontà, la perseveranza e il lavoro quotidiano possano garantire il
futuro, in ogni caso. Il tran tran di “una vita di piccoli fatti”,
una casa comprata, un’auto nuova, un prestito, perché “nessuno
aveva grandi esigenze” e comunque “non c’era nessuna
disponibilità”, garantisce a Richard Ford un’infanzia condita da
una felicità non fantasmagorica, ma solida, in cui matura l’embrione
di una latente insoddisfazione che lo porta a considerare come “l’incompleta conoscenza delle vite dei nostri genitori non è
una condizione delle loro vite. E’ una condizione soltanto delle
nostre. Caso mai, ti obbliga a renderti conto che la sai meno lunga
su tutto quanto c’è di rispettabile, perché i bambini restringono
il campo di tutto ciò di cui fanno parte. Mentre essere ignaro o
solo capace di fare congetture sulla vita di un’altra persona fa sì
che quella vita sia libera di essere qualcosa di più di ciò che era
veramente”. Il nocciolo e il cuore di Tra loro sono proprio questi:
“la gente viene e va”, anche nelle consuetudini familiari, e la
“dimestichezza” nel e con il ruolo dei genitori va dimenticata.
Nella seconda metà, il tono si fa ancora più etereo perché rimasti
soli, Richard Ford e la madre si avviano a vite autonome, separate da
distanze non relative, e nella parte conclusiva Tra loro è il
tentativo di conferire “una forma e un’economia che diano una
coerenza fedele, attendibile, seppure a volte drastica, alle tante
cose ineguali che ogni vita contiene”. Il limite congenito di Tra
loro è nella concentrazione della storia: l’assemblaggio dei
frammenti, non privo di ripetizioni (ammesse fin dall’introduzione),
con qualche insistenza, porta il memoir a livelli confessionali,
anche se, per fortuna, Richard Ford è uno storyteller superiore (su
questo non c’è dubbio) per cui riesce a contenere le sue
pensierose analisi in un contesto stilistico sempre attraente e
convincente. L’efficacia del racconto (preso per quello che è) non
è in discussione: la narrazione procede senza particolari scosse e,
se non altro, le figure della madre e del padre non diventano
personaggi di Richard Ford, piuttosto i testimoni e le prove che
“dopo tutto, più vediamo pienamente i nostri genitori, più li
vediamo come li vede il mondo, maggiori sono le nostre possibilità
di vedere il mondo com’è”. L’assioma non è irresistibile e,
nonostante gli ammirevoli tentativi, quello che succede Tra loro
resta un bel punto di domanda.
lunedì 22 maggio 2017
James Ellroy
Uno strano ladro si
aggira sulle colline di Hollywood. Entra nelle ville lasciando
pochissime tracce, fruga tra la biancheria intima, non ruba niente (o
quasi). Un po’ esibizionista, un po’ voyeur, in questo non molto
diverso da gran parte della città, abusa delle sue vittime dopo
averle stordite con dardi avvelenati. Il caso sembra confezionato
apposta per Rick Jenson perché lo riporta indietro nel tempo, nel
1965, quando dovette affrontare il cadavere di Stephanie Gorman.
Inevitabile il ricorso all’adorabile attrice, amica e amante, Donna
Donahue che, interpellata a proposito dello Scasso con stupro,
risponde: “Mi annoio e ci penso. La settimana scorsa il mio agente
mi ha spedito un soggetto. Dovrei fare una poliziotta che fuori
servizio è un serial killer. Uccido le mogli dei miei ex, e godo a
mutilarne i corpi. Come fai a rispondere che non puoi accettare la
parte perché hai ammazzato tre tizi nel 1983, e che certe cose ti
terrorizzano e certe cose non ti lasciano più?”. La domanda è
retorica, anche perché nel frattempo Donna è tormentata dalla
corrispondenza epistolare (a senso unico, va da sé) di un fan che ha
ormai svoltato con decisione nella direzione del maniaco. La
“congiuntura di concomitanze”, come la chiama James Ellroy,
proietta Rick Jenson e Donna Donahue in un inferno di ambiguità,
dove Hollywood, ovvero il cinema, e l’instabile natura di Los
Angeles si alimentano a vicenda. Troveranno un’attrice, Megan More,
con un corpo che è diventato “opera d’arte certificata da chissà
quale chirurgo”, poliziotti corrotti e confusi da “essenze di
sesso come metanfetamina dritta in vena”, un sottobosco affollato
da “parassiti del porno”, tutto un mondo di ammiccamenti,
illazioni, segreti, sotterfugi, bugie e rivelazioni in cui “la
paranoia penetrò in profondità”. E’ soltanto lì che si può
aggirare e si può scovare qualcuno affamato di feticci, di
illusioni, di sensazioni effimere e morbose. Tra “culmini,
coincidenze, collegamenti”, che distingueranno una lunga e
immancabile scia di sangue, Rick Jenson sa fin dall’inizio che
“avrebbe veleggiato verso la vendetta”. L’atmosfera torbida è
resa palpabile da James Ellroy attraverso la deformazione degli eventi
“legati al linguaggio che piroetta da queste pagine”. Le
contorsioni stilistiche riflettono il dedalo di strade e di cul de sac
che formano Los Angeles, la sua indefinita natura di città, e di
“metropoli centrifuga”, come l’ha definita Jean Baudrillard in
America, si propagano nel frammentario turbinio di James Ellroy, nelle
sue frasi spezzate e sincopate, nei vocaboli rosicchiati e storpiati,
non di rado negli epiteti razzisti. L’incontinenza verbale di James
Ellroy non ha bisogno di ulteriori presentazioni: le allitterazioni
continue si svolgono in una sorta di rap senza sosta, le parole
scorticate, incastrate l’una nell’altra in un ritmo contagioso,
frenetico e assurdo quanto geniale, nel riproporre il gergo della
street life. Più racconto che romanzo compiuto, Scasso con stupro è
buon riassunto delle ossessioni di James Ellroy, non esaustivo, non
definitivo, e da incastrare tra gli episodi precedenti (e quelli successivi), ma pur sempre avvincente.
giovedì 18 maggio 2017
Gore Vidal
Scorrendo
le pellicole che più ha amato, in Remotamente
su questi schermi Gore Vidal si
lascia convincere da una considerazione che, pur partendo dall’intima
natura cinematografica, si rivolge a un orizzonte decisamente più
ampio: “Non penso che nessuno abbia mai trovato allarmante l’idea
che non importa tanto quello che le cose sono, quanto come esse
vengono percepite. Percepiamo, per esempio, per esempio il sesso non
tanto come esso è nella sua dimostrabilità, quanto come pensiamo
debba essere, una volta da noi accuratamente distorto attraverso le
chiese e le scuole, la stampa e, con esultanza, il cinema, il quale
in fin dei conti è la sola convalida alla quale tutto il tedioso
mondo anteriore della realtà, deve sottoporsi”. Il sesso non è
l’argomento principale di Remotamente
su questi schermi. La spinta viene
dalla (prima) guerra del Golfo perché, come scrive Gore Vidal “nel
febbraio 1991, la storia è stata inventata davanti ai nostri occhi”,
e a quella (e alla politica), sovrappone l’autobiografia e il
cinema (nonché la televisione e l’immagine in tutte le sue
estensioni). I tre strati vivono in simbiosi, non sempre pacifica, ma
con un ritmo indolente e costante, punteggiato da una sana ironia,
Gore Vidal li associa in modo spontaneo, senza soluzione di
continuità. La saga del complesso albero genealogico della sua
famiglia, due guerre mondiali concluse da “un’enorme nube fallica
seminatrice di morte” si intersecano con l’epopea del cinema
visto che “i film sono la lingua
franca del ventesimo secolo”. Non
è soltanto quello: lo schermo e il buio della sala offrono l’humus
ideale per deformare la storia, per ricondurla alla versione utile al
governo di turno, all’emergenza del momento mentre, come spiega con
meticolosa precisione Gore Vidal, “una funzione primaria della
narrativa è quella di produrre empatia a beneficio di tutti coloro
che altrimenti mancherebbero delle capacità di comprendere quanto
un’altra persona sente o pensa”. Gore Vidal dissimula l’obiettivo
nelle lunghe pagine in cui ricorda, racconta e celebra le produzioni
delle dinastie di Hollywood all’epoca dei film muti e in bianco e
nero, Frank Capra e Orson Welles, Eudora Welty e Mark Twain con Il
principe e il povero, poi ammette
che il cinema propaga “quel tipo di conoscenza profonda del cuore
umano che si acquista dall’aver visto tanta storia sullo schermo”.
Si capisce che il mezzo è ambivalente, la lezione resta disattesa ed
è lì in mezzo che la lettura cinematografica diventa una critica
più lungimirante: “A parte gli attori, è interessante notare
quanta poca empatia venga coltivata o apprezzata nella nostra
società. Lo attribuisco al nostro tradizionale razzismo e alla
nostra ossessiva faziosità. Anche così, si potrebbe pensare che
dovremmo sentirci incoraggiati a proiettarci nella personalità di
qualcuno di razza o classe differente, se non altro tenerlo sotto
controllo. Tuttavia non facciamo alcuno sforzo”. Messa da parte
l’empatia, la limitata visione si accorda con quelli che Gore Vidal
chiama “i fatti convenuti”, l’ultimo frutto di una metamorfosi
che ha sostituito la realtà e annullato la verità. Il processo è
lo stesso del cinema, solo che ormai “alla fine è colui che porta
la storia sullo schermo a fare la storia”. Basta riavvolgere quel
film fino al fermo immagine del 1991, per capire che Gore Vidal aveva
visto giusto. Fin troppo.
martedì 16 maggio 2017
Sarah Manguso
Di fronte al suicidio dell’amico (quasi fratello) Harris, Sarah Manguso si aggrappa a tutto quello che gli rimane e non c’è molto, oltre alla scrittura. Nel suo caso è una trappola, non meno pericolosa degli “episodi” che hanno condotto Harris a lanciarsi contro un treno. Il dilemma è inattaccabile: “Non ho nessun interesse a costruire una storia vera sull’impalcatura artificiale di una trama, ma qual è la storia vera? Il mio amico è morto. E questa non è una storia”. Il salto non è nemmeno un romanzo, se è per quello, questa chiarezza, la precisione nella scelta delle parole, l’accuratezza delle frasi, l’identificazione delle emozioni, la loro collocazione non consente dubbi, o altre aspettative. La ricostruzione del suicidio in effetti è il grimaldello con cui Sarah Manguso riesce a scardinare le serrature del disagio mentale, della sofferenza e della dipendenza dai farmaci (effetti collaterali compresi nel prezzo). Un livello che Sarah Manguso non teme di affrontare, dove anzi si rivela lapidaria quando dice che “la diagnosi dipende dalle affermazioni di una persona le cui affermazioni sono, per definizione clinica, inaffidabili”. Il paradosso aiuta a capire che “non c’è niente da misurare, solo giudizi su cosa è insolito o bizzarro, cosa costituisce una difficoltà o incapacità”. Qualcuno apre una porta, o la chiude, e il riferimento costante all’idea stessa del suicidio, compreso il fantasma di Spalding Gray, accostato in parallelo all’11 settembre 2001 si riflette nei movimenti, un paragrafo dopo l’altro, come la stessa “fisarmonica” a cui pensa Sarah Manguso mentre guarda le Twin Towers che crollano. La collocazione di Harris nell’elaborazione del lutto e del dolore è faticosa perché Sarah Manguso si scompone tra l’esigenza del ricordo e quel tentativo di non inventare niente votato al fallimento, fino all’unica “spiegazione reale: l’amore rimane. Non c’è altro conforto”. L’elegia per un amico si trasforma in un flusso di coscienza, un po’ autoanalisi, un po’ invettiva, anche se il bersaglio resta inafferrabile, il tono, non addomesticato, sparato in faccia, è palese. “Non mi interessa scoprire come gli altri recitano il dramma della loro rovina. Voglio sapere del mio dolore, come quello di tutti” dice Sarah Manguso e tornare al suicidio implica scendere ancora e ancora nel tunnel della metropolitana, rivivere all’infinito “la nostra dose di tragedia”. Concentrarsi su quel singolo istante in cui Harris, credendo, forse per la prima volta, di poter disporre della sua vita, decide di spiccare Il salto che la concluderà, lì, sui binari. E’ vero che il suicidio è “una soluzione a portata di tutti”, un gesto unilaterale di unica, disperata e profonda liberazione, ma è anche vero che incide l’anima, “come se il tempo avesse commesso un errore”. Troppo definitivo per una cosa così provvisoria quale è la vita. Questo Sarah Manguso lo sa bene (i suicidi che deve affrontare sono due, tra l’altro) e non si accontenta. Nella ridefinizione di Sarah Manguso, Il salto è quasi un calvario laico, con le sue stazioni, i suoi livelli, il suo rosario snocciolato nel tentativo di trovare una soluzione a quella complicata equazione che dice: suicidio per affrontare la vita uguale morte, risultato finale che non cambia mai. L’incognita è sempre quella possibilità, quell’estrema chance, che resta lì, come un’accusa in attesa di giudizio, visto che “il problema non è tanto che il mio amico è morto, ma che io non so descrivere il problema secondo principi primi. Tutte le parole che conosco hanno perso la loro precisione nella storia”. Il salto è un’esperienza che graffia la pelle, anche se nelle sue brevi cento pagine Sarah Manguso pretende ben poco dal lettore, grazie a uno stile chiarissimo, a tratti persino elementare. Chiede attenzione, quella sì, per forza, ma Il salto non fornisce le risposte, visto che “scrivere non è mai davvero sicuro. Si scrive in un istante, l’istante in cui la realtà è meno mutevole, e poco dopo quella realtà sbiadisce, si avvicina allo zero”. Il passaggio matematico è inevitabile, ma come si intuisce nella volontà di Sarah Manguso l’esercizio della scrittura ha una specifica funzione nell’ordinare il pensiero e i suoi disturbi, poi ci vuole fortuna, perché “le pagine vanno riscritte e annerite molte volte, ma c’è sempre molto da ricordare e molto da scrivere”. Coraggiosa.
domenica 7 maggio 2017
Lydia Davis
I
racconti di Lydia Davis vanno letti (almeno) due volte, forse tre.
Quelli più brevi, in particolare, sembrano bozzetti che rivelano,
come scrive in Il
viaggio del signor Burdoff in Germania,
“una fresca innocenza mentre espongono la loro debolezza” e sono
immediatamente riconducibili al frammento di un’opera più che a
un’opera vera e propria. Preso atto che “sono solo le parole in
quanto tali a intendere quello che dicono”, dalla seconda lettura
in poi cominciano a mostrare una filigrana raffinata dentro
l’ossessione per il ritmo di Lydia Davis. I nomi, i caratteri, le
descrizioni degli ambienti sono relativi, ma la trama viene in
superficie e dopo un po’, i protagonisti prendono forma e sono
spesso uomo e donna, marito e moglie o comunque personaggi per cui,
come scrive in Che
cos’era interessante,
“il fatto che fossero coinvolti in una relazione amorosa avrebbe
dovuto essere interessante, perché di solito è più interessante
quando c’è una relazione, di qualsiasi tipo, piuttosto che quando
non c’è, e una relazione amorosa sofferta dovrebbe essere più
interessante di una facile”. Il pensiero è sempre rivolto
all’altro, a una rapporto all’interno di un’equazione, visto
che la scrittura di Lydia Davis solleva dei punti di domanda, per
quanto mai espliciti o diretti, come succede in Un
paio di difetti che ho:
“Ci sarà sempre un momento, quel giorno o uno o due giorni dopo,
in cui mi porrò quella domanda difficile, una volta sola, o tante
volte di seguito, una domanda inutile, in realtà, perché non sono
io che posso rispondere e chiunque altro ci proverà darà una
risposta diversa, anche se ovviamente la somma di tutte le risposte
potrebbe risultare essere quella giusta, ammesso che esista una
risposta giusta a una domanda del genere”. Si nota, già da questo
passo, come l’impostazione sia sempre in funzione della cadenza e
l’arte della reiterazione è sublimata in ritagli di una pagina
proprio come se Lydia Davis seguisse dei codici particolarissimi,
dettati dalle parole, e soltanto da quelle. Anzi, dagli spazi
occupati, o non occupati, dalle parole, dalle battute seguendo
un’improvvisazione di stampo jazzistico o le volubili variazioni di
Glenn Gould, a cui è dedicato uno dei racconti più intensi
dell’Inventario
dei desideri. A
volte si tratta proprio di sequenze progressive, e succede in Jack
della campagna,
Problema
e Gli attori,
con le medesime incognite. E’ un senso unico e univoco che Lydia
Davis esplora fino all’eccesso, nella riflessione e
nell’introspezione, celebrata in Una
seconda possibilità:
“Se solo avessi la possibilità di imparare dai miei errori, lo
farei, ma sono troppe le cose che non si fanno due volte; anzi, le
cose più importanti sono proprio quelle che non si fanno due volte,
e quindi uno non le può fare meglio la seconda. Fai un errore e
capisci che sarebbe stata la cosa giusta da fare, e sei pronto a
farla, qualora dovesse ripresentarsi l’occasione, ma poi
l’esperienza successiva è molto diversa, e fai altri errori di
valutazione, e anche se a quel punto sei preparato per l’esperienza
qualora dovesse ripetersi, non sei preparato per l’esperienza
successiva”. L’idea, neanche a dirlo, è ribadita e ampliata in
Liminale:
l’omino: “Nel
momento in cui si raggiunge un limite, quando davanti non c’è
nient’altro che buio, compare ad aiutarci qualcosa che non è
reale. Per un altro verso tutto questo è simile alla pazzia: un
pazzo che non trovi aiuto ai suoi problemi in nulla di reale comincia
ad affidarsi a ciò che non è reale perché vi trova aiuto e ne ha
bisogno dato che le cose reali continuano a non aiutarlo”. Rimane
una scaltra ironia perché Lydia Davis sa, come scrive in Estratti
da una vita che
“l’arte non si trova in un qualche luogo lontano”, ma poi
insiste nel paradosso fino all’ultimo calembour, in Esempi
di confusione,
dove dice: “Mi è stato così difficile trovare questo posto, che
penso di non averlo trovato”. Sorprendente, singolare, spiazzante.
venerdì 5 maggio 2017
Patti Smith
Prendere
nota degli anni, perché la definizione dei limiti, quando l’arte è
l’unico “movente”, è essenziale. Come è specificato con
precisione, Il sogno di Rimbaud
racchiude “poesie e prose 1970-1979”, anni di fame e di
attrazione, di lampi e di Stratocaster, di alchimie e di anarchia.
Proprio in mezzo, nel 1975, c’è lei, sulla copertina di Horses,
ritratta da Robert Mapplethorpe, compagno e complice d’avventure.
Lo snodo rimarrà sempre quello, e se ne trovano fragili tracce,
sparse e nascoste sui bordi delle pagine che contengono Il
sogno di Rimbaud, come piccoli segnali a
ricordare “un tempo che sanguinava in altro tempo. Un tempo che noi
aggredivamo, sfumando ed espandendo i perimetri dell’amore, della
coscienza e del rimorso. Spinti dalla speranza comune di mostrare
degli aspetti dell’arte, della poesia e del rock’n’roll, ma
anche dell’amore fra gli uomini, che non si erano mai svelati
prima”. Nell’avvertenza per il lettore, Patti Smith si spinge
anche più in là, definendo i margini tra celebrazione e nostalgia,
passato e futuro: “Eravamo innocenti e pericolosi come bimbi che
attraversano un campo minato. Alcuni non ce l’hanno mai fatta. Ad
alcuni la sorte ha riservato campi ancora più infidi. E ad alcuni
pare invece sia andata bene, sono sopravvissuti per ricordare e
rendere omaggio agli altri”. Dedicato più a se stessa che a
Rimbaud, attraverso la lettura e la collocazione di compagni di
viaggio, eroi, miti e passioni, Patti Smith sviluppa il moto perpetuo
della sua insistente vocazione all’arte, con la famelica voracità
dell’autodidatta e un’inesauribile curiosità. I nomi scorrono
come un torrente gonfiato dalle piogge della primavera e in un felice
disordine appaiono: Edgar Allan Poe, Picasso, Rothko, Brancusi, Edith
Piaf, William Burroughs, Bresson, Diego Rivera, Pollock, Pasolini,
Michelangelo e Robert Frank. Davanti alle fotografie in bianco e nero
di The Americans,
Patti Smith tenta ancora di “decidere cosa vuol dire essere
americana”, ed è uno degli infiniti giochi di parole, rebus e
associazioni che costellano Il sogno di
Rimbaud. Il flusso di coscienza è più
diretto, immediato e innocente quando si tratta di rock’n’roll
perché “la musica è viscerale, poesia come intreccio, una poesia
è un insieme di parole”. Little Richard, Mick Jagger, Brian Jones,
Jimi Hendrix, Dylan vengono evocati in continuazione, con assiduità,
visto che “la chitarra elettrica è una voce non meno che un
congegno”. Più di tutti, in realtà, Il
sogno di Rimbaud è popolato dal fantasma di
Jim Morrison, “il nostro agnello di cuoio” che appare a più
riprese tra brandelli delle canzoni dei Doors e le preghiere che
Patti Smith gli riserva, quasi come un rito quotidiano. Ancora a lui
è dedicata un’ampia parte nella coda che conclude Il
sogno di Rimbaud, con L’urlo
della farfalla. Le “riflessioni su An
American Prayer” riguardano l’album
postumo assemblato dai Doors e pubblicato verso la fine del 1978. Le
date cominciano a farsi interessanti perché Il
sogno di Rimbaud viene delimitato in sostanza
dalla scomparsa di Jim Morrison e dalla resurrezione della sua voce,
anche se, come ammette Patti Smith, “c’è un che di vagamente
sacrilego nello scrutare un artista attraverso le mani degli altri”.
A quel momento, con il “bacio assoluto” e la “carezza della
morte” di Jim Morrison, Patti Smith riannoda il ricordo dell’ultimo
concerto di quella stagione, quello di Firenze. La gioia della
libertà e le “future fragranze” si scontrarono con un altissimo
prezzo da pagare e qui le coincidenze non mentono, anzi sono più
eloquenti della poesia perché Il sogno di
Rimbaud è diventato di pubblico dominio
insieme alla rivisitazione digitale di An
American Prayer, quando Patti Smith aveva
ormai imparato a portare il “fardello della mutazione”. Si era
ormai prossimi alla fine del ventesimo secolo, e magari “il quadro non è
completo, ma la parte migliore del viaggio resta intatta”.